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Dorothée termina la stesura degli ultimi rapporti sul caso Gilmont. Sono passati tre giorni dalla scoperta del corpo di Mylène. Il caso è sul punto di essere chiuso ma qualche domanda rimane ancora senza risposta, anche se queste non concernono direttamente gli avvenimenti specifici del dossier. La curiosità personale della poliziotta resta insoddisfatta. Non capisce e lo detesta.

Comparando le diverse testimonianze e associando gli elementi di cui è a conoscenza, non vede l’ora di poter completare il puzzle. La vera causa della partenza della madre di Mylène costituisce, ai suoi occhi, il punto capitale del mistero. Questo avvenimento fondamentale nella vita della maestra ne ha determinato il corso, Dorothée ne è convinta. Cos’è che ha spinto la donna ad abbandonare la figlia? Per quale ragione non si è portata Mylène con sé? La ragazza, non essendo più di questo mondo, non potrà illuminarla in proposito. Étienne rimane dunque la sola persona a poterlo fare. A meno che, ovviamente, non si rivolga alla diretta interessata. Non dovrebbe essere complicato ritrovarla, anche se vive a migliaia di chilometri di distanza…

Dorothée non dispera di ottenere un giorno le risposte che le mancano.

Una telefonata diretta al suo interno la distrae. Un certo Georges Capouillez, impiegato all’obitorio, si presenta. Dorothée lo conosce, ha già avuto a che fare con lui in diverse occasioni. È un ragazzo gentile, un po’ sempliciotto e non molto reattivo ma che non farebbe male a una mosca.

«Buongiorno Georges!» lo saluta con voce allegra. «Sta bene?»

«Molto bene. Grazie.»

La poliziotta aspetta di sapere il motivo della chiamata. Ma dall’altra parte della linea l’impiegato resta in silenzio.

«Mi voleva parlare, Georges?»

«Scusi?»

«Se lei mi telefona, è perché ha qualcosa da dirmi… Mi sbaglio?»

«Ah! Sì, certo, io… In effetti, la chiamo perché abbiamo un corpo, qui, e non so cosa farne.»

Dorothée non può fare a meno di ridacchiare.

«È incredibile per qualcuno che lavora all’obitorio!» lo punzecchia.

Senza cogliere l’ironia, Georges Capouillez spiega la sua preoccupazione: «Sono due giorni che aspettiamo di sapere le modalità d’inumazione, ma nessuno viene a reclamarlo».

«Ah? E come ci è arrivato il corpo da voi?»

«È il suo capo che ce l’ha portato.»

Dorothée si raddrizza sulla sedia e afferra una penna.

«Qual è il nome?»

«Mylène Gilmont.»

«Il padre non è tornato per organizzare il funerale?»

«No.»

La poliziotta aggrotta le sopracciglia.

«Non è normale…» sussurra tra sé e sé.

«Cosa ne faccio, allora?»

«Me la tenga ben al caldo… Voglio dire al freddo. La richiamo molto presto.»

Riattacca la cornetta e si dirige immediatamente nell’ufficio di Dupuis. Qualche attimo dopo lo rende partecipe della chiamata dell’impiegato. Il capitano è sorpreso tanto quanto lei.

«Ha ricevuto notizie da Étienne Gilmont da quando abbiamo ritrovato il corpo di Mylène?» gli chiede.

«L’ho visto il giorno stesso, per l’identificazione… Gli ho detto che gli avrei lasciato il tempo di seppellire la figlia e che avremmo archiviato il caso un po’ più tardi.»

Mentre parla, passa in rassegna alcune cartelle sparpagliate sul tavolo, ne apre una, cerca tra i foglietti contenuti all’interno prima di estrarne una pagina. Poi alza la cornetta e compone il numero di Étienne.

Parte subito la segreteria.

«Gilmont, sono Dupuis» comincia non appena il bip gliene dà l’occasione. «Io…»

Preso alla sprovvista, esita.

«Mi richiami non appena riceve il messaggio» si accontenta di chiedere alla fine.

«Cosa dico al ragazzo dell’obitorio?» chiede Dorothée.

«Per il momento niente. Aspetto che mi richiami Gilmont.»

Ma Étienne non richiama.

L’indomani, Dupuis e Voguel si recano all’Anecdote per l’ora in cui avrebbe dovuto prendere servizio. Sono ricevuti da Nathalie che li accoglie con freddezza. Li informa che Étienne non è tornato a lavorare dalla notizia del decesso della figlia, il che non ha niente di sorprendente: quando si perde qualcuno di caro, in genere, si hanno cose più importanti a cui pensare.

I poliziotti le chiedono se è entrata in contatto con lui nel corso dei tre giorni precedenti. La risposta è negativa. 

«Nemmeno al telefono?» precisa Dupuis.

«L’ho chiamato per fargli le condoglianze» ammette. «Ho trovato la segreteria. Ho lasciato un messaggio per dirgli che ero dispiaciuta, che poteva chiamarmi se aveva bisogno, che gli ero vicina… Le cose che si dicono in genere in questi casi.»

«L’ha richiamata?»

«No. Me l’aspettavo. Lui è così.»

«Quindi non ha avuto più nessun contatto con lui da sabato sera?»

«Proprio così.»

Uscendo dal ristorante, Dupuis passa in rassegna le spiegazioni plausibili. Non ne trova molte.

«Andiamo da lui» decide dirigendosi verso l’appartamento di Étienne, non lontano dall’Anecdote.

Dopo aver suonato più volte, aspettano. Nessuno risponde. Per il capitano non è difficile chiedere un mandato di perquisizione. Dupuis giustifica la richiesta con il timore di un suicidio: non ci sono notizie di Gilmont dal momento in cui ha saputo della morte della figlia, si può ragionevolmente pensare che, afflitto dal dolore, abbia ceduto al richiamo della disperazione.

Il protocollo amministrativo rinvia l’intervento all’indomani mattina. Di primo mattino, infine, Dupuis e Voguel si fanno aprire la porta da un fabbro.

Entrando nell’appartamento, i due poliziotti constatano subito che è deserto. Nessuna traccia di Étienne, vivo o morto che sia. Iniziano a perquisire gli ambienti metodicamente: Dorothée si occupa della cucina e della sala, Dupuis della camera e del bagno. Segretamente, l’agente Voguel spera di trovare un documento che la informi del passato di Étienne in generale, e nello specifico della ragione della partenza della moglie. Se si imbattesse nella famosa lettera, sarebbe al settimo cielo! Ma il contenuto degli armadi e dei cassetti che sta esplorando non le dicono granché. 

«Ho l’impressione che sia partito…» dichiara Dupuis.

«Che cosa glielo fa pensare?»

Il capitano accenna all’assenza degli oggetti da toilette in bagno. E nonostante sia nell’incapacità di verificare la mancanza di una valigia o dei vestiti, non sapendo ciò che possiede Étienne nel guardaroba, ci metterebbe una mano sul fuoco che mancano alcune cose.

«Partito prima di aver sepolto la figlia?» obietta Dorothée, incredula.

«Forse era al di sopra delle sue forze…»

 

 

La macchina di Étienne sarà ritrovata e identificata qualche giorno dopo davanti alla stazione, il che conforterà il capitano nella sua ipotesi di fuga disperata. A corto di piste e senza prove per aprire un’inchiesta, Dupuis infine chiuderà il caso.

«Senza dubbio un giorno riapparirà» dice a Dorothée. «Oppure, se si è suicidato, qualcuno ritroverà casualmente il suo corpo. Per il momento non possiamo fare altro.»

In verità, Dupuis ha voltato pagina. Un altro caso, un’altra vittima, un altro carnefice. Étienne è grande e vaccinato. Gli adulti hanno il diritto di svanire nel nulla da un giorno all’altro senza essere ricercati. 

E poi, soprattutto, non c’è nessuno che ne abbia denunciato la scomparsa.

 

 

Anni dopo, Dorothée Voguel ripensa ancora al caso. Il mistero che avvolge la scomparsa di Étienne si è aggiunto a quello della partenza della moglie.

Un giorno, alcuni mesi dopo tutta la faccenda, spinta dal desiderio di sapere, la poliziotta ha cercato e trovato l’identità dell’ex moglie di Étienne Gilmont e i suoi contatti. Ha composto il numero di telefono, che corrispondeva a una linea fissa situata a Miami, in Florida. All’altro capo del telefono ha risposto una voce maschile. In un inglese molto approssimativo, Dorothée ha chiesto di parlare con Virginie Bernard. L’uomo le ha risposto che Virginie, la sua povera moglie, era deceduta qualche anno prima di cancro al seno. L’agente Voguel si è scusata prima di riattaccare.

Cos’abbia spinto la donna a lasciare il domicilio coniugale, senza portare con sé Mylène, rimarrà per sempre senza risposta.

Quale genere di madre è capace di abbandonare la propria figlia?

Dorothée non lo saprà mai.

Né lei, né nessun altro.