Improvvisamente alcune zone rurali
dell’Islanda hanno ripreso a prosperare, questa volta con hotel e
ristoranti invece di pecore e lavoro agricolo. Una cittadina nel
Nord è diventata la «patria del whale-watching», un’altra nel Sud è
«la patria dei vichinghi». E la rinascita del centro di Reykjavík è
stupefacente: ora quel vecchio quartiere pullula di vita giorno e
notte, anche se è raro sentire per quelle vie una parola di
islandese. Quando io ero ragazzino c’era un solo ristorante a
Reykjavík, una sola hamburgeria, una sola discoteca e un solo
individuo che vagabondava per la città (era la nostra street life, benedett’uomo). Oggi apre un
ristorante nuovo alla settimana. Tutt’a un tratto abbiamo un’intera
gamma di menu tra cui scegliere, un centinaio di locali
cool e modaioli che ti fanno credere di
essere a Brooklyn o a Bangkok nel momento in cui metti il piede in
quel design trendy, con tutti quei
cardini arrugginiti e quei bancali di legno grezzo usati come
panche («cena senza schegge» è diventata un’espressione
idiomatica).
C’è chi protesta che
l’alberghizzazione e la borghesizzazione di 101 Reykjavík, il cuore
più antico della città, l’abbiano lasciata un po’ senz’anima, che
un certo fascino se ne sia andato, e cioè il fascino della vecchia
e noiosa Reykjavík che conoscevamo da ragazzi. Ma sono proprio le
ultime fettine di questa noia che vengono cercate, fiutate e
scovate dai turisti stranieri più hip e cool.
E questa, probabilmente,
è la parte per noi più dura di tutte, come ha fatto ben notare
Bergur Ebbi, il nostro scrittore e comico locale. Tutta la nostra
infelicità, i nostri più cupi momenti di depressione
preadolescenziale adesso se li godono hipster fighetti, assetati di
quell’autentica esperienza islandese: adorano starsene là fuori nel
nevischio e al buio ad aspettare un autobus stizzoso che è in
ritardo di venti minuti e che ti schizza tutti i pantaloni di
gelida fanghiglia marrone quando finalmente arriva. In borsa hanno
il vecchio lp consunto, appena comprato, della band islandese degli
anni Settanta che tormentava i nostri anni di
teenager.
«Un americano indica una montagna coperta di
ghiaccio e chiede: “È quello il Polo Nord?” Un austriaco domanda
serio alla guida: “Se dovessi cadere in un flusso di lava, posso
nuotare al solito modo?”»
5.
Dopo aver parlato con le due filippine che
avevano affittato la mia casa d’infanzia per il weekend, mi sono
offerto di portarle in macchina alla fermata dell’autobus che
stavano cercando. Aveva cominciato a nevicare forte e stava
diventando sempre più difficile orientarsi. Hanno accettato con
entusiasmo e una volta scambiate quattro chiacchiere con loro ho
trovato il coraggio di chiedere se l’appartamento che avevano preso
in affitto fosse ok. «Be’, sì, è abbastanza ok, ma è un po’ vecchio
e puzza» hanno risposto. «Probabilmente prima ci vivevano dei
troll!» e hanno riso per tutto il tragitto fino alla fermata.
Le avevo appena mollate,
quando si è accostata al mio fianco una piccola utilitaria.
Abbassando il finestrino ho visto una giovane coppia di giapponesi
piuttosto ben messi.
«Scusi, può dirci a che
ora accendono l’aurora boreale?»
«Mi spiace, a causa di
un improvviso calo di corrente non ci saranno aurore boreali per le
prossime due settimane» ho risposto. Ma notando la loro angoscia e
con la sensazione di aver appena impedito il concepimento di un
bebè, mi sono messo a ridere e ho spiegato:
«No, scherzavo. Stasera
comincia alle 23:30. Finisce alle 00:15. I biglietti si comprano
all’Harpa, giù al porto.»