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Sette del mattino di un giorno freddo.

Sono qui alla stazione da un po’. Sul binario deserto, quello che porta al mare. Non ci va nessuno verso il mare a quest’ora e con zero gradi.

Di sicuro pioverà, sempre che finalmente non nevichi anche a Roma, come prevedono da un mese.

«Se nevica mejo, così chiudiamo baracca e burattini e ce copriamo pure le buche!»

Osservo quella voce: un ometto piccolo con la divisa da ferroviere. Ad ascoltarlo, un signore grande e grosso con la pelle scura. Attraversano il binario come se niente fosse, io li guardo preoccupata. Il signore nero mi sorride: «Tanto il treno sta in ritardo, signo’, come sempre».

Perfetto accento congo-romano.

Sorrido, ma poco: ho le labbra gelate.

Cerco il burro di cacao nella borsa che porto a tracolla. Ma ho le mani intirizzite. Trovo solo una penna e un fazzoletto di carta spiegazzato.

Scrivo qualcosa più che altro per sgranchire le dita della mano paonazza:

“Febbraio. Zero gradi fuori. Meno venti dentro”.

Guardo il binario deserto e la nebbia del primo mattino. Scrivo:

“Dove sto andando?”.

Mi distrae lo sferragliare sui binari.

Il treno in arrivo da Ostia Lido è stracarico. Pendolari imbestialiti per il ritardo. Rassegnazione.

Ferma in piedi sulla banchina, scopro un sacco di cose. Che quella linea è la peggiore d’Italia, per esempio. Forse del mondo. Peggio dei treni indiani, che almeno se ti fermi a metà tragitto vedi un bel paesaggio.

Scopro che a fare i pendolari a quell’ora assurda del mattino non sono solo extracomunitari, come si vede in televisione. Non sono solo operai che vanno nelle poche fabbriche superstiti in periferia. Non sono neanche solo studenti insonnoliti. Per niente.

I pendolari che scendono da quel carro bestiame sono soprattutto donne. Di tutte le età. Sole o con prole. Cariche di pacchi e di pensieri. Arrivano e si sparpagliano per la città, cercando di riparare, con la loro fretta già stanca, a quel ritardo che potrebbe essere fatale.

«Prima o poi mi licenziano, te lo dico io.»

«Ah, e allora tu fai causa alle ferrovie.»

«Seh, vedrai.»

Gente che corre.

Io no. Non ho nessuna fretta. Non ce l’ho oggi, non ce l’ho quasi mai. Da più di un anno, la mia è una vita lenta.

Però ho freddo, e vorrei sedermi da qualche parte. Finalmente apre una specie di bar, entro, vedo un giornale sul bancone. Leggo la data, 4 febbraio. Controllo d’istinto il mio cellulare. Tutto tace, meno male, è troppo presto. Cerco su WhatsApp l’icona di una chat che si chiama Family: nel tondino a lato c’è una piccola foto con tre visi giovani che fanno da cornice alle mie rughe sorridenti.

Family: la mia.

Arriva un messaggio. Lo sapevo.

È un video: i tre visi giovani intonano in coro:

«Tanti auguri, mamma!».

Sorrido. Belli, i miei ragazzi.

Per un attimo penso di rispondere, magari anche di dire dove sono, e perché.

Lascio perdere. Non saprei cosa dire, e poi è troppo presto.

4 febbraio. Ora i gradi sono due. Non nevicherà nemmeno oggi.

Arriva il treno per il mare. Completamente ricoperto da graffiti. Praticamente salgo solo io insieme all’ometto in divisa da ferroviere. L’omone, quello nero, è sparito.

I vagoni sono deserti. Mi aggiro indecisa tra tutti quei posti vuoti. Ripenso alla folla che è scesa poco prima alla stazione romana; stasera affollerà queste carrozze ora silenziose.

Mi siedo vicino a un finestrino, ma non ho voglia di guardare fuori. La periferia romana non è un bel paesaggio all’alba di una mattinata gelida.

Non so valutare il mio stato d’animo.

Eppure, so di aver fatto la scelta giusta.

O forse, l’unica che potevo fare per non restare sepolta in quella noia tranquilla troppo simile a un finale.