IL PESO DELLA TRADIZIONE

Ero sulla Sessantesima Est, davanti alla facciata poco invitante del Veau d’Or, il classico locale che non si degna mai nemmeno di una fugace occhiata (diavolo, chissà quanti milioni di volte ci sarete già passati davanti!), che espone ancora in vetrina sbiadite recensioni incorniciate di critici culinari ormai morti e sepolti da un pezzo. Avevo appuntamento lì per pranzo con un amico e mi stavo fumando l’ultima sigaretta prima di entrare, quando mi si avvicinò una sconosciuta.

“Pranza qui?” mi chiese la donna.

“Ehm... sì” risposi stancamente, temendo ciò che avrebbe potuto aggiungere.

“Lo adorerà, ne sono certa!” strillò. “Io lo amo questo posto! È meravigliosamente antico, un vera delizia!” Poi, all’improvviso, le venne in mente una cosa a cui non aveva pensato e si fece seria in volto. “Non lo dica troppo in giro, però, intesi?”

Qualche minuto dopo, il vetusto proprietario-cameriere del Veau d’Or gettò il mio cappotto su un tavolo libero e mi accompagnò in una piccola sala da pranzo semideserta dove mi aspettava il mio amico. Una coppia era seduta a un tavolo d’angolo, fianco a fianco su una vecchia panchetta rossa. Qualche avventore solitario, clienti abituali a giudicare dall’aspetto, mangiava in silenzio, concentrato sul cibo. A quarantasette anni suonati, ero il più giovane tra i presenti.

Mi trovavo nel Ristorante Dimenticato dal Tempo, un’impressione che si fece quasi certezza appena diedi uno sguardo al menu, che assomigliava di più a un documento storico risalente a decenni prima, proprio come la sala da pranzo. Leggere l’elenco delle portate e le specialità del giorno era come fare un tuffo nel passato, un volo in caduta libera dentro un buco spazio-temporale. Fin dal carattere di stampa e dal logo, il menu sembrava un oggetto di scena di un film degli anni quaranta. A mano a mano che leggevo, mi accorgevo che a ogni proposta provocatoriamente fuori moda sussultavo: céleri rémoulade, saucisson chaud, poireaux vinaigrette, hareng à la crème, vichyssoise, endives roquefort...

“Oddio!” balbettai come un idiota, e in volto mi si dipinse un gran sorriso. “Non credo ai miei occhi!”

Trota meunière, navarin d’agneau, pollo saltato al dragoncello, poussin en cocotteBonne Femme”, rognons de veau dijonnaise, coq au vin, tripes à la mode de Caen: un classico dopo l’altro da bistrò francese dimenticato. E i dessert? I dessert! Okay, passi per il crème caramel e la tarte aux pommes, che sono ancora in auge e dunque uno se li aspetta, ma le oeufs à la neige? La pêche Melba? Per trovare queste ricette bisogna scartabellare vecchie copie del Répertoire de la Cuisine o del Larousse. Che follia! Che pazzia! Che meraviglia!

Vedendomi sghignazzare, avreste potuto pensare che stavo analizzando quel menu preistorico con occhio moderno e postironico, e che in un certo senso mi stavo facendo beffe del proprietario e della sua improbabile, irrazionale e praticamente invendibile scelta di piatti, perché trovavo divertente il fatto che il menu del ristorante fosse così surreale, antiquato e ostinatamente assurdo, considerato che eravamo a due passi da Bloomingdale’s e da Madison Avenue.

Ma sareste stati in errore.

Mi vennero davvero le lacrime agli occhi. Provai un tuffo al cuore. E mentre mangiavo céleri rémoulade e rognons de veau, orgogliosi della loro totale mancanza di qualsivoglia guarnizione, e, per finire, îles flottantes, sprizzavo ammirazione da tutti i pori. La tradizione. La cucina di una volta, il cibo francese che avevo conosciuto e amato agli inizi della mia carriera, il punto di partenza da cui ho cominciato... e non solo io, ma tanti altri miei colleghi chef. So di non essere il solo a provare questi sentimenti.

A Parigi, naturalmente, continuano a servire queste pietanze senza fare dell’inutile ironia. Ci sono stato di recente. Una volta stavo camminando per Saint-Germain-des-Prés e la mia editor, che era cresciuta proprio in quel quartiere, a ogni isolato si fermava, mi indicava eccitata una vetrina dall’aria abbandonata e mi diceva: “Oh! Là dentro fanno i migliori rognons de veau flambée di tutta la città!”. È come camminare per il New Jersey con un americano e sentirlo elogiare con passione i pregi del polpettone delle tavole calde o dell’insalata di tonno dei bar. Io adoro i francesi. Per loro, un momento semplice come il pranzo diventa un’ossessione maniacale, ma anche questo fa del mondo un posto migliore.

E noi? Cos’è rimasto della cuisine bourgeoise, un tempo diffusissima, anzi, de rigueur, ma ormai dimenticata, e degli esclusivi classici “continentali” che pare si siano inabissati insieme al Titanic? C’è ancora qualcuno che li apprezza? E che perpetua la gloriosa tradizione, a dispetto dell’azione corrosiva del tempo, delle mode e del buon senso?

Per un po’ famosi chef americani hanno scopiazzato dai classici della vecchia scuola. Da decenni in ogni ristorante si trovano “napoleon” che ricordano in qualche modo la millefoglie originale. Thomas Keller serve una blanquette fasulla (a base di aragosta) ed Eric Ripert propone un croque-monsieur (di caviale e salmone affumicato); inoltre sono secoli che altri saccenti modernisti, sia in patria che all’estero, saccheggiano liberamente il cuore dei classici dimenticati.

Se potessero, servirebbero rognons de veau Bercy. Non ho dubbi.

Per uno chef, preparare i “classici dimenticati” alla vecchia maniera, secondo la ricetta originale, può rivelarsi un’impresa faraonica. Prendiamo una “vera” blanquette de veau, per esempio. Per farla come vuole la tradizione, bisogna far cuocere a fuoco lento il collo o la spalla di vitello nell’acqua (niente aggiunte di brodo ristretto o spezie); inoltre, i funghi non devono essere caramellati e la pietanza va servita solo con un contorno di riso bianco. In breve, non devono esserci colori. Né guarnizioni. E nemmeno eleganti piatti neri. Ciò va contro l’istinto primordiale, la saggezza e l’educazione di qualunque chef moderno. Ricercare contrasti cromatici e presentazioni azzardate che catturino l’attenzione, lasciare la propria firma su qualsiasi alimento entri in cucina, aggiungendo o sottraendo ingredienti insoliti, anche con la più classica delle pietanze, è l’esigenza naturale di ogni chef che si rispetti. Ma la blanquette de veau dev’essere bianca. Non dev’esserci nemmeno una fogliolina di prezzemolo né un ciuffetto di cerfoglio a disturbare l’ininterrotta monocromia. Se si cambia qualcosa, non è più una blanquette. È un altro piatto.

Non è facile per uno chef. Procedere nel modo “giusto” può rivelarsi una mossa azzardata, quasi reazionaria. O una manifestazione pura e genuina di sincero e imperituro amore.

Oppure, e per fortuna succede ancora in molti ristoranti degli Stati Uniti, si può diventare un’istituzione che, per un motivo o per un altro, ha deciso di restare ferma nel tempo e nello spazio, come una mosca intrappolata nell’ambra, sempre uguale a se stessa... senza volerlo, oppure per paura di cambiare, o per fedeltà nei confronti della clientela, che non sopravviverebbe alla minima novità.

Guardate il Louis XVI di New Orleans, dove servono ancora quei mostri che si gustavano a bordo delle navi da crociera ottocentesche: ostriche alla Rockefeller, feuillantine de crustacés (volau-vent di crostacei in salsa Nantua!), canard Montmorency (anatra con salsa alla ciliegia), filet au poivre preparato al tavolo e – rullo di tamburi – il leader incontrastato del cimitero degli elefanti, l’incredibilmente rétro filet de boeuf alla Wellington! Ma ci pensate? È un filetto di manzo ricoperto di foie gras e salsa Duxelle ai funghi, avvolto nella sfoglia, passato al forno e servito con bordelaise al tartufo (salsa périgourdine). Quando è stata l’ultima volta che avete visto tutte queste parole – duxelle, tartufo, foie gras e pasta sfoglia – insieme in un’unica frase? Questo piatto, pardon, questo cliché culinario trito e ritrito, pesante, faticoso da preparare e difficile da servire e riscaldare, ha superato indenne i molteplici assalti che gli hanno sferrato da più parti: la nouvelle cuisine, la cuisine minceur, la fetta di kiwi su piatto grande – con petto di poussin senza pelle aperto a ventaglio – i grani di pepe rosa, gli influssi della cucina asiatica e americana, i barbecue, la dieta Atkins, la gastronomia molecolare e... il buon senso della gente. Tanto di cappello allo staff del Louis XVI. Sono i Robert Mitchum, i Johnny Cash, i Keith Richard della ristorazione: troppo vecchi, troppo in gamba e troppo fantastici per cambiare. Lunga vita al Louis XVI!

Al Chaumière di Washington continuano a proporre quenelles de brochet (gnocchi di pasta bolliti ripieni di luccio e serviti con salsa Nantua), un piatto di cui si ricorda forse uno chef su un milione e ancora meno lo sanno cucinare. Poi ci sono cassoulet toulousain, boudin blanc, trippa e cervella di agnello. Temo che di questi tempi, così difficili e pericolosi, la trippa e le cervella di agnello non usciranno neanche dalla cucina, ma bisogna rendere onore al merito di averli inseriti nel menu. È una decisione che rasenta l’eroismo.

La Petite Auberge a New York offre ancora coquille Saint-Jacques servite in gusci di capesante, proprio come faceva mia madre negli anni sessanta. Cosce di rana all’aglio, salsa chasseur e salsa bordelaise la fanno ancora da padrone. Saranno secoli che non vedevo più la salsa bordelaise su un menu: di solito è soppiantata da nomi più salutari, come demi-glace e “riduzione”.

Il premio per il Ristorante coi Controcoglioni va senza dubbio al Pierre au Tunnel di New York per avere mantenuto un piatto incredibile e spaventoso, la tête de veau (in poche parole la testina di vitello, avvolta nella lingua e nel timo e poi cucinata a fuoco lento nel suo court-bouillon). Probabilmente tra i loro clienti più affezionati figurano diversi francesi di una certa età, perché al giorno d’oggi perfino a Parigi nessuno la mangia più, nemmeno con una pistola puntata alla tempia. Complimenti al Pierre! Quanto mi piacerebbe servire una bella testina di vitello. Non sto scherzando.

Per quantità e varietà di pesanti e antiquate pietanze francesi, il primo premio va al Chez Napoleone (sempre a New York). Un viaggio nel passato e nella follia ispirata: rillettes de porc, veau forestière (qualcuno di voi si ricorda di averlo studiato a scuola? Nessuno?), trippa, rognone, fegato, cervella, boudin noir, coq au vin, bouillabaisse, soufflé caldi e... crêpe jubilée alle ciliegie! L’estasi dei sensi.

Il ristorante del Ritz-Carlton di Boston è la prova che ancora oggi esistono camerieri professionisti di vecchio stampo, che sanno servire una sogliola à la meunière al tavolo senza impacci. Di questi tempi non è facile trovare un cameriere che sappia sfilettare una sogliola intera con forchetta e cucchiaio in pubblico o preparare le crêpe suzette flambé senza dar fuoco a se stesso e ai commensali. Sapere che esistono e sanno fare il proprio lavoro è molto incoraggiante.

Molti chef sono cresciuti insieme a questi piatti e ci sono affezionati, ma si può dire la stessa cosa dei loro clienti? È interessante vedere con quale risolutezza e determinazione gli chef di oggi propongano con l’inganno le vecchie glorie del passato. Al Vincent di Minneapolis si sono dovuti piegare alle esigenze del mercato e, accanto a tartare ed escargot, hanno inserito nel menu anche hamburger e carpaccio di barbabietole. È indicativo che le escargots de Bourgogne siano descritte come “un piatto tradizionale da bistrò”, quasi per evitare di ricorrere alla definizione più diretta, cioè “lumache”. La blanquette è un compromesso tra necessità e nuove generazioni, uno “stinco di vitello brasato... con cavolfiore, riso e scalogno”. Nella lista dei contorni, accanto alle haricots persillades c’è la “polenta cremosa”. Ma nella sezione “Strano ma buono”, un titolo che promette novità interessanti pur senza scadere negli eccessi, sono riusciti a inserire l’amato vecchio cavallo di battaglia: “trippa alla normanna”. Incredibile...

Visto l’argomento già di per sé ironico, il colmo dei colmi è che forse il cerchio sta per chiudersi e adesso il mercato comincia a rispondere bene. Il mito di tutti gli chef, Fergus Henderson, del St. John di Londra, maniaco del riciclaggio degli avanzi, ha appena pubblicato una nuova versione del suo classico, Whole Beast: Nose to Tail Eating, applaudita da Alice Waters a San Francisco, da Charlie Trotter a Chicago e da Mario Batali a New York. Un gruppetto di chef, tra cui Eric Ripert, Marcus Samuelsson, Mark Ladner, Gabrielle Hamilton, Patti Jackson, Mary Sue Milliken, Maurice Hurley e Kerry Heffernan (impossibile immaginarsi un mix più eterogeneo di modernisti, tradizionalisti, francofili e francofobi), si è incontrato per mangiare trippa e cassoulet e discutere con lui del comune amore per la cucina tradizionale. Adesso le interiora di maiale sono una portata di gran classe sui menu di entrambe le coste. Il confit di anatra spadroneggia in tutto il paese e ormai la “charcuterie della casa” si trova dappertutto.

Significa allora che all’improvviso, dopo tutti questi anni, Le Veau d’Or tornerà sulla cresta dell’onda? Che schiere di ragazze modaiole strizzate in microabiti neri, di quelle che ti baciano sulla guancia senza nemmeno sfiorarti, e di yuppie caciaroni col cellulare che squilla in continuazione si accalcheranno davanti alla sua porta, ansiosi di assaggiare le cervella di vitello in beurre noir?

Spero proprio di no.

Altrimenti dovrebbero assumere un altro cameriere.