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«Burraco pulito!»
«Nun ce se crede, signo’, certo che c’ha fortuna!»
«Alle carte sì. Non che sia brava, ma di solito ho fortuna.»
L’ometto ferroviere si chiama Giuliano, ma si fa chiamare Gi, che è più veloce. Dopo pochi minuti di viaggio ci siamo ritrovati soli e annoiati. Lui aveva un mazzo di carte, io voglia di non pensare.
Con una mano cerco di spannare il vetro.
«C’è poco da spannare, è sporco che fa schifo. Tanto sarebbe inutile lavarlo, ormai s’è corroso il vetro.»
Una frenata fa cadere tutte le carte.
Gi si alza. «Speriamo nun sia crollato ’n altro albero sui binari, che ce famo notte!»
Si riprende le carte, mi sorride soddisfatto anche se ha perso.
«Bella partita, eh?»
Siamo fermi da un po’. Io ho mal di stomaco. Deve essere il treno, puzza di rancido. E poi non prendevo un treno da mesi. Anzi, da anni.
Ci andavo in montagna, con i figli piccoli. Olivia aveva tre anni, una tuta rossa imbottita che non riusciva a muoversi e un gatto nero di stoffa che voleva assolutamente portare sullo slittino. Vagone letto prima classe profumi e balocchi. E i finestrini pulitissimi. Ancora si potevano tirare su e giù con una levetta. L’avevo tirato giù perché Massimo diceva che voleva vomitare. Invece no, voleva solo prendere la neve e fare uno scherzo a suo fratello. Si divertivano. Sempre stati molto uniti i miei bambini. The Brothers, si facevano chiamare. Litigavano come orsi feroci, ma poi si leccavano le ferite l’un l’altro. Lo fanno anche adesso che sono diventati grandi, ma sono meno divertenti.
Uno scossone brusco e ripartiamo. Evidentemente non è caduto un altro albero sui binari.
Pioviccica, gocce spesse e opache scivolano sui vetri sporchi.
I gradi fuori sono diventati sette.
Dentro di me, sempre meno venti.
Alle nove, arriviamo a Ostia.
Ebbene sì, ci abbiamo messo più di due ore per arrivare!
Scendo alla stazione Stella Polare. No, non a quella di Ostia Lido, come suggerisce Gi, il piccolo capotreno già assurto al ruolo di cavaliere della povera donna indifesa. La fermata di Ostia Lido – dice lui rendendo quelle due parole un unico termine da pronunciare tutto attaccato, “Ostialido” – è l’unica dove di sicuro c’è un taxi.
Ma io non devo prendere un taxi. Devo andare a questo indirizzo, e mi hanno detto di scendere a Stella Polare.
Gi legge il biglietto dove ho appuntato un indirizzo: Via delle Nereidi 2. Si consulta con l’omone nero ricomparso chissà come e chissà da dove. Io lo saluto come fosse un vecchio amico, non so perché ma oggi – sì, proprio oggi! – mi sento particolarmente socievole. L’omone mi dice che si chiama Lux, il suo nome vero è impronunciabile, ma comunque vuol dire qualcosa del tipo “luminoso”, e quindi vada per Lux.
Gi e Lux non lo sanno dov’è quell’indirizzo. Insistono per la fermata con i taxi. Sono preoccupati per me, si vede. Possibile che anche due sconosciuti si preoccupino subito per me? Devo avercelo scritto in faccia: incapace di vivere.
Decido che devo sfatare questo luogo comune che mi si è appiccicato addosso non so neanche io perché. Mi do un contegno, esclamo con enfasi: «Io sì che lo so dov’è l’indirizzo dove devo andare!». Poi, come a giustificare quella mia falsa sicurezza, aggiungo: «L’ho visto su Google Maps».
Bugia detta bene, visto che i due si tranquillizzano subito. In fondo, se so usare Google Maps con disinvoltura, non devo essere tanto sprovveduta.
Li saluto con un arrivederci. Riprenderò chissà quante altre volte il treno per Roma, magari ci facciamo un altro burrachino.
Scendo, esco dalla stazione un po’ avveniristica di Stella Polare. Nome gelido, anche lui, perfettamente in linea con i miei meno venti gradi dentro.
L’indirizzo che sto cercando di raggiungere è quello di un appartamento che ho preso in affitto. L’annuncio a cui ho risposto non era molto chiaro nelle indicazioni stradali, ma suggeriva un dato preciso: a soli duecento metri dalla stazione.
Duecento metri. Ce la posso fare.
Magari chiedo, così, per sicurezza. La valigia ha le rotelle, ma pesa comunque. Mi sono fatta convincere a comprare un trolley da mia figlia Olivia.
«Non puoi assolutamente farne più a meno, mamma!» Diceva che la mia meravigliosa valigia di cuoio antico non si poteva più guardare. Ma chi è che si mette a guardare una valigia, scusa? È un modo di dire, mamma. Comunque, il trolley è più comodo. E non ti spacchi la schiena a trascinarlo. Ma io non me la spacco la schiena, tesoro, la valigia me la porta Tonio. Allora non se la spaccherà più Tonio. Cosa sei, una schiavista?
Insomma, alla fine ha vinto. Olivia mi ha portato in un negozio dove vendono solo valigie a rotelle: tre piani di trolley! Leggeri pesanti da donna da uomo da giovani da vecchi e pure piccolissimi con Candy Candy per i bambini! Insomma: un posto da incubo. Ho comprato questo trolley per poter uscire da lì: discreto, grigio, di plastica rigida. E con le rotelle turbo. Devo ammettere: oggi mi fa piacere averlo con me. Non ce l’avrei fatta a trascinare la mia meravigliosa valigia di cuoio antico su questa strada piena di buche o sui rari marciapiedi ricoperti da erbacce.
Percorro arrancando una strada dritta, noto di lato delle bellissime costruzioni. Moderne, allegre. Sembra un centro sportivo. E lo è: una piscina, delle palestre. Ho letto che qui si allenava quel ragazzo a cui hanno sparato alla schiena scambiandolo per un’altra persona. È rimasto paralizzato. A diciannove anni.
Mi fermo e sbircio dalle vetrate scure ma non tanto da impedire la vista: la piscina è olimpionica, bellissima. Sento il “profumo” del cloro, che mi dà una scossa dentro.
Mi torna addosso la mia infanzia:
«Ti muovi? Sembri una papera, Isa!».
La voce di mio fratello. La mia.
«Non sono una papera, nuoto benissimo, però mi pizzica il cloro.»
«Lagnosa. Allora resta qui e affoga.»
E con due bracciate spariva in fondo alla corsia, lasciandomi sola ad affogare nella disperazione più totale, quella che solo una bambina di cinque anni può provare davanti all’abbandono. Che sia di un secondo o di tutta la vita, per lei è uguale.
«Gippì, Gippì, aspettami!»
Gippì stava per Giampiero.
Gippì mi aspettava in fondo alla corsia, facendo finta di non aspettarmi. Ma tanto io lo sapevo che lui non mi perdeva mai di vista.
Io lo sapevo che lui c’era sempre.
Sempre.
Finché non c‘è stato più.
Alla fine dell’edificio sportivo ce ne sono altri, tutti moderni e ben tenuti. Una targa sul cancello del primo, quello più grande, mi incuriosisce: UNIVERSITÀ ROMA TRE - FACOLTÀ DI INGEGNERIA: BIOTECNOLOGIE DEL MARE.
Non so cosa significhi, ma è una bella targa. Vorrei saperne di più, ma non ho tempo. Devo arrivare all’appartamento entro le undici, come era scritto nella mail del proprietario del “grazioso appartamento vista mare”, come veniva descritto nell’annuncio. Lui, il proprietario, si firmava semplicemente con un nome: Luca. A cui aveva aggiunto: utente privato. E sottolineava con tanto di evidenziatore giallo:
“Per ritirare le chiavi dell’appartamento rivolgersi al portiere del civico 4 entro le ore undici. Si raccomanda puntualità”.
Tono assertivo. Chissà, forse questo Tal Luca è a corto di tempo, o magari è semplicemente antipatico. Opto per la prima ipotesi, preferisco immaginarlo impegnatissimo piuttosto che misantropo.
Guardo l’ora: undici meno dieci! Devo accelerare. Davanti a me una stradina che costeggia un canale. In fondo immagino ci sia il mare, sia perché l’acqua scorre in quella direzione, sia perché laggiù la luce è più forte, più intensa. Sul canale c’è un viavai di barche. Non barche come quelle ancorate al porto in Sardegna, vicino alla nostra villa piè dans l’eau; motoscafi velieri catamarani bandiere straniere nomi tipo: Azzurra o Orchidea, roba così. Quelle che vedo passare davanti a me sono barche vere, pescherecci, reti aggrovigliate, poppe arrugginite, prue abbellite da santini o da colori sgargianti. Nomi semplici, nomi che ti aspetti. Anna mia, Gioia del mare, La sirenetta triste. Nomi che raccontano delle storie.
Mi incanto a guardare un piccolissimo peschereccio rosa e bianco che “risale” la corrente. A poppa due bambine ricce e nere che cantano e giocano. A prua un nonno vecchissimo che canta con loro. Il nome sulla chiglia è stato ridipinto di fresco: Agata.
Agata, come mia madre.
Sì, ho fatto la scelta giusta, lo so.
Fa meno freddo, ora.
Mi riscuoto e cerco la strada più corta per arrivare a un gruppo di palazzine che ho individuato al di là del canale. Il grazioso appartamento deve essere lì. Poco più avanti c’è un ponte di ferro. Mi sembra il percorso più lineare, e vado in quella direzione oltrepassando una barriera di erba incolta.
Ce la posso fare. Sì, ce la posso fare.
No, non ce la faccio.
Le turbo ruote del mio trolley si sono incastrate in un viluppo di radici e foglie secche. Anzi, spine. Provo a tirare ma niente. Tiro di più e la maniglia del trolley supergarantito si stacca.
Nooo. Oliviaaa, lo vedi? Era meglio la mia valigia di cuoio antica, indistruttibile!
Mi guardo intorno in cerca di uno sguardo qualsiasi, anche non amico. Di una presenza a cui chiedere aiuto, soccombendo alla mia incapacità di cavarmela da sola.
Deserto.
Non passano più neanche le barche.
E sono le undici meno tre.
Cerco il numero di telefono del Tal Luca sul mio cellulare, ma appena lo riaccendo mi assalgono dieci bip: nove chiamate di mia figlia e una di Massimo. Se mi ha cercato anche lui, vuol dire che sua sorella l’ha sfinito. Rimando il problema family a tempi migliori.
332 5467001. Attesa. Niente: il Tal Luca non risponde.
Perfetto.
Mi chino sui rovi stando attenta a piegare anche le ginocchia, memore dell’ultimo terrificante colpo della strega, e riesco in qualche modo a estrarre il trolley dalle foglie. Però mi graffio una mano. Con il trolley tra le braccia come un bambino cresciuto troppo in fretta, affronto le scale ripide del ponticello.
Ringrazio Olli che mi ha trascinato alle lezioni di pilates.
«Ti si irrobustiscono le gambe, mamma, è meglio di una presciistica.»
«Non ho mai sciato in vita mia, Olivia.»
«Vorrà dire che potrai fare le scale di corsa.»
Ecco, ce la posso fare.
No, non ce la faccio.
Mi fermo in cima alla scaletta ripidissima e arrugginita.
Leggero ansimare che per fortuna si confonde con il vento.
Trolley pesantissimo, devono essere i libri. Dovevo accettare il regalo che Massimo voleva farmi per Natale, il Kindle o come si chiama, migliaia di libri dentro una scatoletta. Ma l’odore della carta dove lo mettiamo? E il frontespizio? E la quarta di copertina?
Sotto di me, il canale ora sembra meno folkloristico, e soprattutto meno affollato.
Mi affaccio sperando di incontrare lo sguardo del nonno canterino, ma non c’è più. Però sta passando una barca. Scura, stranamente, e pulitissima. Non ha nessun nome, almeno non evidente.
«Ehi!» chiamo agitandomi verso il basso. «Ehi, scusate, voi della barca!»
La prua ora è fuori dall’ombra del ponticello. Vedo delle scarpe sportive un tempo forse bianche. Vedo dei jeans arrotolati. Vedo un cappelletto di lana a coste blu.
«Ehi, senta! Signore sul peschereccio!»
Finalmente il berretto di lana a coste si gira verso di me.
È blu. Uno sguardo blu. Profondamente blu.
Sarà il riflesso della luce del mare.
«Senta, mi scusi, potrebbe aiutarmi? Lo so che lei sta giù, sì, insomma, nell’acqua, e io su questo ponticello. Però avrei un problema con la valigia, anzi col trolley, e sarei, anzi sono, in ritardo…»
Sguardo Blu pare del tutto disinteressato.
«No, perché dovrei essere alle undici là, vede, quelle palazzine, non sono lontane lo so, ma mi si è rotta la valigia in un cespuglio, peggio, un rovo, e mi sono anche punta con qualcosa, sarà pericoloso? No, è che allora pensavo, non è che lei, visto che qui non passa nessuno e io sinceramente…»
La prua scivola oltre. Oltre il ponte. Oltre me.
Lo sguardo blu si fa strano. Non voglio pensare che sia proprio così, non ne vedo il motivo, ma invece sì, direi che non è solo una mia sensazione: lo sguardo blu si è fatto beffardo.
Fisso su di me, anzi, fisso su quella me che evidentemente sta valutando come: “anziana ridicola in situazione ridicola”. E quindi: interesse nullo.
Ma guarda questo cafone! Sto per urlarglielo dietro, ma mi trattengo, sarebbe una conferma: anziana ridicola e pure “isterica”.
Mi zittisco. Mi inorgoglisco.
Abbraccio il mio inutile trolley e scendo a passo di marcia la scaletta arrugginita.
Non mi volto più, sdegnosa.
Ma so che lo sguardo blu mi sta seguendo divertito.
All’improvviso, sento uno scampanio vicinissimo, quasi un segnale di allarme.
Mi volto in cerca di un campanile: non c’è. O almeno, non lo vedo.
Riprendo a camminare spedita, incurante delle buche e dell’erbaccia.
I gradi fuori, adesso, devono essere almeno quindici.
Incredibile, ma ho quasi caldo.
Alla fine ce la faccio.
Dopo il ritardo del treno, la scarpinata con la valigia rotta, l’incontro con Sguardo Blu che mi ha scombussolato non so perché, arrivo davanti al civico 4.
Ma è troppo tardi! Ore undici e dieci, portineria chiusa. Nessun campanello. Nessuno in vista. Finalmente passa una signora con delle buste della spesa e carrozzina completa di infante. «Scusi, il portiere?»
Non c’è, chiude alle undici. Sì, questo lo so, ma sa dove potrei trovarlo? Mi guarda senza simpatia e senza parlare, ma il suo pensiero è chiaro: e io che ne so, mica mi faccio i fatti del portiere fuori dall’orario di lavoro, no?
Sospiro e rimpiango il mio Germano, portiere h 24, un po’ zoppo ma efficientissimo. Se Germano mi vedesse tutta sudata, con un trolley rotto tra le braccia, potrebbe anche svenire: «Signora Girardiello! Ma cosa fa? Dia a me, la prego».
Caccio subito via la piega amara sulle mie labbra. Il motto della giornata è: “Vietato lamentarsi!”. Perché sì, ho scelto io di rinunciare a tutto quanto. Una sfida? Una prova? Una fuga?
Non lo so, ma conio in questo istante il motto numero due: “Nessuna domanda senza risposta”.
Affranta ma decisa, sto per richiamare il cellulare del Tal Luca, quando avviene il miracolo.
«Desidera?»
Mi volto di scatto. Una signora più o meno della mia età, con dei bellissimi capelli bianchi, parecchio sovrappeso e intrappolata in un vestito aderente rosso, mi guarda dietro la grata di una finestrella, avvolta da un vapore profumato di ragù che mi ricorda il mio digiuno.
«Oh, meno male che c’è lei, signora!»
Meno male perché? sembra dirmi il suo sguardo per niente comprensivo.
«Cercavo il portiere del civico 4, ma sono arrivata in ritardo, lo so, anche se solo di dieci minuti, però eccomi qui, e avrei proprio bisogno del portiere del civico 4, sa, perché ha le mie chiavi, anzi no, ha le chiavi dell’appartamento al civico 2 che adesso temporaneamente è mio e…»
Mentre parlo la signora sparisce.
Possibile che se ne sia andata così? Va bene che magari di tutta la mia tiritera a lei non gliene fregava niente, ma insomma, un minimo di decenza!
«Quella lunga è del portone.»
È ricomparsa e mi ha messo in mano delle chiavi legate insieme da un portachiavi fatto con lo scoubidou. Ebbene sì: lo scoubidou! Proprio lui: giallo e azzurro – ancora non lo so, ma saranno i colori base della mia nuova vita. Quel ritorno di memoria subito mi rende tutto più sopportabile. Anche la faccia grassa e decisamente ostile della signora.
«Grazie! Davvero, mi ha salvato la vita!»
Lei mi squadra. Non so se è una mia reazione di difesa davanti a chi non conosco, ma quell’espressione mi ricorda Sguardo Blu. Beffardo. Da presa per il culo, insomma.
La ringrazio guardandomi bene dal chiederle altro. Non le chiedo, per esempio, se è lei la portiera del civico 4. In caso di risposta affermativa le farei i miei complimenti, le chiederei se è un lavoro pesante gratificante frustrante, ah, le chiederei come mai chiude alle undici precise, magari ha un altro lavoro, o forse un nipotino da andare a prendere all’asilo.
Non le chiedo neanche se quel meraviglioso profumo di ragù è opera sua, mi piacerebbe molto assaggiare quell’odore, visto che sono sola e affamata in mezzo a gente ostile il giorno del mio sessantacinquesimo compleanno, con un trolley rotto e pesante. E chiaramente non le chiedo come ha trovato il coraggio per non tingersi quei fantastici capelli bianchi, se è contenta della sua scelta, se magari ci aveva ripensato, se la gente le dice in continuazione: “Ma perché non ti tingi, cara? Dimostreresti dieci anni di meno!”.
No, non le chiedo niente. E lei sparisce nel suo sotterraneo profumato di cucina. Io resto sola e affamata.
Ma ho le chiavi e lo scoubidou.
E sono arrivata a casa.
...continua in libreria!