VIVA MEXICO! VIVA ECUADOR!
Siamo onesti. Siamo sinceramente, penosamente onesti: chi cucina davvero?
Chi è la spina dorsale della ristorazione in America? Quale esodo improvviso determinerebbe la chiusura di ogni buon ristorante, nightclub e sala ricevimenti in tutte le principali città del paese? A spese di chi, chef disgustosamente famosi come il sottoscritto si permettono di andare in giro per il paese a rifilare libri, partecipare a show televisivi, scrivere insopportabili articoli per riviste patinate e criticare i loro pari? Chi sono, a parità di peso, i migliori cuochi di cucina francese e italiana di New York?
Se sei uno chef, un direttore di sala o un proprietario di ristorante, la risposta la conosci già: sono messicani, ecuadoregni. Ragazzi (e donne) di El Salvador provenienti dalle zone di confine, molti dei quali in possesso di green cards comprate per trenta dollari sul Queens Boulevard. Ex lavapiatti con un’inesistente formazione professionale e un’istruzione minima; gente che probabilmente non ha mai mangiato in un ristorante del livello di quello in cui lavora. Te lo immagini Manuel, il valente saucier del tuo ristorante a due stelle che si mette l’abito migliore, si liscia i capelli, fa indossare il vestito della festa alla moglie e ai figli, e cerca di prenotare un tavolo al ristorante a una stella dall’altra parte della strada? L’aspirante attore/modello, maître d’hotel, di sala o di quel che è part-time suderà freddo nel tentativo di trovargli una sistemazione più nascosta possibile, se la Migra non l’ha già beccato prima che arrivi al ristorante.
Non c’è falsità più ipocrita, più nauseante, più ostinatamente autoillusoria dell’immagine dello chef consacrata dall’industria culinaria. Sappiamo tutti chi è che solleva i carichi più pesanti, chi prepara quello squisito risotto al tartufo bianco e porcini, l’hamachi in padella con sauce vierge, i ravioli di guancia di manzo con salvia e sauce madère... Noi sappiamo, con nostra somma vergogna, chi è che si presenta al lavoro tutti i giorni, si rimbocca le maniche per fare le cose per bene, cucina coscienziosamente, sopporta senza protestare: i nostri colleghi messicani, ecuadoregni, latinoamericani, puntualmente dimenticati. Quelli che non compaiono nei programmi televisivi a sputare sentenze, o a sorridere con aria ebete davanti alla telecamera, dopo aver ricevuto l’ultimo omaggio per la Beard House.
Qual è il nocciolo della questione? La risposta a questa semplice domanda: quando è stata l’ultima volta che avete visto un lavapiatti americano? E se lo avete visto, lo prendereste a lavorare per voi?
Se siete come me, la risposta, probabilmente, è no.
I migliori cuochi sono ex lavapiatti. Che dico? Le persone migliori sono ex lavapiatti. Infatti, chi vorreste nella vostra cucina quando la situazione si fa critica, e siete sull’orlo del disastro, e le comande arrivano a ritmo incessante, e un forno si è appena spento, e il cameriere ha fatto appena accomodare un tavolo da dodici, e c’è in giro una brutta influenza che si è abbattuta sul personale come un’orda di barbari sui Romani? Vorreste un giovane americano saccente, appena uscito dall’accademia di cucina, com’era il sottoscritto all’inizio della carriera? Un tipo che se la piglia se gli parlate in modo brusco? Un tipo che sa di certo che può trovare lavoro da un’altra parte (“Forse... qualcosa tipo Aspen, amico... o Key Biscane... così posso cucinare e farmi una sciata durante il tempo libero, o andare in spiaggia.”)? O qualche aspirante cuoco alla ricerca di esperienze (“Sai, fratello... sto pensando, tipo, di andare via di qui il mese prossimo... magari a fare uno stage con Thomas Keller o Dean Fearing... Lui sì che ci sa fare... Mio zio ha un amico che può raccomandarmi...”)?
O volete qualcuno che ha fatto la gavetta? Uno che ha cominciato dal basso, che ha salito lentamente la china, che ha imparato da solo, passo dopo passo, postazione dopo postazione, tra gli intrichi del vostro locale, che sa il posto di ogni cosa, in ogni angolo del vostro ristorante, al quale avete mostrato, fino all’esaurimento, finché se l’è stampato nel cervello, come volete che le cose vengano cucinate? Forse non saprà cos’è una salsa soubise, ma sarà certamente in grado di prepararvela. Probabilmente non conoscerà il termine monter au beurre, o non saprà chi fosse Vatel... ma chi se ne frega? Vatel perse la testa per un pesce servito in ritardo, e si tolse la vita come un cattivo poeta. Qualcuno avrà preso il suo posto il giorno dopo. Manuel avrebbe dato una scrollatina di spalle e avrebbe continuato a combattere. Manuel non strilla, non si lamenta, non si strappa gli abiti. È un professionista, non un “artista” da strapazzo capriccioso che non riesce a sostenere un po’ di pressione.
Non che voglia mancare di rispetto alla mia “alma mater”. La CIA1 è senza dubbio la migliore scuola professionale di cucina del paese, forse del mondo. Nel corso degli anni ha innalzato il livello di prestazione, di aspettative di qualità, a vette mai raggiunte prima. Diplomarsi alla CIA – o in qualunque altra scuola professionale di un certo livello – garantisce una conoscenza basilare, standardizzata, della storia, della terminologia e delle tecniche del nostro mestiere. Un diploma rilasciato dalla CIA dovrebbe significare, e significa, molto per un potenziale datore di lavoro; è l’insieme di preziosa esperienza scolastica e standard eccellenti. Ma non è una garanzia di carattere. Non dice niente dell’anima e del cuore, della voglia di lavorare, d’imparare, di crescere, della capacità di sopportazione di una persona.
Gli ex lavapiatti messicani provengono di solito da una cultura dove cucina e famiglia sono importanti. Nella maggior parte dei casi hanno una famiglia da mantenere, e sono abituati ad assumersi delle responsabilità nei confronti degli altri. Sono anche, probabilmente, avvezzi a regimi dispotici, grotteschi e ostili. Conoscono la sofferenza, la vera sofferenza. Le incongruenze, le contraddizioni e le piccole ingiustizie della cucina sono bruscolini, rispetto a la mordida – dove ogni poliziotto può essere un potenziale estorsore – e a quello che era, fino a tempi recenti, un sistema monopartitico. Sui volti di questi veterani della cucina che ne hanno viste di cotte e di crude, che si sono beccati dei calci nel sedere si nota un’espressione, uno sguardo che dice: “Mi aspetto il peggio, e sono pronto ad affrontarlo”. L’ex lavapiatti messicano ha quello sguardo dall’inizio.
Come ho ribadito varie volte, posso insegnare alla gente a cucinare. Ma il carattere non s’insegna. E i caratteri dei miei colleghi messicani, ecuadoregni, sono tra i migliori che ho conosciuto in ventott’anni di carriera da chef e da cuoco. Mi sento privilegiato, migliorato, per averli conosciuti e per aver lavorato con molti di loro. Il loro lavoro, la loro fatica, la loro lealtà mi onora. Mi sento arricchito dal loro senso dell’umorismo, dalla loro musica, dal loro cibo, dalle parolacce che mi dicono alle spalle, dalla loro gentilezza, dalla loro forza. Mi hanno mostrato nel corso del tempo cosa significa avere carattere. Sono loro ad aver reso questo mestiere – l’“Industria dell’Ospitalità” – quello che è, e continuano a farne girare gl’ingranaggi.
Una volta qualcuno ha detto che questa è la terra dei liberi. C’è una statua, se non mi sbaglio, laggiù nel porto, con su scritto qualcosa, tipo “Datemi i vostri affamati... i vostri oppressi... datemi pure tutti quanti”, o almeno così mi sembra. L’idea dell’America è quella di una cultura bastarda, o mi sbaglio? Chi diamine è l’America, se non tutti gli altri? Siamo, e dovremmo essere, una grande, incasinata, anarchica accozzaglia di dialetti e di accenti e di tonalità di pelle. Come le nostre cucine. C’è bisogno di più latini, qui da noi, e dovrebbero ingravidare, se possibile, le Nostre donne.
Ultimamente le cose sono cambiate... un po’. Non si vedono più in giro lavoratori irregolari, analfabeti, sottopagati, almeno nei buoni ristoranti dove ho lavorato. La tipologia della manodopera latinoamericana si è allargata, e comprende anche addetti ai contorni, alla griglia e perfino sous-chef. Ma nei ristoranti francesi, italiani, o perfino “neoamericani,” non si vedono molti chef con nomi tipo Hernandez, o Perez, o Garcia. I proprietari sono ancora restii ad avere uno chef meticcio che se ne va in giro compiaciuto per la sala del loro ristorante francese a due o tre stelle, anche se il candidato meriterebbe ampiamente il posto. E il problema non è la lingua. Sia dà il caso che messicani ed ecuadoregni parlino l’inglese molto meglio di quanto gli americani parlino lo spagnolo (o il francese, per quel che conta). Si tratta... be’... sappiamo noi di cosa si tratta, non è vero?
Si tratta di razzismo, puro e semplice.
Potrei andare avanti, ben lieto di scoperchiare un altro vaso di Pandora – del tipo “Come mai si vedono pochi afroamericani nelle cucine dei buoni ristoranti? – ma questa la lascio a qualche altro, più competente paladino, sperando che abbia una risposta migliore della mia.
Di che cosa si lamentano principalmente gli chef e i direttori di ristoranti? Posso dirvi quello che sento io durante le mie visite nelle principali città, e ne ho visitate un sacco, ultimamente: “È sempre più difficile trovare del buon personale!”.
La soluzione? Semplice: consiglio di aprire immediatamente i nostri confini all’immigrazione illimitata dai paesi del Centro e Sudamerica. Se i diplomati della CIA non sono disposti a fare la gavetta per i primi due anni, o sono troppo delicati, troppo tesi, o troppo legati a un’immagine di se stessi che preclude loro l’accesso al lavoro vero della ristorazione, dovrebbero farsi da parte e stare a guardare i loro concorrenti sudamericani accaparrarsi per sempre questi lavori. Alla fine ognuno avrà ciò che si merita. Sarà un campanello d’allarme per la nostra squadra di cuochi e un vantaggio per la nostra industria... e la cosa giusta da fare. Forse la CIA dovrebbe creare un vivaio giovanile in Messico o Panama, tipo l’organizzazione Yankee. E tutti i cuochi di linea sudamericani di New York dovrebbero avere un aumento di stipendio immediato, l’esonero da qualsiasi tassa d’immigrazione, una green card vera... e il ringraziamento dell’intera nazione.
1 CIA sta per Culinary Institute of America [N.d.T.].