SEI UN CRIP O UN BLOOD?1
Ho appena finito di leggere Stanley Park, dello scrittore canadese Timothy Taylor, un romanzo brillante, anche se a tratti irritante, che ha per protagonista uno chef. Il personaggio di Taylor divide il mondo dei cuochi in due categorie; i Crips – transnazionalisti, per i quali i prodotti di terre lontane sono i benvenuti, gente che cucina senza limiti o confini, costantemente alla ricerca di metodi innovativi per combinare il vecchio col nuovo – e i Bloods, per i quali il terroir, e un solido, rigoroso legame con una regione e le sue stagioni, sono una priorità inderogabile. Tra i Crips si potrebbero riconoscere tipi come Norman Van Aken, Nobu Matsuhisa, Jean-Georges Vongerichten, i praticanti della “fusion”, chef che vogliono l’ingrediente, al meglio, da qualsiasi parte esso venga e qualsiasi distanza abbia percorso. Il Crip si affida al proprio talento, al proprio occhio, alla propria capacità di addomesticare gli ingredienti, nella speranza di aprire un nuovo cammino, di rivelare qualche aspetto nuovo di cibi che noi diamo per scontati, accostandoli all’esotico e all’inconsueto. Abbiamo visto di cosa sono capaci i Crips nel bene e nel male, la terribile omologazione di alcuni menu alla moda dai nomi singolari – Pacific Rim, Pan-Asian, Nuevo Latino – in cui gli chef usano in modo errato ingredienti asiatici, o sudamericani, con lo stesso entusiasmo maldestro di un labrador in calore che resta inutilmente e ottusamente attaccato alla vostra gamba.
Il primo e più evidente esempio di Blood che mi viene in mente è senz’altro Alice Waters. Il suo Chez Panisse, a Berkeley, è la culla della rivoluzione “slow food”, un ristorante i cui piatti rappresentano la munificenza della California settentrionale e della costa nordoccidentale del Pacifico. Fergus Henderson è un altro Blood, la cui cucina è una fiera espressione sia nazionale che culturale. Ci vuole coraggio a dire: “Cucinerò ciò che è disponibile in stagione. Ciò che si trova qui”. Conferma l’ineguagliabile piacere di mangiare fragole di bosco o asparagi selvatici in Francia, anguille fresche in Portogallo, pomodori in Italia. I Bloods, secondo me, radicati come sono a un luogo e a un tempo, sono più portati a cucinare con sincera, profonda integrità e partecipazione, cercando di nutrire, addolcire, placare, evocare, piuttosto che abbagliare.
Mi è sempre piaciuto considerarmi un Blood. Essendo, negli ultimi tempi, andato in giro per il mondo, spesso in paesi poveri, dove essere un Blood non è una scelta, sono sempre rimasto incantato da come i cuochi locali riuscissero a preparare dei piatti freschi, vigorosi, genuini, e squisiti, spesso avendo a disposizione risorse molte scarse. Come per i pionieri della cucina italiana e francese, il motore che muove la grande cucina del Vietnam o del Messico, per esempio, sembra sia la triste necessità di adoperare ciò che è disponibile quando è disponibile, e tirarne fuori il meglio. Ho discusso a lungo, fino allo spasimo, sulla necessità di avere del cibo di cui si conosca la provenienza, e ho sempre sostenuto che ciò che manca principalmente nella cultura culinaria anglosassone sono i prodotti regionali, stagionali, ai quali tanti francesi e italiani sono abituati fin da piccoli.
Ma ora, non ne sono più tanto convinto.
C’è più di un semplice odore di dogma nella posizione dei Blood.
Il “Gruppo degli otto”, gli chef francesi che bandirono l’introduzione di spezie e ingredienti “stranieri” nella haute cuisine, mi ricorda una fazione simile, che vorrebbe che ogni film fosse un polpettone in costume prodotto con i fondi governativi, e con l’inevitabile Gérard Depardieu per protagonista. Mi viene in mente il commento di uno chef francese mentre osservava un suo collega alsaziano preparare la choucroute garnie: “Questo non è frranscese”. C’è sempre un pizzico di sciovinismo nell’aria quando uno chef mette al bando influenze “esterne” o “straniere” dalla propria cucina... esiste una preoccupante somiglianza tra coloro che rifiutano le influenze straniere e coloro che rifiutano gli stranieri. E la setta degli anti-OGM, che con tanto fervore proclama i pericoli di pesticidi, ormoni, antibiotici e manipolazioni genetiche, spesso sembra mossa da motivazioni che non hanno niente a che vedere con il sapore o il piacere. La lobby dello “slow food”, che si batte per prodotti di origine controllata, cibi biologici e naturali, animali macellati in modo indolore, e fantastica di un ritorno a un mondo agricolo fotogenico che non si realizzerà mai, sembra non tener conto del fatto che questi prodotti sono cari, e che in questo mondo, gran parte della gente va a letto che ha ancora fame, e che molti di noi non possono saltare sulla space wagon in compagnia di Sting e andare a fare la spesa al mercato delle verdure biologiche, pagando il doppio dei prezzi normali.
Non fraintendetemi. A me piacciono i prodotto naturali; quasi sempre il sapore è migliore. Il salmone di fiume è migliore di quello di vivaio, e, sì, lo ammetto, i prodotti d’allevamento sono una minaccia per la qualità in genere. Un pollo ruspante è più saporito, ed è meno probabile che contenga colibatteri. L’allevamento in spazi aperti è senz’altro migliore; quando possiamo, dunque, lasciamo che Bambi corra libero per i boschi (prima di tagliargli la gola e strappargli le budella). Poiché la clientela del mio ristorante è composta per la maggior parte da ricchi nevrotici, posso anche permettermi ogni tanto di comprare prodotti biologici e naturali. Anche per i prodotti stagionali, faccio del mio meglio. Ma alla fine della giornata, se trovo un pomodoro irradiato, geneticamente modificato, proveniente dall’altro lato del paese, che è più gustoso di un pomodoro italiano cresciuto nell’orto della nonna (improbabile, ma supponiamo che sia così), anche se è dimostrato che provoca ogni tanto un tumore nei topolini di laboratorio, probabilmente lo uso lo stesso. Alla fine, quello che conta è il sapore.
A me, per esempio, piace il manzo allevato a granaglie. Quando si parla di manzo, non voglio che le mie bistecche vengano da un animale muscoloso, iperallenato, con la mania della libertà. Voglio un bel ragazzone grasso e mansueto, che abbia trascorso l’ultima parte della sua vita in una cella stretta, pensando solo a mangiare grano e mais, con tutte le venature di grasso che filtrano nella carne. Se, come nel caso del manzo Kobe, qualche gentile allevatore è disposto a fare alla mia creatura un bel massaggio al sakè (e, ogni tanto, un lavoretto di fino con la mano...), meglio così.
Al suo confronto, quella roba argentina, allevata a pascolo, e impacchettata sottovuoto in confezioni piene di acqua e sangue, sa di carne di scimmia.
La prima domanda che dovrebbe porsi uno chef riguarda il sapore di un determinato prodotto. Insistere, pretendere, che tutti i prodotti siano regionali, stagionali, direttamente legati al tempo e al luogo può, nel caso di sostenitori troppo accaniti, incoraggiare un atteggiamento tipo “ritorno-alla-terra” che ricorda gli khmer rossi.
Non molto tempo fa, in una fattoria di Napa Valley, osservando Thomas Keller, il più grande, forse, degli chef Blood (un uomo con tendenze Crip appena accennate e comunque orientate al meglio), strappare dal terreno l’aglietto fresco e i porri appena nati, sentii un brivido forte, dolce-amaro, un anelito a vedere le cose come potrebbero essere nel migliore dei mondi. D’altro canto, visitando il mercato Tsukiji di Tokio, stupefatto di come i giapponesi continuassero a saccheggiare gli oceani, pensai: “Cristo! Guarda tutto quel pesce, è incredibile! Cacchio, quel toro ha una bella faccia! Lo voglio anch’io”. Per quanto consapevole dei misfatti che l’uomo compie in nome del cibo, confesso che non me ne può fregare di meno, quando sono davanti a un esemplare freschissimo di baccalà.
Penso, dunque, che non riempirò la dispensa del mio ristorante con prodotti provenienti esclusivamente dalla Hudson Valley, almeno non nel prossimo futuro. Quando i miei clienti vorranno le fragole, le farò venire da un paese più caldo. Anche se uso il foie gras newyorkese per i piatti saltati in padella, continuerò a usare quello francese per le terrine. Il riso per risotti lo farò venire dall’Italia e i fagioli per il cassoulet da Tarbes. Perché sono migliori. Quando riuscirò a trovare di nuovo quelle piccole anguille fresche del Portogallo, ne ordinerò a quintali; chi se ne frega se non ce ne saranno più per i portoghesi? Continuerò pure a bere caipirinha col mio sashimi al Sushi Samba di New York, cercando di non sentirmi un imbecille per questo.
Forse, la cosa migliore per uno chef, per quanto gli è possibile, è cucinare col cuore. Mentre le nazioni più povere hanno la tradizione di cucinare bene perché sono costrette a farlo, noi abbiamo la possibilità di scegliere. Se possiamo fare nostro un insegnamento della corrente Blood, è che per cucinare bene è sempre meglio ricavare il meglio da ciò che si ha a disposizione. Se la visione e l’identità di uno chef sono strettamente legate a una certa regione o cultura, tanto meglio. Continuerà l’opera divina. Se abbiamo a disposizione del pesce azzurro fresco del luogo, non c’è motivo di farsi arrivare i branzini congelati e mollicci dal Cile. Un bravo chef importa un prodotto dall’altro lato del pianeta perché c’è un buon motivo, non per la novità o per il pregio. Perché perdere tempo a preparare cibo messicano a Londra se il risultato finale è un pastone anonimo e amaro che sa di stucco? Perché spendere centinaia di migliaia di dollari per fare un surrogato di emporio dimsum alla moda, per poi svuotarlo dell’atmosfera allegramente informale e trasandata che rende così divertente l’esperienza dimsum?
Per quanto sia orripilante vedere un giovane principiante, fresco di scuola alberghiera, bombardare i suoi clienti con olio di dende, basilico thailandese, yuzu e chipotles, è bello sapere che altri, che hanno maggiore familiarità con questi ingredienti, li possono trovare a loro piacimento.
Ma non rinuncerò mai ai miei tartufi bianchi d’Alba finché ce ne saranno ancora in giro. Datemi un ortolano2 contrabbandato clandestinamente, e mi ritroverete a sgranocchiare ossicini con un lievissimo senso di colpa. Starò solo attento a non farlo cuocere troppo.