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ZAMPINI Adriano (San Martino Buon Albergo, Verona, 1949). Impresario edile. Come faccendiere, è stato il precursore di Tangentopoli: nel 1983 dalle sue confessioni s’è scatenato il ciclone giudiziario che ha travolto con 18 condanne la giunta socialcomunista di Torino, guidata da Diego Novelli.

Un simpaticone. Lo consideravano il grande elemosiniere di Torino. Diede il via allo scandalo che travolse l’ex vicesindaco, Enzo Biffi Gentili, e l’onorevole Giusi La Ganga, entrambi socialisti. La moglie lo aveva piantato per la vergogna. Due aziende andate in fumo nel fallimento. Gli restava un villone. Mi diede appuntamento all’hotel Turin, in pieno centro, per spiegarmi i meccanismi della corruzione politica. Il Comune aveva bisogno di un palazzo? Zampini lo acquistava per 1 miliardo di lire e lo rivendeva all’amministrazione civica, che lo pagava quattro volte tanto.

Era figlio di mezzadri. Il nonno tornò dalla guerra di Libia con 35 orecchie in un barattolo di vetro: le aveva recise ai soldati nemici che aveva ammazzato. Diplomatosi geometra, Zampini era stato ufficiale degli alpini e arbitro di calcio. «Facevo il rappresentante di mobili e faticavo a piazzarli», mi raccontò. «Allora seguii i suggerimenti del mio capo, un maestro del ramo. Consegnai 500.000 lire a un economo e quello subito mi ordinò una partita di seggiole. Eravamo agli inizi degli anni Settanta. La fornitura in sé rappresentava una bazzecola, però ebbi la conferma che il metodo funzionava».

Gli chiesi: ma come si corrompono i politici? «È come con le donne. Occorre tatto. Vanno corteggiate senza fretta. Ma se ci staranno, lo capisci subito». Ci stavano tutti. Voto: 5

ZINCONE Giuliano (Roma, 1939-2013). Giornalista e scrittore. Fu una delle principali firme del Corriere della Sera, dove entrò nel 1966, e diresse Il Lavoro di Genova. Dopo essere andato in pensione, collaborò con Il Foglio e Il Sole 24 Ore.

Che era morto, l’ho scoperto leggendo il ricordo dedicatogli da Francesco Cevasco sul Corriere della Sera. Ci sono rimasto male. Non immaginavo che l’irreparabile sarebbe accaduto tanto presto. Pensavo, anzi, che l’avrei preceduto nel viaggio definitivo. Cosicché ho sempre rimandato a cuor leggero il momento di scrivergli due paroline per chiudere una piccola polemica ingigantita dall’incomprensione.

Per anni lavorammo insieme. Entrambi inviati del Corriere, Giuliano principe e io principiante, un paio di volte ci trovammo impegnati all’estero sullo stesso servizio: in Messico, Mondiali di calcio 1986, e in Corea, Olimpiadi 1988. Il nostro incarico non era sportivo in senso stretto: ci toccava descrivere i contorni, il clima, i costumi; raccontare non le manifestazioni agonistiche ma i luoghi in cui si svolgevano. Ci spartivamo il da farsi. Zincone era la star e gli spettavano le cronache degli avvenimenti più importanti, a me rimanevano le frattaglie. Le gerarchie stabilite dall’anzianità e dalla bravura andavano, e vanno ancora, rispettate.

La cerimonia d’inaugurazione dei Giochi fu affidata a lui. Ma alle 4 di mattina – va tenuto conto del fuso orario – fui svegliato dagli squilli del telefono: era Giulio Anselmi, il vicedirettore. Trafelato, mi comunicò che Zincone era irreperibile, non riuscivano a rintracciarlo. Per cui ricevetti l’ordine perentorio di buttare giù 70 righe per la prima pagina su una cerimonia che non avevo nemmeno seguito. Nel nostro mestiere càpita anche di peggio. In mezz’ora riempii un paio di cartelle, inventando di sana pianta lo sfavillante spettacolo, e le dettai agli stenografi, dato che per imperizia non usavo i computer da poco in commercio (e non li uso tuttora).

La mattina seguente bussai alla porta di Giuliano e un po’ nervosetto gli chiesi che cosa mai avesse combinato: ieri eri latitante e mi hanno rifilato un compito che era tuo. Scoppiò a ridere: «Dormivo della grossa, ma non lagnarti: così ti ho valorizzato». Replicai alla Grillo: ma vaffa...

In Messico le cose erano andate meglio. Ci avevano destinato a Guadalajara, dove giocavano le squadre favorite: Brasile e Francia. Hotel fantastico. Bisognava però prestare attenzione a non ingerire nemmeno un goccio d’acqua del rubinetto. Ci lavavamo persino i denti con la minerale. Forte era il rischio della vendetta di Montezuma, esiziale per una parte del corpo assai delicata.

Di quel Paese color pomice non sapevamo nulla, ci servivano informazioni per i nostri reportage. Che fare? Conoscemmo due sorelle, figlie di un avvocato di grido, e stringemmo amicizia. Praticamente stavamo sempre con loro. La sera il padre c’invitava a cena nella sua villa, in una zona residenziale. E ci riempiva la testa di notizie e pettegolezzi messicani. Una pacchia. A scanso di equivoci, preciso che non eravamo “fidanzati in casa” delle ragazze. Quando ripartimmo per l’Italia, all’aeroporto le due fanciulle piangevano calde lacrime. Baci, abbracci. Una storia innocente e, quindi, indimenticabile.

Il rapporto fra Zincone e me divenne fraterno. Poi si guastò per una fregnaccia. Era il 1999, dirigevo il Quotidiano Nazionale. Arrivò un dispaccio di agenzia: il nome di Giuliano compariva in una lista di spie compilata da un ex archivista del Kgb, Vasilij Nikitič Mitrokhin. Pubblicammo per intero l’elenco. Zincone, scheda numero 4 con la segnatura “segretissimo”, veniva indicato come legato al gruppo del Manifesto e “coltivato” dal 1973 al 1981 dalla Residentura di Roma del Kgb. Nome in codice: Zvyagin. Non era l’unico giornalista. Da quel rapporto risultavano aver avuto contatti con lo spionaggio sovietico, fra gli altri, anche Alberto Cavallari e Giuseppe Pullara del Corriere; Sandro Viola della Repubblica; Gianni Corbi dell’Espresso; Luigi Fossati del Messaggero. E poi Umberto Pizzi, il fotografo che dall’anno successivo sarebbe diventato famoso grazie a Dagospia; Angelo Padovan, redattore del Popolo, organo della Dc; Jas Gawronski, ex corrispondente della Rai da Mosca. Persino padre Nazareno Fabbretti, frate francescano, collaboratore della Gazzetta del Popolo. Un frullato troppo misto per non risultare indigesto. Difficile immaginare Gawronski – la moderazione fatta persona, amico fraterno di Gianni Agnelli e di Silvio Berlusconi, figlio di un ambasciatore polacco, buon cattolico, nipote del beato Pier Giorgio Frassati – pappa e ciccia con i senzadio russi.

Zincone si arrabbiò moltissimo, nonostante la notizia l’avesse diramata l’Ansa. Al punto che mi querelò. Devo aggiungere che fui assolto (càpita, talvolta, anche se raramente). Ma, al di là di questo dettaglio, compresi e giustificai la sua ira. Ragionando a mente fredda, era impossibile che egli fosse stato al soldo dell’Urss. Avrei potuto risparmiargli l’onta di una citazione in quel contesto. Invece non lo feci, in ossequio a una malintesa completezza d’informazione. L’anno seguente fu scagionato dalla magistratura e nel 2002 il presidente della commissione bicamerale incaricata d’indagare sul dossier Mitrokhin, Paolo Guzzanti, chiarì definitivamente che Zincone e gli altri giornalisti coinvolti in quella brutta storia erano «persone innocentissime».

Da allora non ci vedemmo mai più. Spesso fui tentato di telefonargli per rappacificarmi, ma all’ultimo istante mi tirai sempre indietro per imbarazzo.

Zincone non era soltanto un grande giornalista, una penna d’oro come non se ne vedono più, ma anche una persona specchiata. Peccato che avesse smesso presto di scrivere assiduamente per il Corriere. Posso dire di non avere mai letto un suo pezzo mediocre. Da lui c’era solo da imparare.

Ignoravo che fosse gravemente malato, altrimenti mi sarei fatto coraggio e gli avrei chiesto scusa prima che se ne andasse. Lo faccio qui. Ma ormai è troppo tardi. Voto: 8