«Si sieda.»

La ragazza prende posto di fronte al terapeuta.

«Come sta, oggi?»

In risposta lei abbozza un sorrisetto tra l’ironico e il disincantato. I capelli scapigliati scendono da entrambe le parti del bel visetto, nascondendo in parte i suoi tratti. Lancia un’occhiata di sfuggita allo psicologo prima di abbassarlo sulle sue mani, infilate tra le ginocchia.

«Di cosa vuole parlare, oggi, Emma?»

Scrolla le spalle senza sollevare gli occhi.

«L’ultima volta, mi aveva raccontato che voleva andare al festino organizzato da una sua compagna di classe» la incoraggia.

«Non è una mia compagna, non era un festino e non ci sono andata» brontola.

«Che cos’era, se non era un festino?»

«Un pigiama party. I festini erano ai suoi tempi. Senza offesa.»

«Perché non ci è andata?»

«Perché non ero invitata, furbone!»

Il terapeuta ignora l’insolenza. Tace per qualche attimo, sperando che si confidi. Ma l’adolescente stringe ostinatamente i denti.

«L’ha ferita il non essere stata invitata?»

«Non me ne frega un cazzo.»

«Avevamo anche accennato alla possibilità che organizzasse lei un pigiama party. Ci ha ripensato?»

«Perché dovrei? Se è per rompermi le palle tutta la sera con delle fighette che parlano solo di smalti e altre cazzate del genere…»

«Non c’è nessuna compagna che potrebbe invitare?»

«Con quel deficiente di padre che ho, francamente, non ne vale neanche la pena.»

«La pena di cosa, Emma?»

«La pena di farmi in quattro solo per ricoprirmi di vergogna.»

Segue qualche secondo di silenzio, durante i quali il terapeuta spara che approfondisca.

«Per quale ragione si vergognerebbe di suo padre?» riprende infine senza abbandonare la calma.

Emma scrolla di nuovo le spalle. «È completamente disturbato. Si crede più intelligente di tutti perché è prof all’università quando, francamente, è solo molto molto stronzo. Quel tipo ha un grosso complesso di superiorità.»

«Non crede che i suoi compagni di classe pensino esattamente la stessa cosa dei loro padri?»

«Sì, ma loro, loro hanno una madre!»

Il terapeuta nasconde un sorriso di soddisfazione. Eccoci qui, pensa.

«E lei, Emma? Lei non ha una madre?»

L’adolescente si morde le labbra trattenendo in qualche modo una smorfia amara.

«Lo sa bene, che non ho una madre.»

«Vuole parlarne?»

«A cosa servirebbe?»

«Me lo dica lei, Emma.»

Un nuovo silenzio s’insedia nella stanza, questa volta più lungo. Lo psicologo non si aspetta affatto che riprenda la parola di propria iniziativa, anche se lo desidererebbe. Emma è capace di tacere per una seduta intera se non la spinge lui a parlare.

«Com’è possibile che non abbia una madre?» finisce con il chiedere.

«È scappata quando avevo cinque anni.»

«Si ricorda delle circostanze nelle quali se n’è andata?»

La ragazza non risponde.

«Conosce la ragione della partenza?» insiste il terapeuta.

Emma si rintana in un mutismo ostinato. I ricordi portano con loro un carico di immagini dolorose. La figura del padre prende forma sulle pareti della memoria. È in piedi in cucina, una mattina d’estate, si ricorda, in ogni caso era bello, il sole inondava la stanza. Ha una lettera in mano, che legge senza sollevare la testa. Anche quando lei lo raggiunge non si muove, inchiodato alla lettura, come ipnotizzato. È in pigiama, a piedi nudi, si è appena svegliata. Trotterella fino alle sue gambe e aspetta, col naso all’insù, che lui posi lo sguardo su di lei per baciarla.

Non si muove.

«Papà?»

È la sua voce che lo fa trasalire? Vede il foglio tremare tra le sue dita, poi la mano si abbassa lasciando apparire il volto sconvolto. Quando incrocia il suo sguardo, i tratti si contorcono, esprimendo una sofferenza che non aveva mai visto. La vista del padre annientato per non sa quale strana ragione si incide nella sua mente come un marchio a fuoco. Associa il dolore a quella lettera che lascia andare cadendo in ginocchio davanti a lei, prima di prenderla tra le sue braccia e stringerla quasi fino a soffocarla.

Emma non capisce, ha paura, cerca di liberarsi ma il padre blocca i suoi tentativi.

Ai suoi piedi il foglio sul quale appaiono alcune righe che è incapace di decifrare, le sembrano contenere la più terribile delle minacce.

È così che saprà che la madre li ha lasciati, il padre e lei, per non tornare mai più. Per molto tempo, ne ha ignorato la causa, la causa vera s’intende, non quella che le dava Patrick in risposta alle sue obiezioni, la cui versione evolveva con il passare del tempo. A volte Camille era partita per raggiungere un altro uomo, altre in preda alla follia… Di tanto in tanto le due ragioni si confondevano: in preda alla follia, l’aveva lasciato per un altro uomo.

Gli anni dell’infanzia di Emma sono stati marcati improvvisamente da quella partenza, l’assenza talmente palpabile da diventare ingombrante. La scomparsa di Camille ha segnato un’incrinatura nella giovane esistenza. Con il tempo, la ragazzina si è messa a immaginare trame segrete che sperava un giorno di sbrogliare. Ha finito per convincersi che la madre aveva nascosto il mistero della partenza per proteggerla. Per forza. Non poteva essere altrimenti.

Perché, a volte, è meglio non sapere.

A poco a poco, Patrick ed Emma si sono aggrappati l’uno all’altra. A bordo alla sola imbarcazione in grado di condurla al giusto porto, la ragazzina ha affrontato al fianco del padre le tempeste che hanno malmenato la loro esistenza. Era l’unico in cui poteva avere una fiducia cieca, perché, nonostante la sua goffaggine a volte deplorevole, l’amava incrollabilmente.

Ma il bisogno di sapere è stato più forte.

Una sera che Patrick tardava a rientrare dall’università, Emma ha rovistato nei cassetti. Ci ha ritrovato la lettera e con mano tremolante, come quella del padre la mattina in cui l’ha scoperta, l’ha letta. Aveva tredici anni e, questa volta, sapeva leggere.

 

Patrick,

Quando troverai questa lettera, non ci sarò più. Chiederti scusa mi sembra insopportabile, mi è impossibile farti credere che sono dispiaciuta.

Non riesco più a vivere al tuo fianco. Al vostro fianco. Dopo quello che è successo, mi sento prigioniera di un ruolo che mi uccide. Il simulacro di famiglia falsamente unita mi disgusta. Sono sempre meno capace di fare come se niente fosse.

Ma non è questa la cosa peggiore.

Non riesco più a guardare Emma in faccia. È più forte di me. Ho l’impressione di non capirla più. Del resto, l’ho mai capita? Ogni volta che mi parla analizzo il suo comportamento per individuare i segreti o le bugie che nasconde. È come se fosse diventata un’estranea per me. Non mi fido di Emma, e il mio atteggiamento suscita in lei una diffidenza che la rende ancora più distante. Il suo carattere altero mi esaspera, a volte temo anche il suo temperamento intrattabile. La colpa che ne provo mi lacera. Che razza di madre può dire questo della propria figlia? Soffro per questo sospetto permanente, me ne vergogno così tanto, sapessi quanto! Ma devo ammettere che temo le serate, i weekend e le vacanze scolastiche.

Ho bisogno di andarmene, di vivere senza l’angoscia che mi soffoca. Se un giorno ritornerò sarà per lei, per Emma, in una crisi di rimorsi che altrimenti mi ossessionerebbero fino alla morte, senza dubbio. Non ho nessun piano, so solo che devo andarmene.

 

Una firma vaga concludeva la lettera che era sfuggita dalla mano dell’adolescente.

Qualche giorno dopo, Emma compiva la sua prima fuga.

 

 

«Emma?»

Il terapeuta la distrae dai pensieri. I tratti sono segnati dall’amarezza e dal rancore. Trasalisce e si strappa dai ricordi.

«Sa perché sua madre è partita, Emma?»

La ragazza accenna un sorriso appena percettibile.

«Non lo so.»