27.
La seconda domenica di giugno, l’auto del servizio pubblico guidata dal taxista Aurelio Scassinelli passò, alle dieci della mattina, da casa di Alfredo per caricare madre e figlio. L’auto, una Fiat 1300, non era il massimo della pulizia perché lo Scassinelli, essendo scapolo e tiratardi, spesso ci dormiva e, quando era in calore, ci caricava anche la sua setterina da caccia, temendo che, lasciandola incustodita, potesse venir impunemente «frequentata» da bastardi senza arte né parte. Inoltre aveva il sedile posteriore sfondato, per cui Benvenuta dovette accomodarsi su quello davanti, che era incastrato, costringendola a compiere il trasferimento con le ginocchia quasi in bocca. Tra il fatto che veniva da Colico, dove abitava, e che era giorno di festa, lo Scassinelli spuntò un bel prezzo all’andata, con il quale coprì abbondantemente anche il viaggio di ritorno, effettuato in solitaria perché Benvenuta aveva deciso che sarebbe tornata a casa a piedi. Il cimitero era infatti sulla strada, e da troppo tempo i morti di famiglia aspettavano una sua visita.
Su Bellano, e su piazza Grossi in particolare, aleggiava un’aria pesantemente mortificata dall’odor di fogna. Sulla frazione dove stava la casa di Adelaide invece l’odore del fieno sfalciato da poco e lasciato nei campi a seccare dettava legge.
Pur avendolo fortemente voluto, Adelaide temeva quell’incontro. Aveva fatto in modo che nulla di ciò che le dava pensiero trasparisse e andasse a turbare la tranquillità che i suoi genitori invece esibivano, preoccupati solo di mettere insieme un menu che fosse all’altezza della doppia festività: lasagne, un cappone miracolosamente scampato alle mattanze del Natale precedente, che suo padre aveva reperito in quel di Noceno, una coscia d’agnello, insalatina e patate novelle, giardiniera, funghi sott’olio, una miascia fatta come Dio comanda.
Nonostante ciò, Adelaide fu certa che qualcosa sarebbe andato storto quando vide la futura suocera entrare in casa. Il volto faceva invidia a quello di uno dei due ladroni affrescati in una volta laterale del santuario di Lezzeno che da bambina, dopo averli visti per la prima volta, le avevano fatto venire una febbre per lo spavento. Dopo saluti compìti, accettò immediatamente di accomodarsi sull’unica poltrona buona, di vimini, che c’era in casa, e vi si lasciò andare come se tornasse da un viaggio scomodo e periglioso. Fino al momento di sedere a tavola, si guardò in giro, sembrava una passera solitaria chiusa in gabbia. Poi d’un tratto, per una frazione di secondo che sfuggì a tutti tranne che a Adelaide poiché non ne perdeva uno, storpiò il viso in un ghigno che tramontò in fretta così com’era nato.
Cosa diavolo aveva visto di così divertente?
Una ragnatela.
Tutto lì.
In un angolo del muro, a lato di un quadretto del Sacro Cuore di Gesù, sfuggita alla pulizia, all’occhio di sua madre.
Adelaide si accomodò a tavola con quella ragnatela sul cuore.
Avrebbe bestemmiato se ne fosse stata capace. O pianto, pensando al daffare che i suoi s’erano dati.
Gliel’avrebbe fatto pagare quel ghigno! Stesse tranquilla, lei e i peli che le uscivano dal naso. Sapeva aspettare.
Mangiò poco, e controvoglia. Come quasi tutti, tranne suo padre e sua madre che diedero l’impressione di non essersi accorti di nulla.
Non fu un pranzo allegro. Avanzò un sacco di roba.
Finì nel pastone del maiale.