17.
Mamma Cereghèta non s’era presa alcun colpetto quando aveva aperto la porta e s’era trovata davanti la divisa.
Un mezzo colpo, non mortale però, l’aveva avuto invece qualche ora prima, quando il figlio era rientrato barcollando, smadonnando, picchiando colpi a destra e a sinistra e infine crollando di traverso sul letto.
Il Pezzati, con il Venieri a fianco a imparare il mestiere, aveva tenuto il giovanotto a bollire per un’oretta buona prima di fargli qualche domanda.
Ma il Cereghèt sapeva niente e c’aveva l’alibi.
«Lo interroghiamo?» si permise il Venieri dopo che il Pezzati, senza parlare e con un cenno della mano, aveva fatto segno al Cereghèt di andare.
«Chi?» chiese il carabiniere Insoliti.
«L’alibi», chiarì l’appuntato.
«Mi sembra il minimo», concluse il Pezzati.
L’alibi saltò su dalla panchina. Panchina tattica, quella dietro il monumento del Tommaso Grossi, così da vedere senza essere troppo visto.
«Uè», gridò il Taglia.
Il Cereghèt inspirò l’aria libera, come se fosse uscito dall’ergastolo. Attraversò la strada.
«Mi sembrava che avesse parlato il Tommaso», disse ridendo e indicando il monumento.
L’Ernesto non aveva voglia di scherzare.
«Cosa cazzo succede?»
«Niente», rispose il Fistoletti.
«E allora perché eri in caserma?»
Il Cereghèt si ingobbì.
“Un scimmiòtt”, pensò il Taglia.
La risposta arrivò.
«Sono entrato, ma sono anche uscito, no?»
«Non è che mi hai messo in qualche guaio neh!» fulminò l’Ernesto.
Il Fistoletti rifletté. La quinta elementare era troppo lontana.
«Se avrei…» sparò.
Se c’erano in ballo guai, lui non c’entrava.
Si erano o no ubriacati assieme la sera prima, Squinz testimone?
Il Taglia sentiva ancora il sapore del vinaccio del Diaol. Andava su e giù, come il mal di testa.
«O mi spieghi come stanno le cose o ti spacco la faccia col martello», disse.
Il Cereghèt restò senza parole.
«Ti faccio più bello», aggiunse il Taglia.
Con cattiveria.