49.
Il silenzio le cadde addosso all’improvviso dopo l’uscita della Tirelli.
Un silenzio fischiante che avvertiva come lontani ronzii nelle orecchie, forse per colpa della febbre. O forse, come una volta aveva letto su un articolo di «Famiglia Cristiana», per colpa delle invisibili onde sonore prodotte da tutti quelli che erano passati per quella casa, da quello che avevano detto, dai rumori che avevano provocato.
Onde che permanevano al di là del tempo di ognuno. Erano i fili che collegavano i vivi ai morti. Erano i ricordi oppure, davvero, piccole particelle invisibili, dotate di vita eterna, alle quali anche lei, prima o poi, senza saperlo, si sarebbe aggiunta?
Chiuse gli occhi e, per scacciare quei pensieri, pensò al giorno seguente, il lunedì.
Un sorriso appena accennato le si disegnò in viso e l’avrebbe mantenuto percorrendo con la fantasia tutti i suoi passi fino al magico incontro se, nel frattempo, non si fosse dispiegato nell’aria il suono dell’agonia.
Qualcuno era morto, altre particelle invisibili nell’aria.
Benvenuta aprì gli occhi, fissò il soffitto, si toccò la fronte: scottava. La febbre non voleva andarsene. Si sentiva sfinita.
Sobbalzò quando la Tirelli, portando con sé una ventata di freddo, entrò in casa sua e le chiese come stesse.
«Meglio, grazie», mentì.
«Non sarebbe male mangiare qualcosa», consigliò Carolina.
«Non ho una gran fame», obiettò Benvenuta.
«Ma una bella tazza di brodo…»
«Ma sì, più tardi me la farò», approvò Benvenuta purché quella se ne andasse via.
«Ma nemmeno per idea!» si oppose la Tirelli.
Dal letto non si doveva muovere.
Ci avrebbe pensato lei a prepararle un brodino come Dio comanda.
E, ma non lo disse, si sarebbe seduta di fianco al letto, controllando che se lo bevesse sino all’ultima goccia e dando l’avvio a una conversazione irta di domande con la quale faceva conto di risolvere il mistero.
A Benvenuta non restò che accettare. Tre ore ancora, calcolò, e poi sarebbe arrivato suo figlio a liberarla da quella zecca.
«Forza», disse Carolina con intento ironico, «non vorrà mica far suonare l’agonia per una banale influenza!»
«L’ho sentita», rispose Benvenuta.
Ma non era dei nostri, puntualizzò Carolina. Non era del paese.
Non appena finita la messa era corsa dal sacrista per chiedere chi fosse morto.
«Era un ometto dell’ospizio, di Monza, mi ha detto il sacrista, di ottantacinque anni, più o meno. Era qui da qualche mese, faceva Gerlari o qualcosa del genere di cognome. Mai visto!»
Bugia, ma inconscia.
L’aveva visto eccome, con tanto di bastone.
Benvenuta chiuse gli occhi.
«Ha sonno?» chiese Carolina.
Benvenuta fece no con la testa.
«Io allora vado a preparare un bel brodo», disse la Tirelli.
A mezzogiorno spaccato si ripresentò con una tazza di brodo fumante in mano.
«Ecco qua», disse.
Un brodo del genere avrebbe fatto resuscitare un morto, dichiarò incautamente Carolina Tirelli.
Magari gli altri.
Non certo la sua vicina che, per il dolore della notizia, aveva visto una colata di nero cancellare il lunedì e tutti i giorni che sarebbero seguiti, e aveva reso l’anima a Dio.
Quando, poco dopo le due, Adelaide e Alfredo giunsero, prima ancora delle parole di Carolina, prima ancora di guardarla e toccarla, compresero che Benvenuta era morta vedendo la tazza di brodo ormai freddo tra le mani della Tirelli.
«L’ho trovata così, a mezzogiorno», disse la vicina.
«Sembra serena», riuscì a dire Adelaide.
Carolina li lasciò soli. La mosca non le ronzava più nella testa.
Aveva scoperto il segreto, ma per lei sarebbe rimasto tale.