DA NON PERDERE, PENA LA MORTE!

La prima volta che sono stato a Singapore, l’ho odiata.

Appena uscivo all’aperto, il caldo mi colpiva dritto al petto, un’umidità densa e penetrante, resa ancora più insopportabile dal sole, che bruciava senza tregua. Un’afa terribile, di quelle che ti costringono a fare tre docce al giorno e a cambiarti d’abito già all’ora di pranzo; invece, quando mi rifugiavo in qualche bar per una birra, c’era l’aria condizionata e faceva un freddo cane, che ti entrava nelle ossa, eppure, nonostante si avesse l’impressione di stare in una cella frigorifera, gli avventori del posto si bevevano allegramente le loro Tiger in maglietta a mezze maniche. R.W. Apple Jr. ha descritto Singapore come “una Disneyland in cui vige la pena di morte”, e non a caso. L’elenco di cose proibite (sputare, gettare rifiuti, masticare il chewing-gum, attraversare la strada fuori dalle strisce pedonali) è incredibilmente lungo, e la fissazione del governo per lo sviluppo sociale ha fatto in modo che molto di ciò che io e voi avremmo giudicato affascinante venisse sostituito da gabbie per conigli ultramoderne fatte di centri commerciali tutti collegati tra loro. Internet è controllato, è consigliabile non farsi beccare con della droga entro i confini cittadini e poi... be’, sì, tecnicamente anche i pompini sono illegali (benché distribuiti con generosità, grazie al cielo).

Adesso, invece, l’adoro. E ci torno appena posso.

Perché Singapore è una specie di paradiso terrestre, abitato dai più scatenati e pazzi amanti del cibo del pianeta. Attenzione, non intendo “gourmet”. I buongustai locali non hanno nulla a che vedere con quegli insopportabili e spocchiosi sfigati che stanno a New York e non fanno che parlare del nuovo ristorante di Jean-George o del perché il tale chef ha perso una stella. Gli abitanti di Singapore non collezionano esperienze culinarie come fossero francobolli, non ne parlano e soprattutto non se ne vantano. Non sono gastronomi. A loro piace mangiare, punto. E dal momento che vivono in un paese in cui la cucina cinese, malese e indiana è equamente (e con orgoglio) rappresentata, sono abituati a mangiare bene. Quando parlano di cibo, di solito sanno quello che dicono. Non sono snob, anzi, è più probabile vederli ingozzarsi di spaghetti a una bancarella, piuttosto che nel nuovo ristorante alla moda.

Io l’ho imparato a mie spese durante un elegante ricevimento di ricconi nella sala da ballo di un megahotel. Dall’auditorio, qualcuno mi chiese dove avevo mangiato il miglior riso col pollo, la specialità del posto. Quando ammisi, imbarazzato, che non avevo ancora avuto il piacere di assaggiarlo, le cinquecento persone in sala esplosero in un sonoro (benché in buona fede) boato di disapprovazione. Successivamente, ci fu un momento di caos quasi anarchico, poiché la folla si mise a discutere con passione su quale locale, tra i tantissimi specializzati, era meglio consigliare a quel patetico e ignorante scrittore/chef americano. A proposito, per chi non lo sapesse, il riso col pollo non è altro che pollo bollito con riso in bianco, ma per i singaporesi è come i bocconcini di fegato, il pastrami o la pizza per i newyorchesi. Ognuno ha i suoi gusti. La discussione si fece accesa, quasi polemica. Eleggere il ristorante migliore avrebbe potuto sfociare in rissa, ma naturalmente menare le mani era illegale (e dunque impensabile).

Il mattino dopo chiamai il mio amico K.F. Seetoh, il “guru” della Makansutra Guide, una specie di guida infallibile alle bancarelle, ai ristoranti e ai punti di ristoro disseminati lungo le strade di Singapore. Per dare un voto al locale non si usano le stellette, ma le ciotole di riso. I voti vanno dal “Buono”, all’“Ottimo”, all’“Eccellente”, all’“Ancora non l’hai provato? Vergogna!” e, per concludere, il massimo riconoscimento: “Da non perdere, pena la morte!”. Seetoh mi suggerì il Tian Tian Hainanese Chicken Rice, un minuscolo chiosco nell’affollato Maxwell Road Food Centre, di solito indicato come uno dei migliori.

Entrai nel bugigattolo, che sfoggiava una fila di pennuti appesi in vetrina, ordinai una porzione e cominciai a mangiare una specie di morbido cuscino di riso bianco con una pila di bocconcini di pollo, esangui e sugosi, nel mezzo. Come contorno, un po’ di cetrioli, una salsa superappiccicosa e piccante, simile alla salsa barbecue, un pizzico di zenzero grattugiato e un intingolo all’aglio e al pepe. Bisogna mischiare tutto insieme secondo il proprio gusto, che varia a seconda dell’immaginazione che uno ha. Guardando gli altri tavoli disposti nel lungo corridoio, tra file di chioschi bene illuminati, notai che i singaporesi condivano, intingevano e mescolavano tra loro gli ingredienti di base creando con entusiasmo combinazioni personali, tanto che non c’erano mai due piatti uguali uno all’altro. Rimasi stupefatto dalla semplicità della pietanza: sembra quasi cibo per bambini, ma la gente del posto si sente bene quando lo mangia, ogni boccone è un rassicurante viaggio nei recessi della memoria. E, in effetti, da Tian Tian era deliziosa, la guida aveva proprio ragione. La prossima volta che mi chiederanno dove si mangia il miglior riso con pollo della città, saprò dare una risposta decente.

Da lì, mi diressi al chiosco numero cinque, un locale chiamato Oyster Cake, e non a caso. La proprietaria mi disse con orgoglio che serviva lo stesso piatto, e solo quello, da ben quarantacinque anni. Mi immaginai, e a ragione, che dopo tanto tempo fosse diventata una vera esperta, e la ressa di clienti in fila per il bignè fritto, tipo quello che si mangia a Foochow, ripieno di ostriche, carne di maiale macinata, gamberetti e pastella, sembrava confermare la mia supposizione. Mi sedetti a un tavolo centrale (i tavoli centrali, inchiodati al pavimento, sono gestiti da tutti i locali insieme), puntai un tubetto di salsa piccante in mezzo al tortino e schiacciai con forza. Una vera delizia, che innaffiai di succo di canna da zucchero chiesto a un chiosco vicino.

Ormai ci avevo preso gusto, non riuscivo più a fermarmi. In un locale che reclamizzava la “zuppa di organo di maiale”, un vistoso cartello offriva l’appetitoso ba ku the, una specialità malese. Mi sedetti di nuovo e stavolta mi portarono una ciotola coloratissima di costolette di maiale bollite e un’altra con delle verdure e un brodo chiaro e fumante. Ordinai un succo di mango fresco e cominciai a sgranocchiare le mie ossa e a trangugiare il brodo finché, felice come una pasqua, non mi sentii sazio.

Andarsene fu un’impresa. Dovetti dire addio a decine di specialità senza nemmeno averle assaggiate, compresa un’intera sezione di macellerie halal, separate rispetto agli altri chioschi; al mee suah fritto, un invitante piatto a base di cozze, interiora di maiale, gamberetti, ventrigli di pollo, fegato e calamari, e al nasi lemak, un brodo speziato di frutti di mare servito con spaghetti e latte di cocco. Una fila infinita di persone stava aspettando un porridge simile al congee di riso – come quello che si serve a Taiwan e in Thailandia, per intenderci – e, dovunque guardassi, mi sembrava che dai chioschi affollati, gestiti da proprietari orgogliosi, traboccassero cibi deliziosi, freschi, multicolori. Il posto era pulito e ben organizzato, e si respirava un’aria amichevole e informale. Ogni esercizio esponeva il certificato dell’ufficio sanitario locale. A fine giornata, in base alle ferree regole nazionali in materia di igiene, gli avanzi venivano buttati via e la mattina dopo ogni venditore ricominciava daccapo con ingredienti freschi.

Ecco come dovrebbe essere un punto di ristoro, pensai, avviandomi verso l’uscita. Immaginate che ce ne sia uno vicino a voi, al centro commerciale, per esempio, ma non un fast food americano, mediocre e sempre uguale a se stesso, la morte dell’anima, piuttosto un’ampia gamma di locali etnici, ognuno diverso dall’altro, i cui proprietari hanno perfezionato la propria arte per decenni e sono in grado di offrire il meglio. Immaginate una fila di locali indipendenti, ognuno dei quali offre una specialità diversa, che rispecchia la propria cultura. Immaginate... che in tutti gli Stati Uniti al posto delle porcherie dei fast food ci sia dell’ottimo cibo, pietanze deliziose, veloci e a buon mercato, dal gusto unico e inconfondibile. Che la gente sorrida e si diverta mentre mangia seduta a tavoli colorati – come a Singapore –, che parli e discuta di ciò che ha nel piatto, godendosi questo semplice e fugace momento di vita quotidiana, invece di ruminare, apatica, dischi di carne grigiastra al gusto di manzo, avvolti nella carta, prima di scivolare verso l’apocalisse cardiaca senza colpo ferire. Non sarebbe un bel miglioramento?

Esaltato da quest’ultima esperienza culinaria, il giorno dopo telefonai a Seetoh e mi misi interamente nelle sue mani. “Portami a mangiare il meglio che offre il mercato” gli dissi.

La prima tappa fu alla Sin Huat Eating House, all’incrocio tra Geylang Road e Lorong 35, un locale fatiscente e, a prima vista, anche poco pulito (anzi, ci voleva una buona dose di coraggio a chiamarlo ristorante) nel quartiere a luci rosse. La sala da pranzo era presidiata da un cuoco/cameriere dall’aria truce, troppo impegnato a pelare aglio e scalogno per degnarci di uno sguardo. Un frigorifero con lo sportello di vetro conteneva qualche bottiglia di Tiger e poco altro: poiché nessuno ci dava retta, ci servimmo da soli. I pochi tavolini rotondi e traballanti all’aperto costituivano un punto strategico da cui osservare la parata di prostitute misere e sgraziate. Il resto dello spazio, come in una bottega, era zeppo di peschiere, casse di birra e contenitori di legno e di polistirolo pieni di crostacei. Al Sin Huat il pesce rimane vivo finché i clienti non lo ordinano.

Nonostante le luci troppo forti, le magliette sudicie dello staff e i gatti randagi che pattugliavano i tavoli, ci gustammo un pranzo strepitoso. Non fu una sorpresa per me. Come ho avuto modo di scoprire durante i miei viaggi, sporcizia, assenza di aria condizionata e materie prime ancora vive sono ottime garanzie. Se vedete una fila di gente del posto davanti a un sudicio buco in periferia, spesso è un segnale positivo.

Riferendosi allo chef Danny Lee, che era venuto a salutarci con indosso una T-shirt bianca, pantaloncini e stivaloni di gomma al ginocchio, Seetoh commentò: “Questo tizio è come un fiore di loto, che sboccia solo se è immerso in una palude. È come estrarre il paradiso dall’inferno”.

Non mi ricordo di avere ordinato qualcosa di preciso. Di sicuro nessuno mi portò il menu. Ma arrivarono comunque sette portate di pesce, tra le più gustose e fresche che abbia mai mangiato: un miracolo di intelligenza selvaggia, appassionata, contro le regole. Non vidi mai una verdura, a parte un solitario bulbo di scalogno fiorito dall’aria triste, come guarnizione. Niente riso. Niente contorni. Ogni portata era zeppa di aglio, tuffata nell’aglio, ripiena di aglio o abbarbicata su una montagna d’aglio. Tuttavia, ognuna aveva un sapore diverso, stupendamente diverso, e l’aglio non si sentiva nemmeno. L’ingrediente principale (cioè il pesce) risaltava forte e impavido su tutto il resto.

Il gong-gong, che si può tradurre come “stupido-stupido”, almeno a detta di Seetoh, erano buccini cotti al vapore e poi saltati nell’aglio, serviti su un vassoio d’acciaio. Estraemmo la polpa tenera e burrosa dalla conchiglia servendoci di uno stuzzicadenti. Poi arrivarono dei gamberetti all’aglio ricoperti di un ripieno all’aglio e passati alla griglia; anche in questo caso, la dolcezza dei crostacei (che fino a qualche minuto prima zampettavano sul fondo della peschiera) brillava di luce propria e, in un modo o nell’altro, costringeva l’aglio a una docile resa. Quando ci servirono capesante con uova di pesce, ancora nelle loro conchiglie e glassate in una salsa di fagioli neri, ormai mangiavo con le mani, attento a non perdere nemmeno una goccia di condimento o un filo di polpa. Poi fu la volta di una cernia maculata cotta al vapore e completa di lisca, naturalmente. È un pesce molto pregiato, che costa circa cento dollari al pezzo, e questo pesava quasi un chilo. Infilai la forchetta in una guancia, e Seetoh andò in visibilio. Mangiammo rane all’“essenza di pollo” e una pastinaca cotta al vapore con scalogno, e il mio mentore si sentì ispirato a tal punto da esclamare: “Shiok!” e “Steam!”, che in “singlish”, un misto di inglese e singaporese, significano più o meno: “Ottimo, cazzo!”. (Per spiegarmi come funzionava il dialetto locale, mi disse che lui pensava in cinese e poi parlava in inglese; quindi passò a commentare la portata successiva, il fiore all’occhiello del Sin Huat, il famoso granchio bee hoon: “Ah, che buono! Terribilmente piccante!”.)

L’immenso granchio femmina era stato tagliato in deliziosi bocconi ripieni di uova di pesce, rosolati nell’olio bollente e poi cotti a fuoco lento in una magica salsina a base di soia fatta in casa e brodo ristretto, infine guarniti con spaghetti di riso, peperoncino e aglio. “Prima devi mangiare gli spaghetti” mi suggerì Seetoh, con lo sguardo assente, annebbiato. Il tavolo era sommerso da una montagna di gusci di gambero, capesante vuote, femori di rane, lische di pesce e bottiglie vuote di Tiger. Al settimo cielo per il cibo, la birra e l’atmosfera del posto, che ormai era diventata calda e accogliente, all’improvviso divenni poco loquace e mi concentrai sul granchio e sulla ricca polpa.

“Seetoh, vecchio mio,” farfugliai in tutta sincerità “ho mangiato nei ristoranti di tutto il mondo. Ho assaggiato del pesce che la maggior parte della gente può solo sognare. Discendo da una famiglia di pescatori d’ostriche francesi. Sono stato al mercato Tsukiji di Tokio. Ho mangiato una ventresca di tonno ancora vivo che costava quattrocento dollari al chilo. Da Le Bernardin sono stato trattato con i guanti, sant’Iddio! Ma questo, questo, è il pranzo a base di pesce più buono che abbia mai provato!”

Seetoh sorrise, succhiò un po’ di grasso di granchio dalla conchiglia e mi guardò con indulgenza. “Perché perdi tempo a parlare invece di mangiarti questa delizia, eh?”