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Mylène si è concessa una pausa. Le forze la abbandonano a poco a poco, la mente segue lo stesso cammino. Riprende conoscenza a intermittenza, brutalmente consapevole della precarietà della sua situazione. 

Raccolta sul fondo della voragine, distesa sul pianerottolo di terra come una bambola disarticolata, la maestra tenta di trattenere un po’ della volontà che scivola via. Ogni tanto gira la testa verso l’ammasso di terra che ha estratto dalla parete a mani nude. Non ci vede più molto, la chetoacidosi le ha deteriorato fortemente la vista, ma le sembra che la quantità di malta ora sia sufficiente, una collinetta di un buon mezzo metro. Abbastanza da permetterle di tirarsi fuori da quella buca infernale. Se non fosse che non ne ha più le forze. Alzarsi le sembra impossibile.

Il corpo intero urla di dolore. I crampi addominali le impediscono di raddrizzarsi, rimane china su se stessa, piegata in due tanto le contrazioni sono violente. A questo calvario si aggiungono potenti nausee. Mylène ha già vomitato tutto ciò che poteva rimettere, e lo stomaco vuoto è scosso da spasmi.

La sensazione di sete è ora un supplizio costante. La bocca prosciugata le fa l’effetto di una cavità di pietra, le labbra sono ridotte a piaghe screpolate, e qualsiasi movimento le è insopportabile.

Quanto alla caviglia, irradia in tutta la gamba una sofferenza che si annega nel dolore generale.

Il suo organismo esausto la sta abbandonando. Sprofonda a poco a poco in un torpore popolato di deliri, nei quali gli incubi dell’infanzia ritornano a ossessionarla. Si rivede da piccola, a otto o nove anni, davanti a un carcere, un edificio imponente in pietra grigia, una sorta di fortezza sovrastata da torri e bastioni, situato in un luogo desertico, secco e arido, attraversato da una strada. Sta davanti alla porta dell’edificio, vestita con una gonnellina rosa a balze, una camicetta gialla e calzette bianche. Porta trecce ben strette. Il cielo è coperto da una spessa coltre di nuvole sbiadite, la strada antracite accentua di più la sensazione di film in bianco e nero, è tutto grigio a parte la ragazzina, una macchia di colore al centro dell’immagine. 

L’attesa è interminabile.

Mylène sa che il padre uscirà di prigione, senza essere sicura del giorno e dell’ora. Nessuno l’ha informata sul momento preciso. Quindi pazienta, ben decisa a non perdersi la persona che la farà uscire dall’inferno. Sono due mesi che vive dalla nonna. Preferisce restare lì, davanti alla prigione, sulla strada deserta, in quel paesaggio abominevole, piuttosto che ritornare da quella donna.

La maggior parte del sogno si svolge in quel luogo: Mylène che aspetta impaziente di vedere la porta aprirsi. Sta in piedi, ben dritta, per ore intere, senza che succeda nulla.

Infine, i due immensi battenti di ferro iniziano a cigolare e ad aprirsi con lentezza esasperante. Il cuore di Mylène batte quasi si volesse spezzare, attende con impazienza la figura che, lo sa, apparirà…

È lì, davanti a lei. La ragazzina si precipita verso di lui urlando: «Papà!».

La accoglie tra le braccia ridendo, la stringe a sé, la fa volteggiare in aria, la bacia, la annusa… Poi si allontanano a braccetto, camminando sulla strada che non sembra finire mai.

Mentre si dirigono verso l’orizzonte, Étienne chiede le novità della figlia.

«E allora, mia bella paperina? Che cos’hai fatto per tutto questo tempo? Dov’eri?»

«Ero dalla nonna.»

«Non mi raccontare frottole» ridacchia. «Dov’eri?»

«Dalla nonna!»

«Mylène! Gli scherzi sono belli finché durano poco. Sono stato in pensiero per te! Allora dimmi un po’ dov’eri.»

«Te lo giuro, papà. Ero dalla nonna!»

«La nonna è morta da molto tempo, tesoro mio. Non sei potuta andare da lei!»

La ragazzina si sente inghiottita nelle viscere della terra. Presa dallo stupore, realizza che sono mesi che vive da sola in compagnia di una morta. L’incubo si conclude così. Da bambina, si svegliava immancabilmente urlando, ricoperta di sudore, il cuore in gola.

Il terrore imprime una scarica nell’inconscio della maestra, che la risveglia dal suo letargo. Geme, e il respiro nella trachea, bruciante e corrosivo, finisce per svegliarla. Aprendo gli occhi, distingue solo masse d’ombra e luce, delle forme fluttuanti. Poi riconosce l’ambiente. Per un attimo, la mente confusa mischia il sogno con la realtà. È stata assorbita davvero sotto la superficie del terreno o… No, ora si ricorda: la gita scolastica, la scomparsa di Emma, il tradimento della bambina.

La vista resta molto approssimativa. Gli occhi sono secchi quasi come la bocca, fatica a mettere a fuoco. Li sgrana e li richiude a più riprese, provando a distinguere i dettagli che la circondano. Dei lampi di luce sembrano materializzarsi davanti a lei, dolorosi chiarori che la obbligano a serrare le palpebre.

Quando le riapre di nuovo, un’ombra attira la sua attenzione. Mylène alza la testa verso il bordo della voragine, attirata dalla variazione di luminosità. Percepisce delle figure i cui molteplici contorni si compongono e si separano. Eppure quello che i suoi occhi non riescono a distinguere, la mente affamata di speranza si accanisce a ricostituire.

Una testa si staglia sull’apertura che la sovrasta, proprio all’altezza della superficie. Quel viso lo riconoscerebbe tra mille. La ragazza espelle un rantolo di gratitudine e alza le braccia verso il cielo.

«Papà…» sussurra con voce appena udibile.

Ecco, è stata ritrovata! Il suo calvario è giunto alla fine. Ci è mancato poco che non morisse sotterrata viva in quella tomba naturale! Finalmente può uscire da lì! Tra qualche attimo, riceverà l’insulina di cui il suo corpo ha crudelmente bisogno per sopravvivere. Altre immagini le invadono la mente, tra cui delle onde che s’infrangono su di lei, dispensando freschezza e la meravigliosa sensazione della bocca inondata di liquido.

«Bere…» geme ancora.

Mylène si rilassa. Si abbandona al sollievo di sapere di essere salvata. Chiude gli occhi, che le irradiano dolore fino al centro del cervello.

Poi perde conoscenza.