WOODY HARRELSON: SPIRITO GUIDA

Ci chiamano “cuochi”. E noi – nel senso di chiunque abbia maneggiato una padella o fritto un tubero in una cucina professionale – possiamo far risalire le nostre nobili origini ai tempi remoti dei nostri antenati che, riuniti intorno a un fuoco, facevano arrostire interi pezzi d’animali sulla fiamma viva. In epoca romana eravamo schiavi (coccolati, sì, ma schiavi lo stesso). Durante l’impero ottomano eravamo giannizzeri. In seguito abbiamo sgobbato nelle cucine di sovrani crudeli e capricciosi, sudato negli scantinati di grandi alberghi, siamo stati sballottati di ristorante in ristorante. Sono del nostro mestiere quelli che preparano pho su bancarelle improvvisate durante i mercati notturni, disossano polli per confezionare fragranti tortilla nei mercados, sfornano uova fritte da dietro il banco di una tavola calda. Attraverso l’ingegno, la perseveranza e la disperazione, usando le conoscenze tramandateci da quelli che sono venuti prima di noi, riusciamo a trasformare dei pezzi duri, repellenti di carne e frattaglie, di verdure e altri prodotti, in eccelsi manicaretti. Questa nostra abilità si è sempre basata sulla trasformazione, sull’applicazione strategica del calore al fine di migliorare i prodotti a nostra disposizione.

Ma alcuni vogliono farci credere che le fiamme intorno a cui ci riuniamo sin dall’inizio della nostra specie non rendono le cose migliori. Anzi, le peggiorano. Le rendono meno salutari. Impure. Più atte a produrre “muco” (un elemento negativo), tossine, enzimi indeboliti e, più in generale, un minore benessere. Secondo alcuni estremisti del settore, ogni volta che del cibo cotto – o carne animale di qualsiasi tipo – entra nella nostra bocca, dovremmo osservare immediatamente dopo un periodo di digiuno e provvedere a una pulizia accurata del nostro intestino.

I sostenitori e praticanti della teoria del “cibo crudo”, escludono tassativamente qualsiasi tipo di carne, pesce, pollame, formaggi, prodotti raffinati o trattati (come zucchero e farina), e qualsiasi alimento cotto, prediligendo i cibi che rimangono crudi o “vivi”. Fino a qualche tempo fa venivano considerati come una frangia estremista, che sposava una filosofia così integralista e ascetica da far apparire i vegetariani come un gruppo di libertini edonisti. Un’opera rappresentativa sull’argomento, dal titolo eloquente, 12 Steps to Raw Food: How to End Your Addiction to Cooked Food, di Victoria Boutenko, afferma che “poiché il cibo cotto non contiene enzimi, il nostro corpo non può farne uso. Perciò il corpo tratta il cibo cotto come una tossina e pensa solo a come potersene liberare”. E chi lo sapeva? Io ho sempre pensato che il mio corpo usasse il cibo come una fonte di piacere. Stranamente, più avanti, la signora Boutenko sostiene che “il nostro corpo non commette mai errori. Tutti sappiamo di cosa abbiamo bisogno se prestiamo ascolto al nostro corpo”. Io posso solo immaginare che se sento il mio corpo chiedere un cheeseburger, i segnali saranno pure arrivati da qualche parte. (A quanto pare, ciò che vuole veramente è un pasticcio alla Boutenko fatto con un trito di nocciole, carote, cipolle e banane, arricchito di erbe essiccate, lievito, polvere di baccello di psillio, e semi di lino macinati.)

Fortunatamente per molti, la letteratura sul cibo crudo non ha avuto un grande impatto persuasivo: la foto di copertina del manifesto della Boutenko mostra una tale varietà di orrori disgustosi da spaventare chiunque, tranne i devoti più ferventi; è come se una Betty Crocker anni cinquanta si fosse presa una sbornia incredibile e avesse deciso di preparare un buffet per l’Esercito di liberazione simbionese. Un Weimaraner affamato storcerebbe il naso davanti a un cibo così immondo.

Sfortunatamente, le cose sono cambiate.

Il cibo crudo è stato legittimato.

Charlie Trotter è probabilmente lo chef più famoso d’America a livello internazionale: artista, intellettuale e autore di alcuni tra i manuali di cucina più belli e innovativi. Il suo omonimo ristorante di Chicago è uno dei migliori del paese. Roxanne Klein è una veterana di molte cucine di prestigio, ed è anche lo chef/proprietario del Roxanne’s a Larkspur, in California. Lei è probabilmente la principale promotrice del crudismo. L’anno scorso i due hanno collaborato alla stesura di Crudo, un vero e proprio “manuale di cucina”, in cui niente viene cucinato. È un libro creativo, d’effetto e (soprattutto grazie alla presenza di Trotter) un pugno nello stomaco per l’intero settore culinario.

Crudo rappresenta un’abrogazione radicale (anche se esteticamente convincente) del principio basilare secondo cui i “cuochi” presumibilmente cucinano. La piastra, il forno, la bombola aperta di propano, la griglia, il barbecue, il focolare sono i luoghi in cui si fa il cibo. Giusto? La fonte di calore è il posto intorno al quale cuochi e commensali si riuniscono, si riuniranno sempre, per condividere cibo e tradizioni. Così è sempre stato, e così sarà sempre.

O forse no.

Trotter serve da qualche tempo un menu degustazione vegetariano. Avendo notato che tutti i ristoratori tendevano a rabberciare un piatto di contorni e assaggi vari quando dovevano accontentare un cliente vegetariano, ha raccolto la sfida e ha alzato notevolmente il livello per altri disposti ad arricchire le loro proposte vegetariane. Charlie Trotter ama le verdure. Le capisce. Pur sapendo che molte delle sue verdure sarebbero state sicuramente più squisite se abbinate a un po’ di pancetta a cubetti, o di bacon, o fatte saltare nel grasso d’oca, come molti altri grandi chef della storia è riuscito a ottenere il meglio con il minimo degli ingredienti.

Nella sua introduzione a Crudo distingue con cautela tra il ruolo dello chef-ricercatore e quello di paladino di un eventuale futuro agricolo a misura d’uomo. Sembra voler affermare che il cibo crudo può essere una cosa buona, ma non necessariamente l’unica. Si ha l’impressione che sia attratto più dalla sfida che da un’eventuale filosofia sottesa. Lodevolmente, la Klein invita a una cautela simile quando afferma: “Penso che sia presuntuoso da parte di chiunque dire agli altri come dovrebbero vivere la propria vita”.

Belle parole. Bel libro. Senza dubbio è una risposta alle preghiere di chiunque sia stato spinto al veganismo dalla religione o da motivi di carattere personale.

I miei pregiudizi contro il mondo vegetariano e il veganismo sono ben noti e profondamente sentiti, ma guardando le stupende illustrazioni del libro, ho concluso che qualsiasi ricerca che abbia come fine quello di creare del cibo migliore, di qualsiasi tipo, è comunque apprezzabile. Che si tratti di un esercizio intellettuale, di gastronomia, di una “strada alternativa”, questo bizzarro aspetto dello spettro culinario è meritevole di rispetto come qualsiasi altro.

Poi ho letto l’aneddoto di apertura dell’introduzione della Klein, il racconto del momento d’ispirazione che la portò a sondare i misteri del cibo crudo. Descrive l’incontro fatale, in Thailandia, con Woody Harrelson, ex stella di Cheers e sostenitore dell’uso della marijuana.

“Tutte le sere, col nostro gruppo, organizzavamo dei fantastici banchetti a base di curry vegetariano thailandese, nidi di rondine e piatti di riso. Woody, tuttavia, ordinava sempre una scodella di frutta o una macedonia di papaia verde. Cercavamo di convincerlo ad assaggiare i deliziosi piatti che mangiavamo noi, ma lui rifiutava sempre [il corsivo è mio]. Dopo reiterati tentativi, spiegò il motivo per cui era fedele alla sua dieta a base di frutta e verdura crude. Michael [il marito della Klein] e io trovammo la teoria interessante, e decidemmo di studiarla più a fondo.”

Questa storia è così terrificante che il mio corpo affamato di enzimi, carico di tossine e intasato di muco è rabbrividito nel leggerla.

Innanzitutto, perché si dovrebbe dar retta a Woody Harrelson su argomenti che esulino da come essere un attore hollywoodiano o come costruire una pipa per il “fumo” con un rotolo di carta igienica finito e un po’ di pellicola d’alluminio?

E chi si sognerebbe di ascoltare uno che ha la fortuna di visitare la Thailandia – un paese con una delle culture culinarie più varie, più interessanti, più vibranti del pianeta – e si rifiuta di provare l’incredibile magnificenza di portate, preparate con la cura e l’orgoglio della tradizione? Quale sorta di folle, arrogante, ristretta visione del mondo può giustificare l’autoesclusione totale da uno degli aspetti più interessanti di un’antica e bellissima cultura?

Per quanto mi riguarda, non c’è nessuna differenza tra Woody, il gourmet new age, che ci garantisce un colon intatto se mangiamo ogni giorno la stessa cosa, e il classico turista xenofobo della peggior specie, quello che trovandosi a Singapore, a Roma, ad Hanoi o a Città del Messico si ostina a mangiare nel ristorante dell’albergo. L’uno teme le “tossine” e le “impurità”, l’altro teme l’acqua “sporca”, le verdure “non sicure”, le “strane” e “schifose” specialità locali dall’aspetto poco rassicurante.

Imbattersi in un compatriota bisbetico quando si è in vacanza in un paese straniero è un’esperienza di per sé deprimente. Ma tornarsene a casa imbevuti del suo “tao” è ancora peggio. Specialmente quando questa sprezzante visione del mondo è stata elaborata in quel crogiuolo di idee illuminate che è Hollywood.

Al contrario, la curiosità di Trotter è come la grazia salvatrice. E la creatività di Trotter e della Klein, proposta con una formula autorestrittiva, ritengo che sia qualcosa da celebrare. Crudo fa i salti mortali per convincere il lettore che il “formaggio” di noci cajou è un sostituto soddisfacente, e che il sapore delle “lasagne” fatte con la sfoglia di zucchine non guadagnerebbe parecchio con l’aggiunta di sfoglia di farina vera, e perfino le allettanti foto patinate del loro manuale di cucina mancano miseramente di alcuni aspetti vitali (il maiale, per esempio).

Crudo rappresenta un salto di qualità nel regno di ciò che è possibile preparare con frutta e verdura. Ma offrendo il loro sostegno e incoraggiamento a Woody Harrelson, e agli eventuali Woody di tutto il mondo, Trotter e la Klein hanno aperto un vaso di Pandora esplosivo. In questo momento della storia, in cui gli americani, in numero sempre maggiore, hanno la tendenza a chiudersi in se stessi, ad allontanarsi da questo pianeta meraviglioso e favolosamente diverso e dai milioni di cuochi che lo popolano orgogliosi, in un’epoca in cui la gente ha paura quasi di tutto, i due autori hanno fatto del rifiuto e dell’astinenza volontari una condizione sempre più allettante.

Ammiro la loro capacità, davvero.

Ma ho molta paura per le sorti del pianeta.