IL SISTEMA D
Débrouillard è come ogni plongeur, o lavapiatti, ama essere definito. Débrouillard è uno che, anche se gli chiedi l’impossibile, riesce sempre a se débrouiller, a cavarsela in qualche modo.
GEORGE ORWELL, Senza un soldo a Parigi e Londra
...Era un maestro della scorciatoia, della scappatoia facile, il Sistema D, dove D sta per se débrouiller o se démerder, districarsi... e sapeva esattamente come tenersi alla larga dai guai. Era un cuoco molto abile, e anche un pessimo cuoco.
NICOLAS FREELING, The Kitchen
M’imbattei per la prima volta nella misteriosa e, per certi versi, sinistra espressione Sistema D leggendo le straordinarie memorie di Nicolas Freeling dei suoi anni trascorsi da cuoco negli alberghi di lusso francesi. Conoscevo già il termine débrouillard, avendo apprezzato il concetto di se débrouiller o se démerder nei precedenti racconti di Orwell sulla sua esperienza di lavapiatti/sguattero presso il non meglio identificato “Hotel X” di Parigi. Ma ciò che mi fece rabbrividire e correre in fretta a consultare le mie copie ingiallite di entrambi i libri, fu un commento casuale fatto dal mio sous-chef francese, mentre osservava un commis che riparava un pezzo dell’attrezzatura da cucina aiutandosi con un cucchiaino da tè.
“Ahh... Le System D!” disse con un sorrisetto beffardo e la compiaciuta espressione di chi sa. Per un attimo pensai d’essermi imbattuto in una società segreta, una consorteria di stregoni, una sottocultura all’interno della nostra sottocultura di chef, cuochi e veterani della ristorazione. Mi seccava che quello che avevo ritenuto un termine antico, appartenente al passato delle cucine, un pezzetto di arcano culinario, fosse in effetti ancora in uso, e mi sentii improvvisamente minacciato, come se la mia cucina, la mia brigata, la mia squadra di talentosi tagliagole, d’appiccafuoco, di mercenari, di vandali, fosse in segreto un covo di trilateralisti, illuministi, manipolatori di serpenti o adoratori di Satana. Mi sentivo escluso. “Hai detto ‘Sistema D’?” chiesi. “Che cos’è il sistema D?”
“Tu connais... conosci MacGyver?” rispose il mio sous-chef, pensieroso.
Feci cenno di sì, tornando con la mente a quell’idiozia di serie televisiva di anni addietro, in cui il protagonista riusciva immancabilmente a evadere da carceri di massima sicurezza e a effettuare interventi di neurochirurgia servendosi solo di una graffetta e dell’involucro della gomma da masticare.
“MacGyver!” esclamò il mio sous-chef. “Ça... ça c’est le System D.”
Indipendentemente dalla mia dimestichezza con il termine, ho sempre attribuito grande valore ai débrouillards, e in vari momenti della mia carriera, soprattutto quando ero un cuoco di batteria, sono stato molto orgoglioso di esserne un rappresentante. La capacità di pensare in fretta, di adattarsi, d’improvvisare quando c’è il pericolo di trovarsi nei pasticci o dans la merde, come dicono i francesi, anche se è necessario ricorrere a qualche espediente, è per me da anni motivo di vanto. Il mio vecchio sous-chef Steven, un cuoco dotato di molto talento e di una mente criminale, era un Gran Maestro Débrouillard, un Sergente. Un personaggio alla Bilko che, oltre a essere un eccezionale saucier, era molto versato nelle ardimentose arti di scroccare, riparare frigoriferi, entrare di soppiatto, carpire segreti, subornare e appropriarsi con destrezza di oggetti che non gli appartenevano di diritto. Era una persona che ti tornava sempre utile. Se un sabato sera, nel bel mezzo di una serata convulsa, mi finivano il fegato di vitella o le scaloppine, potevo contare su Steven che, sgattaiolando fuori dal retro della cucina, tornava qualche secondo dopo con il necessario. Dove prendesse la roba non l’ho mai saputo. Sapevo solo che non era il caso di fare domande. Il Sistema D, per funzionare bene, richiede una certa dose di omertà.
Mi fa sempre piacere trovare dei precedenti storici ai miei istinti più foschi. E nell’ambiente della ristorazione, dove l’umore tende ad altalenare dalla quasi euforia allo sconforto più nero, e così via, per almeno dieci volte a sera, è sempre bene ricordarsi che la mia brigata e io siamo parte di un vasto e ben documentato continuum che risale a molti secoli fa. Perché, tuttavia, questo aspetto possedeva per me una tale valenza magica? Dovevo rifletterci. Perché quest’orgoglio perverso nel constatare che i miei momenti più bassi, più sordidi di lavoro raffazzonato erano saldamente radicati nella tradizione, su su fino ai maestri francesi?
Tutto si riduce alla vecchia dicotomia: il filo di rasoio della quantità contro la qualità. Dio solo lo sa, tutti i cuochi vorrebbero produrre il cibo perfetto. Ci piacerebbe cucinare dai sessantacinque ai settantacinque pasti a sera, assolutamente ineccepibili, che riflettano le nostre imprese migliori, tutta la nostra preparazione ed esperienza, ogni piatto preparato solo con i migliori e più costosi ingredienti di stagione... e ci piacerebbe fare un sacco di soldi per i nostri padroni mentre lo facciamo. Ma viviamo nel mondo reale. Molti ristoranti non possono far pagare ai clienti centocinquanta bigliettoni per una cena. Fare sessantacinque coperti a sera (almeno dalle mie parti) significa ritrovarsi in mezzo a una strada... e in fretta. Duecentocinquanta o trecento coperti a sera è un numero più verosimile, se si parla contemporaneamente di un ristorante di successo di New York e della sicurezza del posto di lavoro per il tuo drappello di ben pagati cucinieri. Quando ero chef de cuisine, qualche anno fa, in un mega nightclub/supper club grande quanto uno stadio, vicino a Times Square, si parlava spesso di seisettecento coperti a sera... un cimento logistico che richiedeva capacità organizzative più simili a quelle di un controllore del traffico aereo o di un ufficiale addetto al vettovagliamento, che a quelle di un cuoco dotato di una preparazione classica. Quando si sforna una quantità simile di pasti, specialmente durante l’affluenza preteatrale, con tutti i clienti in sala che si aspettano di ingollarsi tre portate più dessert e arrivare comunque in tempo per il primo atto di Cats, conviene essere veloci. Vogliono quel cibo, lo vogliono cotto a modo loro e lo vogliono subito. È certamente appagante dare il meglio di sé, sudare e armeggiare e pulire e cesellare impeccabili composizioni di cibo à la minute per una clientela in adorazione, ma c’è un altro tipo di soddisfazione: l’orgoglio risoluto del professionista a giornata, del cuoco che ci sa fare, che muove le chiappe, che sa come sfornare delle quantità serie e “ci riesce”.
“Quanti ne abbiamo fatti?” è la domanda che spesso si sente alla fine di un turno, quando i cuochi crollano su sacchi di farina, cassette di latte e pile di biancheria sporca, fumando una sigaretta, bevendo un cocktail a scrocco e fantasticando sull’attività trasgressiva a cui si dedicheranno nelle ore libere che seguiranno. Se il numero è alto (diciamo trecentocinquanta coperti), e ci sono stati pochi reclami o piatti rimandati indietro, se verso la porta del ristorante si sono avviati solo avventori felici e satolli, riuscendo a farsi strada a stento nella ressa dei clienti in entrata... be’, questa è una statistica che tutti riusciamo a comprendere e ad apprezzare. Beveraggi e congratulazioni sono dovuti. Ce l’abbiamo fatta! Non ci siamo trovati nei pasticci! Non siamo rimasti a corto di nulla. Cosa potrebbe esserci di meglio? Non solo abbiamo servito un numero mostruoso di pasti senza intoppi, ma li abbiamo serviti in tempo e nell’ordine giusto. Abbiamo scongiurato il disastro. Abbiamo portato onore e ricchezze al nostro clan.
E se si è trattato di una notte particolarmente dura, se lo spettro della disfatta ha aleggiato su di noi, se abbiamo evitato per un pelo quella specie di orrore che si manifesta quando la cucina “perde il ritmo”, se siamo riusciti a cavarcela per il rotto della cuffia senza soffrire ingenti perdite... tanto meglio. Immaginiamo l’ipotesi peggiore: il saucier è messo costantemente sotto pressione. Tutti i piatti ordinati escono dalla sua postazione, invece di essere ripartiti tra la griglia, i primi piatti e gli antipasti. Il povero diavolo è martellato, rischia continuamente di rimanere indietro, di restare senza mise en place, di perdere la testa. Non c’è niente di peggio, in una situazione del genere, di quel terribile momento in cui un cuoco di batteria alza gli occhi verso il pannello delle comande, passa in rassegna la lunga linea di foglietti svolazzanti, e scorge solo incomprensibili segni cuneiformi, scarabocchi a zampa di gallina tipo alfabeto sanscrito, che per il suo cervello avvizzito, disidratato, abusato e bollito non significano assolutamente nulla. Ormai ha “perso il ritmo”... è dans la merde... e poiché il lavoro in cucina richiede grande coordinazione e gioco di squadra, rischia di tirare a fondo con lui tutta la catena di montaggio.
Ma se sei abbastanza fortunato da avere una macchina ben lubrificata che lavora per te – un gruppo di irriducibili, energici, notori débrouillards sul libro paga – le probabilità di una catastrofe sono ridotte al minimo. Cholos della vecchia guardia, asesinos, patos locos, veterani di molte cucine, come i miei cuochi, sanno cosa fare quando sui fornelli non c’è più spazio neppure per una padella. Sanno come sbattere il coperchio di una griglia o chiudere la porta di un frigorifero anche quando hanno le mani occupate. Sanno quando entrare nella postazione di un altro cuoco – e, cosa più importante, sanno come farlo – senza che quella postazione si trasformi in un incontro di rugby di piedi calpestati e gomitate nei fianchi. Sanno come lanciare una pentola sporca da un lato all’altro della cucina, e farla atterrare esattamente al suo posto nel lavello, senza sfigurare il lavapiatti.
È proprio quando gli ordini cominciano a fluire, e le riserve a scarseggiare, e gli umori ad alterarsi che l’applicazione del Sistema D raggiunge il suo più alto livello. La caldaia dell’acqua calda esplode? Niente panico. Metti da parte le rillettes e fai bollire dell’acqua. Sono finiti quei bei piatti da portata per gli involtini primavera d’aragosta? Non c’è problema. Inventati una nuova presentazione e servili nei piatti tondi. Sappiamo cosa fare. Il tritacarne s’è rotto? E allora ci sarà bistecca alla tartara tritata a mano. Ci sono poche cose che trovo più affascinanti di un gruppo di duri, supertatuati cuochi di linea che il sabato sera agiscono con lo stesso sincronismo di un corpo di ballo. Vedere due tipi che nel tempo libero si taglierebbero volentieri la gola a vicenda muoversi all’unisono con grazia e leggerezza può avere lo stesso effetto inebriante di uno stimolante chimico o una religione organizzata.
In momenti del genere, sotto il fuoco nemico, come su un campo di battaglia, la cucina ritorna a essere quella che è sempre stata fin dai tempi di Escoffier: una brigade, un’unità paramilitare, in cui ognuno sa cosa deve fare e come farlo. Gli ufficiali prendono delle decisioni rapide, necessariamente irrevocabili, e tanti saluti se non sono le migliori. Non c’è tempo per tentennare, cianciare, ponderare, empatizzare, quando c’è una pioggia di fuoco che minaccia di far crollare la cucina con tutta la sala da pranzo. Andate avanti! Prendete quella collina! Costretti dalla situazione a sacrificare la graziosa guarnizione d’insalata sulla sella d’agnello en crépinette? È un peccato, ma ci piangeremo sopra più tardi, durante la relazione postoperativa, quando staremo tutti ingollando comodamente un sushi e bevendo sakè ghiacciato o cicchetti di vodka nel locale di qualche amico aperto fino a tardi. Ora è il momento del Sistema D, fratello, e non c’è tempo per quel mazzetto d’erbe. C’è il pesce da tenere sotto controllo, e uno dei runner 1 è appena caduto per le scale e si è rotto la caviglia, e hanno chiesto delle forchette al tavolo sette, e quel tavolo da dodici è arrivato in ritardo e sta occupando mezza sala da pranzo, dilungandosi con i cognac in mano, mentre i clienti che aspettano al bar o in strada, infreddoliti, stanno cominciando ad assumere lo sguardo arrabbiato e allucinato che hanno le folle in tumulto e i miliziani liberiani che hanno passato troppo tempo nella giungla. Sta finendo la rucola? Sostituiscila con la valeriana, per amor del cielo! Mischiala con gli spinaci, col crescione... basta che sia verde!
In momenti come questi, anche un solo, eroico praticante del Sistema D può salvare la giornata, può intervenire e cambiare il corso degli eventi. Un individuo, da solo, può fare la differenza tra un’altra serata brillante e lo scompiglio totale. Ce ne possiamo tornare a casa ridendo di tutto quello che abbiamo dovuto sopportare, soddisfatti di noi stessi, parlando dell’autobus che non ci ha investiti, invece di trascinarci fuori dalla cucina mesti, imprecando contro la puta vida e bofonchiando mezze parole di rammarico.
Detto questo, mi è capitato di sentire e vedere degli emeriti cuochi irridere il Sistema. “Questo non lo farei mai” dicono, quando sentono di qualche oltraggio culinario perpetrato in un’altra cucina. “Mai!” insistono, con la stessa sicumera di un ufficiale francese sulla linea Maginot prebellica. Ma quando il barbaro nemico compare sulle mura, e non c’è il sostegno del fuoco, e la retroguardia è in piena ritirata... questi stessi individui sono i primi a commettere dei crimini culinari che perfino il più incallito praticante del Sistema D non si sognerebbe mai (be’, quasi mai) di commettere.
Una bistecca ben cotta in pochi minuti? Ho visto con i miei occhi chef diplomati di ristoranti a tre stelle spremere il sangue da un filet mignon con il peso del loro corpo, trasformandolo in pochi secondi da poco cotto a ben cotto. Ho osservato con orrore cuochi immergere delle bellissime chateaubriand nella friggitrice elettrica, passare al microonde le costolette di vitello, allungare le salse con l’acqua unta e salaticcia della pentola a vapore. E quando c’è la ressa? Tutto ciò che cade a terra, guarda un po’, cade “proprio sul tovagliolo”. Lasciate che ve lo dica: dev’essere veramente enorme questo tovagliolo.
Il Sistema D, a quanto pare, raggiunse l’apice con la nascita degli alberghi ferroviari di vittoriana memoria, dove i menu erano lunghissimi, e non era inconsueto che si presentassero all’improvviso duecento ospiti alla porta che volevano, per esempio, tutti la fricassea di aragosta Thermidor... quando c’erano solo cinquanta porzioni disponibili. E così, ipso facto, l’aragosta per cinquanta si trasformava in aragosta per duecento. Non chiedetemi come. Non vi piacerebbe saperlo. È probabile che il Sistema cominciò con le richieste sempre più pressanti di cucina da grandi numeri, e fu poi perpetuato dalle generazioni seguenti, a mano a mano che l’età d’oro dei megahotel cominciò a tramontare e gli enormi locali da pranzo e sale da banchetto dei bei giorni andati si trovarono a dover affrontare il problema di servire pasti di gran lusso e menu gonfiati con un personale sempre più esiguo e un occhio sempre più attento al risparmio. Ho il sospetto che alcuni dei piatti classici di quell’epoca riflettano la filosofia del Sistema D, in particolare il tentativo di ottenere maggiori risultati con un numero inferiore di ingredienti. Il potage mongole, per esempio, consentiva al cuoco di prendere un po’ di vellutata di piselli, un po’ di vellutata di pomodori, mischiarle e ricavare un terzo piatto da aggiungere al menu. Il tanto celebrato Delmonico di New York proponeva, a un certo punto, una varietà sconcertante di zuppe: oltre un centinaio. È logico concludere che non fossero tutte preparate singolarmente, e con prodotti di giornata. Parsimoniosi e lungimiranti, i francesi – già abituati a ricavare il massimo dagli ingredienti più umili (leggi a buon mercato) – utilizzavano ogni briciolo di carne, zampe, muso, lingua e altri organi, creando dei piatti che oggi sono dei classici richiestissimi e spesso molto cari, che i clienti scelgono per i loro meriti, e non in quanto sottoprodotti abilmente camuffati.
I tradizionali bistrò che sorsero intorno ai Les Halles, i mercati generali di Parigi, costituirono un terreno fertile per cuochi e chef con esperienze alberghiere che estremizzarono il Sistema D. Il loro spazio di lavoro era limitato, molti avevano problemi di soldi, e i mercati – da cui proveniva la clientela – generavano enormi quantità di quello che poteva essere considerato cibo immangiabile. Se riempi la dispensa con prodotti provenienti da un negozio che si pregia di chiamarsi il Padiglione della Trippa, tenderai a specializzarti soprattutto in sanguinacci, testine di maiale, confit di orecchie, membrane di stomaco, stinchi, pasticci e galantine. Non accontentatevi delle mie parole. Leggetevi Orwell o Freeling, o il magistrale Ventre di Parigi di Zola; niente di ciò che ho detto o dirò mai si avvicina minimamente alle terrificanti storie di cibo bistrattato, voci del menu criminalmente travisate, misure sanitarie precarie e merci di dubbia provenienza, raccontate in questi classici sull’argomento. Orwell racconta di quando lavorava in uno di questi locali, coi rifiuti fino alle caviglie, e dei pasti che ne uscivano... e non si trattava certo di una bettola. Ancora oggi, in Francia, i veterani dei bistrò sono maestri del Sistema D, costretti come sono a lavorare in cucine lillipuziane, e a produrre da dieci a dodici varietà di piatti, nonostante lo scarso spazio per la conservazione, la refrigerazione e la preparazione del cibo, spesso con un plongeur che sgomita alle spalle. Provate a lavorare con uno di questi soggetti, anche nelle più spaziose cucine di Manhattan, e assisterete a una serie di pratiche che sicuramente non si insegnano nelle scuole culinarie.
Certo, gli espedienti sono una cosa, la negligenza un’altra. Detesto la prassi di “scottare, affettare e grigliare”, quando, per esempio, invece di scottare un gigot, per poi passarlo al forno per la cottura definitiva, il cuoco lo scotta all’esterno, lo taglia a fette (ancora crudo) e poi le passa sotto la salamandra perché prendano colore. Ho visto cuochi in difficoltà passare contemporaneamente agnello, manzo e anatra tutti nello stesso tegame. Anche questo lo detesto. E invece di ridurre o di addensare le salse secondo la necessità, ogni volta in un pentolino pulito, alcuni cuochi ne tengono uno apposito per le salse, quasi pietrificato e tutto incrostato, sempre pronto su un fornello laterale, e vi aggiungono ogni volta il composto da lavorare, finché il contenuto si trasforma in un’abominevole poltiglia salata, bruciacchiata e amara. Non fa per me, grazie... e non nella mia cucina. Il microonde è stato una benedizione per i grandi esperti del Sistema D. Ho visto veterani di ristoranti a tre stelle gettare grosse porzioni di côte de boeuf ancora crudo nel forno a microonde, probabilmente per “riscaldarlo” allo scopo di ridurne i tempi di cottura!
Si può essere fieri praticanti del Sistema senza ricorrere ai crimini contro il cibo. Con una buona varietà di mosse a disposizione, una mente pronta e capace di adattarsi, e stabilendo una certa soglia, un livello oltre il quale non è consentito andare per nessun motivo, si possono infrangere tutte le regole e riuscire comunque a produrre del buon cibo. I clienti avranno ciò che vogliono, quando lo vogliono. E nessuno ci farà caso.
Se Vatel, il famoso chef francese del passato – che secondo quanto si racconta si tolse la vita quando apprese che la sua portata di pesce sarebbe stata servita in ritardo – fosse stato pratico del Sistema D, avrebbe potuto vivere una vita più lunga, più felice e più prospera. Dopo tutto, lo ricordiamo solo per il modo in cui morì.
Probabilmente non conosceremo mai il nome del pioniere del Sistema D, di colui che per primo, posando lo sguardo su una lumaca in un momento di bisogno pensò tra sé: “Diavolo... se ci metto abbastanza burro all’aglio, riesco a servire anche questa!”. E ancora oggi mangiamo escargots de Bourgogne, no?
1 Cameriere incaricato di portare le vivande dalla cucina alla sala ristorante [N.d.T.].