Emanuela Giordano
Non si butta mai
niente
neanche le vecchie
Buongiorno a tutti,
questo è un appello. Tranquilli, non chiedo soldi. Mi occorre solo un po’ del vostro tempo. Un quarto d’ora mi basta. Se non avete neanche quindici stupidi minuti da dedicarmi, lasciate perdere. So già che ve ne pentirete ma insomma, non vi posso obbligare. In caso contrario, quando avete finito di leggere, se l’idea vi convince, firmate e lasciate il vostro indirizzo mail, altrimenti amici come prima.
Tutte queste pagine per raccontare cosa? Come si può cambiare il mondo senza fare la rivoluzione, o quasi.
Vi avverto: se incappate in qualche digressione sentimentale fa parte del “pacchetto”. Come si diceva un tempo: «il personale è politico» e viceversa. Questo è quanto.
Io abito in una strada poco frequentata dai turisti, anche se ci troviamo ad un passo dal Vaticano. È un viale molto trafficato, da cui si raggiunge l’Aurelia e altre zone più residenziali, costruite a partire dagli anni cinquanta, con criteri abitativi molto diversi. Insomma, io vivo, e ne sono orgogliosa, in un avamposto storico di Roma Nord. Qui, nel dopoguerra, hanno piantato una ventina di platani, dedicati ai partigiani del quartiere, tanto per capirci. È sempre stata una strada vivace e popolare che ha mantenuto, almeno in parte, quelle caratteristiche di autenticità che si sono perse in molti altri quartieri di Roma e in quasi tutte le metropoli del mondo. Purtroppo il prezzo degli appartamenti è salito alle stelle e quindi tanti di noi hanno ceduto alle lusinghe del vile denaro. Nel mio condominio le amicizie non erano neanche di quartiere, erano di caseggiato. Mia madre, per esempio, si è sposata il dirimpettaio, quello della scala G, cugino della sua compagna delle elementari della scala A. Per darsi un appuntamento si chiamavano da un palazzo all’altro, da una finestra all’altra, i cortili facevano da cassa di risonanza; ma siccome là sotto i pischelli giocavano a pallone, acchiapparella, ruba bandiera, campana e buzzico rampichino, si viveva in un chiasso infernale. Dai quattro anni in su, non li tenevi chiusi in casa neanche a mazzate; il cortile fungeva da asilo, palestra, terreno di scontri e di incontri, sfogatoio, crocevia di sguardi, era tutto, era il loro mondo, era il mio. Abbiamo vissuto anche periodi in cui non si poteva andare a scuola e neanche valicare il cancello per affacciarci sul marciapiede, è successo durante le epidemie, i bombardamenti, l’occupazione nazista. In quell’anno di inferno, i lavatoi all’ultimo piano si popolarono segretamente di giovani renitenti alla leva e di partigiani. Se per disgrazia spuntava nel cortile qualche tipo sospetto, le nonne si mettevano a vociare più forte del solito per avvertire del pericolo. Fino agli Anni Settanta, quando non poteva uscire di casa, mia madre metteva dentro a un cesto di paglia la nota della spesa e calava giù. Il vicino andava al mercato, tornava con le compere, avvertiva con un fischio, metteva tutto nel cestino e lei tirava su. Il grado di civiltà di un popolo si può misurare anche da quanti cestini sono stati calati dalle finestre. Quell’usanza indicava l’attitudine alla collaborazione, al buon vicinato. Vi sembra poco? Pensateci. Tutto questo “sentire” comune non è durato molto. I condomìni, con il tempo, hanno assunto un‘aria piccolo borghese, si sono moltiplicati i divieti e così gli spazi comuni hanno perso il loro valore identitario. La mia generazione, sono nata nel 1950, credo sia stata l’ultima a godere, e solo in parte, di questo “laboratorio di socialità”.
Io abito nella scala H. Entri dal cancello di ferro, a sinistra, superi il primo giardino, scendi due scalini, altro spazio condominiale con le rastrelliere per le biciclette, un secondo cortile alberato e trovi il mio portone, sali al quarto piano, puoi anche prendere l’ascensore, ormai l’abbiamo messo anche noi; ecco io abito qui. Entra pure. Accomodati. Be’? Che ne dici? Sì, sono una donna fortunata, a destra vedo la punta della cupola di San Pietro, a sinistra Monte Mario e di fronte la multiproprietà di quello della scala C: tre anni fa si è comprato attico, superattico e terrazzo condominiale, che coltiva a cannabis. Nota dolente: questo megalomane ha trasformato i vecchi lavatoi in altre due camere per gli ospiti, ampliando la cubatura, e sul lastrico solare ha piazzato un gazebo sette metri per cinque di vetro e alluminio anodizzato, con palestra, sauna e lettino per i massaggi. A volte i megalomani sono anche incivili, questo è il caso del signor Mottura, come le serrature, ma lui non appartiene a quel ramo di famiglia, più facile che sia uno scassinatore, volendo utilizzare i parametri fisiognomici di lombrosiana memoria. Mottura spara la musica a palla fino alle tre di notte, organizza continuamente feste con gente assai tamarra, e mai che si sia scusato! In compenso, se prima di mezzogiorno qualcuno di noi incontra in cortile un vicino e osa scambiarci due chiacchiere, Mottura inveisce, bestemmia, minaccia. Sua moglie, la signora Mottura, è una russa tatuata anche sotto le ascelle, si dà arie da gran signora ma non ti saluta neanche se le vai a sbattere contro. Hanno un figlio di quattro anni che poverino è uguale spiccicato al babbo, ma nessuno gliene fa una colpa, siamo gente civile. Vladimir è accudito da una tata rumena: Ramona, trentanove anni, due figli e un marito scappato in Bulgaria con la classica, quasi anacronistica, ballerina di lap dance. Nonostante il marito l’abbia accannata, lasciandole un fracco di debiti (è lei a raccontarlo, utilizzando questa colorita terminologia) Ramona, dicevo, è sempre allegra e disponibile. Una donna sorprendente, parla romanesco ma ogni tanto lo impreziosisce di aggettivi come “disarmante”, “sporadico”, “infausto” che ha imparato dai romanzi che le presto. Ramona lavora tutto il giorno, e la sera, in metropolitana, divora un libro dietro l’altro. Mi dà grandi soddisfazioni la ragazza. Sono una ex bibliotecaria, ora in pensione. Mia sorella Anna, del 1948, dopo il matrimonio se n’è andata a vivere a Udine, ha sfornato tre figli uno dopo l’altro e per anni l’ho vista solo a Natale e Pasqua, ma finché non si è sposata abbiamo vissuto in questa casa, con mamma, papà e nonna Alberta. Poi, via uno, via l’altro, sono rimasta solo io. Mi sono fidanzata tante volte ma non ho mai convolato, un attimo prima di affrontare il grande passo scoprivo qualche magagna. Mi sono capitati solo pretendenti difettati. Hai presente quando trovi un capo d’occasione e mentre vai a pagarlo, tronfia per l’affare, scopri un buco sulla manica, una macchia sospetta o uno strano odore di muffa? Che fai? Rinunci. Ormai escludo che mi capiti un saldo di qualità. Per Anna, il matrimonio è stato come una divisa di ordinanza, l’ha indossato con dignità, senza mostrare mai quello che c’era sotto. Ora che il marito è morto e i figli vivono all’estero (senza fantasia di figliare), conviviamo allegramente, prendendo la vita per come viene. Io le consiglio film e romanzi e lei mi insegna il Qi Gong. A Udine frequentava un maestro cinese che le ha trasmesso molto del suo sapere. Noi facciamo gli esercizi alle sette del mattino, quando nessuno frequenta la terrazza condominiale della scala H. L’unica che ci vede, dall’altra parte del cortile, è Ramona, la rumena romana (non ricordo a chi dobbiamo l’invenzione di questo idiota sciogli lingua). Ogni mattina, alle sette entra in casa dei Mottura, sveglia il piccolo Vladimir, lo lava, lo veste, gli fa fare colazione e lo porta all’asilo. Quando torna si mette a innaffiare la cannabis sul terrazzo. Ci salutiamo con ampi gesti delle braccia per darci appuntamento più tardi al bar del mercato, dove ci aspetta il miglior caffè del quartiere.
I signori Mottura, come sapete, dormono fino a tardi. Guai a svegliarli prima di mezzogiorno; così lei, dopo aver dato una sistemata, scende a fare la spesa. Frequentiamo gli stessi banchi. Dopo un’accurata selezione sappiamo con certezza dove trovare il pesce più fresco, la carne bio, l’insalata senza pesticidi aggiunti. La Marisa per esempio ti vende solo la misticanza e la cicoria del suo orto. Ogni mattina all’alba parte da Pomezia con il suo camioncino per scaricare alle sei. Fa tutto da sola, a sessantacinque anni suonati. Un mito la Marisa.
Il caffè con Ramona è il nostro rito quotidiano, qualche volta ci raggiunge anche Pia, compagna di scuola e di vita, nonché veterana del condominio. Abita al mezzanino della scala C. È una settantenne vivacissima, impegnata a fare volontariato, non si perde una manifestazione di protesta, non importa che protesta, basta sia democratica e antifascista. È nata “partecipativa”, una di quelle creature meravigliose che ancora si scandalizzano per le ingiustizie, le guerre e l’arroganza dei potenti. Da ragazze frequentavamo la stessa sezione del PCI, con sede nel condominio accanto. Io poi mi sono distratta, mia sorella si è auto esiliata a Udine, ma lei, Pia, è rimasta fedele al partito, finché non si è estinto, a quel punto ha mandato a fanculo tutti e si è messa a fare la cuoca, ma questa è un’altra storia. Ricordo le lunghe discussioni politiche che facevamo con Armando, il ragazzo della scala D, un tipo in gamba. Lo prendevamo in giro perché veniva dalla provincia di Bergamo, suo padre era stato trasferito a Roma per lavorare al catasto. Aveva conservato una leggera inflessione lombarda che a noi, povere sceme, ci faceva sbellicare dal ridere. Ogni tanto Armando distribuiva volantini davanti al mercato, partecipava al servizio d’ordine delle manifestazioni di piazza, ci sorprese anche con qualche comizio niente male, insomma il ragazzo aveva la stoffa del leader. Il giovane leader politico suscita sempre un certo interesse, in noi ragazze decisamente lo suscitava. Non ce lo siamo mai dette ma sospetto che piacesse a tutte e tre. Ora Armando vive solo, dopo un matrimonio catastrofico con una trozkista volta gabbana che ha fatto carriera politica vendendo l’anima al diavolo. Armando, botanico d’eccellenza, un tempo curava personalmente le piante del giardino condominiale; venivano ad ammirarlo da tutta Roma (il giardino, certo, ma anche Armando). Dopo il divorzio ha perso ogni interesse, è stato travolto da un declino veloce: lui che svettava con il suo metro e novanta, dritto e riccioluto, si è curvato, incanutito, rinsecchito, cammina storto, lamenta dolori alla schiena: se lo incontri non diresti che è lui. Anche il giardino ha perso il suo fascino, ci siamo abituati ad attraversarlo di fretta, senza badare alle poche piante sopravvissute all’incuria.
La nostra vita è cambiata quando il governo ha deciso di chiudere le scuole. Decisione necessaria e indispensabile. Fanno già fatica gli adulti a rispettare le poche regole di buon senso che ci sono state suggerite: niente baci, abbracci e sputazzi, figuriamoci i bambini, portatori sani e inconsapevoli di questo virus letale e sconosciuto. Quel giorno me lo ricordo bene: Ramona beveva lacrime e caffè. Non la smetteva di singhiozzare e ci siamo preoccupate. Stavamo assaporando la nostra quotidiana razione di buon umore, a distanza di sicurezza, diligentemente un metro l’una dall’altra, quando è scoppiata a piangere: «E io ora come faccio? Se i bambini non li porto a scuola co’ chi stanno? I padroni mi pagano bene, per carità, so’ fortunata, ma lo sapete: all’inizio non mi volevano proprio, una donna sola co’ due figli a carico… per fortuna che Vladimir si è affezionato, se no a quest’ora…»
«Eh no, scusa.» Pia ha cominciato ad alzare la voce: «Voglio vedere dove la trovano una come te?!». Anna e io le siamo andate dietro: «Lavi, stiri, cucini, porti il pupo a scuola, lo vai a riprendere, ci giochi, gli dai da mangiare, ma cosa vogliono questi di più?». Ramona, per venire a lavorare, attraversa la città in metropolitana; da quando è scoppiata l’epidemia, prima di entrare in casa è obbligata a spogliarsi da capo a piedi. La russa scende dal letto per presiedere all’operazione: la spruzza di aceto e Amuchina, la schiaffa sotto una doccia ustionante e la fa rivestire con la divisa da cameriera. Così bonificata Ramona comincia a occuparsi del bambino e della casa mentre la signora torna a dormire. Ma stamattina l’ha detto chiaro: «I patti sono questi, io ti pago, tu mi servi, se non vieni al lavoro sei licenziata».
Anna, Pia e io non abbiamo avuto bisogno di aggiungere nulla, c’è bastato guardarci negli occhi: dovevamo salvare Ramona e dare una lezione a quei due bastardi.
Mentre la poveretta comprava le mazzancolle dal Conte e si faceva sfilettare la sogliola per Vladimir, noi ci siamo radunate intorno al banco di Marisa per ragionare sul da farsi. E lì ci è venuta l’idea.
Dopo neanche un’ora, Anna bussa alla porta dell’Armando, Pia telefona all’amministratore del condominio e io mi metto al computer per buttare giù il programma:
Cari condomini,
Ora che la vita di ciascuno di noi sta cambiando, abbiamo deciso di renderci utili: vogliamo mettere a disposizione il nostro tempo e i nostri “talenti” al servizio degli abitanti del civico 7. Siamo dieci scale, novanta famiglie, una ventina di bambini (più, ma questo non lo scrivo, i due figli di Ramona). Almeno la metà di questi bimbi da lunedì non saprà cosa fare e con chi stare, perché i loro genitori lavorano e non si possono fermare, altrimenti si ferma la città. Abbiamo a disposizione spazi condominiali che per decenni sono stati il naturale scenario di giochi, scherzi, vita infantile. Qui di seguito vi elenchiamo gli orari e le attività ricreative che intendiamo…
Mi fermo, sullo schermo del computer è apparsa una finestrella con una notizia che mi fa rabbrividire: tutta l’Italia è considerata zona rossa, il contagio si moltiplica, le strutture sanitarie sono al collasso, si chiede a tutti i cittadini over sessantacinque anni di restare a casa, evitando contatti con il prossimo, i bambini, specialmente, portatori asintomatici del virus.
Mi viene da piangere. Per un momento avevo sognato di leggere ai più piccoli le favole di Gianni Rodari, mentre Anna dava lezioni di arti marziali nel cortile centrale. Pia avrebbe insegnato a fare le ciambelle ai patiti di cucina e Armando avrebbe allestito con i piccoli volontari un “orto di guerra”, grazie al sostegno di Marisa che ci avrebbe portato da Pomezia le piantine da interrare nei vasi. E poi cacce al tesoro, gare di rime e parolacce inventate… L’idea era questa. Non era bella? Non era giusta? Non era l’idea delle idee?
Suonano alla porta. È Pia con la cugina che vive sullo stesso pianerottolo, un ex cantante jazz; si offre volontaria per la nostra impresa. Lei è la più vecchia tra noi ma la sua voce risuona limpida e potente come quando aveva vent’anni. Sarebbe stato bellissimo, per un attimo mi immagino un coro itinerante di bambini che intona My funny Valentine e a quel punto mi metto a piangere sul serio. Non faccio in tempo a soffiarmi il naso e a spiegare le ragioni del mio sconforto che si palesa anche Anna, con una faccia, ma con una faccia… Ci racconta di aver suonato a lungo al citofono di Armando; il portiere le aveva assicurato di averlo visto rientrare e dato che non rispondeva è andata a cercarlo direttamente a casa, ma anche lì… silenzio. Quando stava per andar via, le è venuto in mente di infilare un foglietto sotto la porta con scritto Ciao Armando abbiamo bisogno di te. Fatti vivo. Solo allora, lentamente, lui ha aperto uno spiraglio. Era in uno stato pietoso, forse aveva bevuto.
«Sono pronto a morire, ma non m’importa.» Queste sono state le sue prime parole, poi vedendola turbata ha balbettato una scusa e l’ha fatta entrare in casa, mantenendo l’adeguata distanza di sicurezza. A pensarci è assurdo: Anna da sette mesi è tornata a vivere qui ma lei ed Armando, finora, non si erano mai incontrati, cercati, salutati. Eppure da ragazzi… il liceo insieme, la pallacanestro, le scampagnate domenicali, stessa età, stesso carattere aperto. Non ho mai capito perché Anna si sia sposata il direttore dell’archivio militare di Udine, tanto un brav’uomo, per carità, ma con la vivacità di un lamantino, altrimenti detto mucca di mare. Magari, chessò, poteva accoppiarsi con Armando, ecco, non sarei stata gelosa, non tanto, non troppo, almeno ci avrei guadagnato un cognato simpatico e tre nipoti alti uno e novanta. Mi deve aver letto nel pensiero perché dopo un istante di silenzio Anna si schiarisce la voce e ci prega di sederci intorno al tavolo: «È arrivato il momento di tirar fuori il rospo». Ubbidiamo all’unisono.
«Ragazze, ci conosciamo da quando siamo nate, ci vogliamo bene, voi siete le custodi morali di questo piccolo paradiso e non sapete quanto sia felice di essere tornata a vivere qui. Credo sia arrivato il momento di raccontarvi le vere ragioni per cui sono scappata, quarantacinque anni fa, per esiliarmi a Udine, una cittadina deliziosa, tranquilla, cordiale ma il mio cuore è rimasto ancorato a questo quartiere, a queste vie, a un amore travagliato e infelice che mi ha scippato la vita. Anche se, devo essere onesta, la colpa è solo mia.»
(Accidenti!) Un attimo fa mi disperavo per il fallimento di una bella iniziativa morta sul nascere, e all’improvviso precipito in un romanzo di Liala, uno di quelli che ci leggeva nonna Antonia, un capitolo a sera, tipo L’ingannevole sogno o Melodie dell’antico amore. Guardo mia sorella con altri occhi e non mi capacito che per quasi mezzo secolo mi abbia nascosto questo suo misterioso dramma sentimentale. Lei, ancora una volta, intercetta e anticipa: «Per quasi mezzo secolo non ti ho detto nulla, è vero». (Sì, sono molto offesa!) «Ma cosa c’era da dire? Armando (Armando?) piaceva a tutte, anche a me; è che crescendo insieme, fianco a fianco, non riuscivo a capire se il rapporto più intimo che lui mi chiedeva…» (Il rapporto più intimo?) «Anche quando mi baciava io…» (Ti baciava?) «Siamo stati insieme quattro anni» (Non ci posso credere!) «un continuo tira e molla, lui avrebbe voluto gridarlo al mondo, mi ha anche chiesto di sposarlo…» (Cosa?!) «non so quante volte ma io… che stupida… era troppo facile, tutto troppo a portata di mano, un amore condominiale, un amore prevedibile come quello dei nostri genitori, non volevo che lo sapesse nessuno…» (Ma perché!?) «Non ero sicura, lui si è stancato, un giorno l’ho scoperto stretto a un‘altra durante un corteo, si baciavano, non ho capito più niente, o forse sì, ho capito tutto solo in quel momento, mio marito l’ho conosciuto una settimana dopo e il resto lo sapete».
Silenzio. Nessuno fiata. Apnea cerebrale. Dev’essere lo shock.
«No, forse anche il resto va raccontato per bene.» (Cos’altro mi hai nascosto sciagurata?!) «Dopo qualche anno ci siamo scritti e lui, qualche volta… molte volte… è salito su a Udine…» (Amanti! Siete stati anche amanti!) «Ma a quel punto era troppo tardi. Per non continuare a farci del male ci siamo giurati di non vederci più. E così sono passati trent’anni.» (Madre santa che storiona! Ecco perché non scendevi mai a casa! Ecco perché ci costringevi a quei Natali su da te, con un freddo boia, mamma e papà intimiditi da tuo marito e i vostri figli che ci trattavano come estranei!)
Sto facendo un rapido consuntivo del rapporto di merda che abbiamo avuto come sorelle. Non proferisco verbo ma lei continua a leggermi nel pensiero: «Renata,» (Mi chiamo Renata) «non me ne volere, sapessi quanto mi è costato non dirti nulla, non sai quanto ho sofferto a starti lontana, è che mi sono vergognata, tutto qui.»
Se non fosse per Ramona che sta bussando alla porta, rimarremmo in silenzio, sedute ai quattro angoli del nostro vecchio tavolo di famiglia, a meditare su quanto è complicata la vita, che magari ti porta via in un attimo, senza neanche il tempo di rimediare a tutti gli errori che hai commesso.
«Posso entrare? C’è nessuno?» La porta è rimasta aperta. Ramona ci trova così: quattro ragazze di una certa età, meste, meditabonde, sfiancate, come reduci di una battaglia senza vincitori.
«Qualche brutta notizia?»
Ci voltiamo a guardarla, lei si avvicina solo di un passo, restando prudentemente sulla soglia del soggiorno. Ramona ci sorride, nonostante questa nuova emergenza da affrontare, e noi vorremmo abbracciarla perché ci riporta con i piedi per terra, a un oggi che non ci permette il lusso di incomprensioni e psicodrammi familiari. Ma sì, francamente, chi se ne frega delle tresche amorose di mia sorella e della sua reticenza durata quasi mezzo secolo!
«Sono venuta per dirvi che rimango fino alla fine della settimana, poi da lunedì resto a casa, se mi licenziano pazienza, ho chiesto in giro, nessuno può tenermi i bambini.»
«Noi! Noi te li teniamo!» grida Pia facendo vibrare i vetri.
«Purtroppo non è possibile, abbiamo superato i sessantacinque anni, un’ora fa hanno comunicato che in quanto soggetti a rischio…»
«Ma quale rischio e rischio!?» Pia mi interrompe colta da un raptus oltranzista: «Io sono sana come un pesce, altro che rischio, sono un valore aggiunto io! Cazzo!».
«Pia, non possiamo fare come ci pare!»
Anna è d’accordo con me: «Se ci dicono che non dobbiamo frequentare nessuno, i bambini specialmente, ci sarà una ragione!»
«Rischiamo di intasare gli ospedali» aggiungo sconfortata.
«A meno che…»
Si palesa all’ingresso, un uomo che assomiglia ad Armando, ma che invece della solita tuta grigia, indossa un bel paio di jeans e un golf dello stesso verde degli occhi, la barba appena rasata, capelli all’indietro, freschi di sciampo, un uomo non proprio dritto, ma almeno, diciamo, dignitosamente eretto. Sì, il nostro Armando, quello di una volta, è resuscitato e ora ci guarda con quell’aria un po' scanzonata e irriverente che è sempre piaciuta a tutte noi.
«A meno che?» incalzo io, dopo il primo istante di sorpresa.
«… non si riesca a organizzare un piano organico, con regole ferree e incentivi per chi le rispetta.»
Anna resta a guardarlo a bocca aperta, con la meraviglia che mostrerebbe Harry Potter davanti all’apparizione di Lord Voldemort, l’unico capace di “rinascere” dopo la sua sconfitta.
«Ma tu neanche un’ora fa mi hai detto che è un’impresa velleitaria a cui non avresti mai partecipato!» Come finisce la frase si pente di averlo detto.
«Vogliamo perderci in polemiche? Se l’ho detto è perché forse non avevo ancora l’energia necessaria per affrontarla.»
Ci guarda, non fiatiamo, e conclude:
«Ma ora ce l’ho!».
Pia batte il pugno sul tavolo, come ai vecchi tempi, in sezione.
«Bene, cominciamo! Chi si iscrive a parlare?»
Ora non voglio farvela troppo lunga ma Lord Voldemort ci ha regalato il meglio di sé. Prima di cena avevamo già stabilito il programma generale e i compiti di ciascuno, le persone a cui chiedere aiuto, il contenuto del volantino da appendere ai portoni delle dieci scale condominiali e tutto il resto. Abbiamo tirato fuori dalle cantine i cesti di antica memoria, perché non si butta mai niente, un megafono degli anni Settanta, una vecchia scatola di gessi colorati, due altoparlanti, un vecchio microfono a filo, abbiamo requisito dai vicini collaborazionisti le finestre per gli affacci strategici, tutti al mezzanino, per essere operativi, noi vecchi, ma alla giusta distanza (ecco l’idea risolutiva di Armando!) Marisa ci ha portato le piantine e la terra concimata da Pomezia, il nostro botanico ha lucidato i suoi arnesi da giardinaggio, io ho scelto i racconti e le filastrocche, Pia ha cucinato ciambelle e Ramona ha sedotto il portiere che ha sempre avuto un debole per lei. Risultato: hanno aderito all’iniziativa tutti i condomini, dimostrando grande senso civico. Gli unici lasciati all’oscuro, sono stati i Mottura.
La divina provvidenza ci ha regalato un clima primaverile miracoloso. Almeno in questo ci è venuta in aiuto.
Il lunedì mattina, il giardino condominiale era già organizzato in quattro macro aree, ciascuna, a sua volta, divisa in spazi delimitati a terra con i colori; ogni bambino ha giurato solennemente di non valicare lo spazio dell’altro. Pia inizialmente aveva proposto una pena esemplare per chi avesse disubbidito, tipo restare un’ora chiuso nel vano caldaia, ma le abbiamo fatto capire che certi metodi stalinisti non hanno mai dato buoni risultati. Si è fatta convincere subito e come premio per i bambini più responsabili ha preparato luculliani biscotti al cioccolato. La cugina Jazz, con l’hobby del cucito, ha realizzato venti mascherine con i ritagli di stoffa colorata. Ogni sera le abbiamo sterilizzate a sessanta gradi con il Napisan, si sono un po' scolorite ma fa niente. Abbiamo avuto la partecipazione di una dozzina di bambini (più i figli di Ramona, infiltrati autorizzati) divisi in piccoli gruppi. Piazzati alle finestre dei mezzanini, noi vecchi li abbiamo fatti cantare, giocare, colorare, hanno inventato storie e gare di rime zozze, hanno praticato le arti marziali e la meditazione come gli infanti giapponesi, ma il capolavoro è stato l’orto diffuso: quattro vasi per ogni angolo di cortile, coltivati a carote, cipolle e lattughina. Pia, munita di binocolo e megafono era pronta a redarguire i più scalmanati, ma nonostante l’eccitazione generale non ce n’è stato bisogno.
Abbiamo svegliato i Mottura ogni mattina alle otto in punto, con cori e rime baciate. Non hanno detto né A né B, forse perché un amico di Armando, comandante dei carabinieri, si è interessato al quantitativo di cannabis coltivato nel loro terrazzo.
Alla fine della settimana, mentre il portiere faticava a tenere i curiosi fuori dal cancello e rilasciava interviste non autorizzate alle telecamere dei TG (la notizia si era diffusa ben oltre il quartiere), altri condomìni ci chiedevano consulenze per replicare il modello ma, purtroppo, è di oggi la notizia di restrizioni ancora più severe ed è necessario rispettarle. Noi per ora ci godiamo il successo dell’impresa, per il tempo che è durata, e già fantastichiamo su come organizzare la festa di matrimonio tra Anna e Armando, quando quest’incubo sarà finito. Nonostante le distanze forzate, il loro amore si è svelato finalmente senza reticenze. Sono volati sorrisi e baci da una finestra all’altra. La loro gioia ci ha contagiato e ha sicuramente rafforzato le nostre difese immunitarie.
Ecco l’appello: dopo che questo mostriciattolo ci avrà finalmente lasciato in pace, quando, poveri e spaesati, dovremo reinventarci l’esistenza, ricordiamoci quanto è importante stare insieme, usiamo tutto quello che ci è rimasto, riprendiamoci i nostri cortili, le terrazze, i giardini comuni, per incontrarci, conoscerci e magari far nascere nuovi amori. Se a questo fragile pianeta le nostre regole non piacciono più, inventiamocene di nuove. Siete d’accordo? Allora firmate e lasciate il vostro indirizzo mail. A presto.
Renata