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GABANELLI Milena (Nibbiano, Piacenza, 1954). Giornalista. Ha cominciato a lavorare nel 1982 come freelance per la Rai in programmi d’attualità. Sette anni dopo è passata ai reportage per Mixer. È stata inviata di guerra su vari fronti (ex Jugoslavia, Cambogia, Vietnam, Birmania, Sudafrica, Territori Occupati, Nagorno Kharabah, Mozambico, Somalia, Cecenia). Dal 1991 s’è dedicata al videogiornalismo, lavorando da sola con la videocamera, senza l’ausilio della troupe televisiva: un metodo che ha introdotto in Italia e insegnato nelle scuole di giornalismo. Dal 1994, su proposta di Giovanni Minoli, s’è occupata di un programma sperimentale, Professione reporter, con servizi realizzati da videogiornalisti esordienti. Dal 1997 cura e conduce Report su Rai 3. È l’unica giornalista italiana ad aver raggiunto per Mixer le isole Pitcairn, nel Pacifico, dove vivono i discendenti degli ammutinati del Bounty.

Ve la raccomando. E pensare che all’inizio mi era simpatica, se non altro perché non ha mai superato l’esame scritto di ammissione all’Ordine dei giornalisti, ente che ho sempre considerato inutile (anche se devo riconoscere che la sintassi ha poco a che vedere con il liberalismo). Nel 2007, quand’ero direttore di Libero, mi mandò in redazione i suoi schiavetti. Non venne lei personalmente, ci mancherebbe: sporcarsi le mani con Feltri, non sia mai! L’operazione di killeraggio era stata accuratamente studiata a tavolino. Il suo Report doveva dimostrare che stampavamo un sacco di copie inutili per lucrare, in quanto cooperativa, più contributi statali, parametrati sulle tirature.

Gli scagnozzi della Gabanelli ricorsero a uno stratagemma. Gli Angelucci, editori del giornale, compravano ogni giorno a prezzo scontato un certo numero di copie da regalare in alcune delle loro cliniche allo scopo di fare un po’ di propaganda a Libero. Niente di trascendentale: eravamo nell’ordine delle 800-900 copie omaggio, una bazzecola, però regolarmente fatturate alle case di cura, seppure con lo sconto. Un giorno, non si sa per quale motivo, alcuni pacchi di queste copie finirono all’ingresso di una stazione della metropolitana romana. A quelli di Report non parve vero di poterli filmare per strada, sollevando interrogativi su tutto l’ambaradan. In pratica, mi davano del falsario e del ladro.

Report voleva puntare il dito accusatore contro i denari pubblici erogati alla stampa? Benissimo, sono d’accordo. Basta far abolire la legge dello Stato che li contempla. Ma se la legge c’era, e c’è ancora, non puoi trattare da criminale chi se ne serve. Si dà il caso che delle provvidenze all’editoria stanziate per il 2007, Report citasse solo en passant i 23 milioni e mezzo andati a Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport. Idem per i 30 milioni elargiti alla Mondadori, per i 19 milioni al Sole 24 Ore della Confindustria, per i 16 all’Espresso e alla Repubblica, per i 10 all’Avvenire. Il montaggio dell’intero servizio era volto a raffigurare solo Libero come l’Alì Babà dei giornali italiani che rubava 5 milioni e 450.000 euro di contributi barando su conti, fatture e vendite. La Gabanelli cercò di dimostrare che ogni mese smerciavamo alle Ferrovie dello Stato più di 20.000 copie per gonfiare la tiratura. E invece le fatture documentavano che, nel periodo in cui erano state più munifiche con noi, le Fs avevano comprato 4.626 copie. In tutti gli altri mesi dell’anno le cifre del venduto alle Ferrovie oscillavano tra le 1.500 e le 1.700 copie, dunque una cinquantina al giorno, e non 14 volte tanto come affermato da Report.

È vero che negli anni successivi si aprì un contenzioso fra lo Stato e gli Angelucci sulle provvidenze erogate a Libero, ma questa vicenda, ancora lungi dal concludersi, riguardava unicamente il fatto che i signori delle cliniche erano diventati anche editori del Riformista, ciò che gli avrebbe dovuto impedire di ricevere aiuti per entrambe le testate.

Evidentemente la colpa di stare sulle scatole alla Gabanelli era però un motivo più che sufficiente per mettere alla berlina un giornale non politicamente allineato. Consumare piccole vendette private con i soldi versati allo Stato dai cittadini, sotto forma di canone, è per lei del tutto normale. Il suo modo di usare il servizio pubblico richiederebbe un’accurata inchiesta di Report.

D’altronde lo stile giornalistico della signora è questo: tendere trappole. Ne sa qualcosa il leggendario Peter Arnett, ex inviato di guerra della Cnn. Si trovarono insieme a Saigon, lui la portò a visitare la strada dei bordelli e lei lo filmò mentre cercava di rimorchiare una ragazzina vietnamita in una stanza illuminata da due candele. E poi mandò in onda. Sputtanato a vita.

Nel mio piccolo, m’incazzai più di Arnett. La Gabanelli rispose con una lettera, che io pubblicai su Libero come se fosse un articolo, com’era giusto fare, e alla quale ribattei punto per punto. Lei, al contrario, in televisione non mi aveva permesso di replicare, anzi aveva artificiosamente selezionato brandelli delle mie risposte, lasciandole in sospeso con un sapiente montaggio in modo da far pensare ai telespettatori che io non sapessi come difendermi. Una scorrettezza inaccettabile.

Tutto ciò non toglie che la pluriquerelata conduttrice di Report sia dotata di capacità professionali notevoli. Però mi sorprende che dalla scuola di Giovanni Minoli, un professionista serio, sia uscita un’allieva così sleale. Voto: 4

GABER Giorgio all’anagrafe Giorgio Gaberscik (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, Lucca, 2003). Cantautore e attore. Di padre triestino e di madre veneziana, lavorò agli esordi con Adriano Celentano ed Enzo Jannacci e incise Ciao ti dirò (1958), scritta con Luigi Tenco, Non arrossire (1959) e La ballata del Cerutti (1960), che gli diede vasta popolarità. Raggiunse la maturità artistica con il recital Il signor G (1970). Tra i suoi lavori più apprezzati: Far finta di essere sani (1973), Io se fossi Dio (1980), La mia generazione ha perso (2001).

Nel 2013 è stato commemorato il decennale della sua morte, che avvenne il giorno di Capodanno, dopo lunga malattia, nella sua villa in Toscana, dove sempre più spesso amava rifugiarsi per scrivere e comporre. Già, è trascorso tanto tempo, però a me pare ieri quando mi giunse la notizia che non c’era più. È proprio vero che, invecchiando, un giorno non passa mai e un anno, invece, vola via in un baleno.

Di uno che ci ha preceduti nell’ignoto è d’obbligo parlare bene per tacita convenzione, forse perché non fa più ombra a nessuno. Nel caso di Giorgio Gaber, sarà perché era un amico, sarà perché siamo stati ragazzi insieme, sarà perché le sue canzoni – tutte – hanno segnato le fasi più gradevoli della mia vita, l’affetto e la stima restano così veri, così forti che a scriverne mi viene il magone. Non so se mi commuovo perché ricordo la sua figura o perché, ripensando a lui, compiango me stesso, avendo superato la sua età (aveva 64 anni non ancora compiuti quando se ne andò) e avviandomi, quindi, all’ultima curva. Tanto più che ho lo stesso vizio suo: fumo di tutto, sigarette e pipa, perfino sigari. Mi pare di vederlo ancora qui, con la Marlboro fra le dita, non riesco a immaginarmelo diversamente.

Lo conobbi una sera di fine agosto. Era il 1961 o 1962, la sua ballata del Cerutti Gino e degli amici al bar del Giambellino spopolava. Si stava svolgendo nella mia città la Festa dell’Unità, un’occasione ghiotta, per un diciottenne di provincia come me, di uscire dalla routine. L’ospite d’onore dei comunisti era quasi sempre un cantante. Quella volta avevano reclutato Gaber, il personaggio del momento. Si presentò sul palco elegante: giacca blu, pantaloni grigi, scarpe inglesi e cravatta acconcia. Allora usava così: i cantanti si vestivano. Oggi viceversa si coprono di stracci. Interpretò tutto il repertorio, tra cui La balilla e Porta Romana, che è ancora la mia canzone preferita, probabilmente per una forma di nostalgia della giovinezza. La regola d’altronde è questa: quelli andati sono sempre bei tempi, dato che la memoria porta a galla solamente le fasi migliori dell’esistenza. Mi conforta però l’opinione di qualche apprezzato critico: il Gaber esordiente era un portento. Poi, con la maturità e l’esigenza intima di sfuggire al conformismo, anche politico, si perfezionò nel ramo intellettuale e divenne un ironico cantastorie, bravo nella recita dei suoi lunghi soliloqui, ma perse in spontaneità pur guadagnando in professionalità e tecnica.

Ipnotizzava il pubblico. Lo faceva ridere con verità stemperate dall’umorismo amaro, nota caratteristica della sua personalità. Posseggo molti suoi dischi e spesso, di notte, li riascolto. Quando arrivo a Porta Romana, la canto, cercando di seguirlo, d’imitarlo goffamente. Mi godo tutta la produzione di Giorgio: Destra sinistra, un condensato esilarante di stereotipi politici; Un uomo e una donna, in cui lo spirito adolescenziale si mescola con le delusioni della quotidianità; e molte altre canzoni, ciascuna delle quali rifletteva la mentalità corrente e anticipava profeticamente le nuove tendenze.

La grandezza del primo Gaber si estrinsecava nella capacità di toccare le corde del cuore: penso a Non arrossire, una poesia, anzi un sogno a occhi aperti. La grandezza del secondo Gaber consisteva nell’abilità di descrivere in sintesi i luoghi comuni della sottocultura, e di intuire i venturi mutamenti del costume. Trascuro di elogiare le sue doti musicali e canore: sono state acclarate.

Quella sera alla Festa dell’Unità, terminato lo spettacolo, si sedette per rifocillarsi al tavolone dove stavo sorseggiando una bibita con gli amici. Scambiammo due chiacchiere. Avrei voluto rivolgergli molte domande, ma ero intimidito. Se ne accorse, e fu lui a intervistare me su Bergamo, famosa per essere stracattolica, dominata dai preti e, naturalmente, dalla Democrazia cristiana (oltre il 60 per cento di voti). Conoscevo la materia, e le mie risposte lo intrigarono. Nacque una simpatia che alcuni anni più tardi si rinsaldò a Milano con qualche cena in ristoranti di periferia, i suoi preferiti.

Era un tipo solitario, curioso ma non invadente, sempre rispettoso. Ogni tanto mi scappava una battuta; Giorgio sorrideva e commentava: «Potrebbe essere il titolo di una canzone». Una sera mi confidò di essersi iscritto alla facoltà di filosofia allo scopo di approfondire la storia del pensiero. Gli dissi, scherzando: ma che ti frega della filosofia, leggiti i presocratici, il resto è superfluo, rimasticazione di concetti antichi. Mi fissò un istante, sorpreso: «Sono della tua stessa opinione, ma non l’ho mai espressa perché in fondo sono solo ragioniere e non voglio darmi arie da pensatore». Lo rincuorai: anche Eugenio Montale era ragioniere eppure ha vinto il Nobel. La notizia lo rallegrò: «Ma dici davvero?» E io: certamente, ho lavorato al Corriere quando in redazione c’era anche Montale, mio vicino di stanza.

Avevo l’impressione che Gaber non cercasse di divertirsi. Forse si distraeva solo quando lavorava con precisione maniacale. Non era mai soddisfatto di sé e delle cose che faceva. I complimenti lo mettevano a disagio, lo infastidivano. Le nostre discussioni erano gare a chi dei due fosse più pessimista. Vinceva lui. Mi disse: «Io sono un pessimista scoraggiato, tu sei un pessimista incazzato». Risposi: m’incazzo per sentirmi vivo, recito una parte. E Giorgio, di rimando: «Io mi deprimo con piacere per prepararmi a morire». La forza di Gaber era la sincerità. Non mentiva neanche a sé stesso, diversamente da noi che sappiamo raccontarci solo balle consolatorie. Voto: 9

GARDINI Raul (Ravenna, 1933 - Milano, 1993). Industriale e finanziere. Cominciò a lavorare giovanissimo nella Ferruzzi, subito dopo aver conseguito il diploma di perito agrario, e nel 1957 sposò la figlia del fondatore Serafino Ferruzzi, Idina. Alla morte del suocero, nel 1979, subentrò alla guida del gruppo agroalimentare. Nel 1986 assunse il controllo della società chimica Montedison e creò una nuova struttura finanziaria, la Ferfin, comprendente fra l’altro Montedison, Fondiaria, Calcestruzzi, Il Messaggero e Telemontecarlo. Nel 1989 fu tra i promotori di Enimont, la joint-venture che doveva raggruppare le attività chimiche di Montedison e di Enichem, società chimica dell’Eni, e che invece finì al centro di un’inchiesta giudiziaria per il versamento di tangenti ai partiti politici. Fallito tale progetto, fondò la Gardini Srl. Nel 1993, sottoposto a indagini per la vicenda Enimont, si suicidò nella sua casa di Milano.

Il 21 luglio 2013, mentre leggevo sul Corriere della Sera un’intervista su Raul Gardini rilasciata da Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo, la memoria, non ancora troppo arrugginita, mi ha restituito ricordi abbastanza nitidi sulle 36 ore che precedettero il suicidio dell’imprenditore, risalente alla mattina del 23 luglio 1993, vent’anni prima, in piena buriana di Tangentopoli.

Il numero uno di Mani pulite, poi fondatore dell’Italia dei valori, tornato al lavoro dei campi non per imitare Cincinnato ma perché costrettovi dalla mancata rielezione in Parlamento alle politiche del 24 e 25 febbraio 2013, affermava che l’allora padrone della chimica nazionale si sparò alla tempia, togliendosi la vita all’istante, «in un moto d’impeto non preordinato coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso». Insomma, un suicidio d’istinto, a sentire Di Pietro, dettato dalla consapevolezza che quella stessa mattina, dovendosi recare in Procura per essere interrogato sulla tangente Enimont, madre di tutte le stecche, probabilmente sarebbe stato arrestato e incarcerato. Come tanti prima di lui.

Non mi permetterei mai di contraddire l’ex Pm riguardo all’inchiesta, dato che era materia sua. Tuttavia posso testimoniare che, invece, Gardini non premette il grilletto così, all’improvviso, in un momento di disperazione, bensì dopo avere covato il proposito relativamente a lungo: come minimo nelle 36 ore cui ho accennato.

Lo dico perché la sera del 21 luglio cenai con lui nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano, vicino a piazza Meda, dove c’è il Disco solare dello scultore Arnaldo Pomodoro. Ignoravo e ancora ignoro il motivo per il quale mi avesse invitato. Fui sorpreso, ma accettai la sua proposta senza pormi problemi: non volevo essere scortese con un uomo che, oltretutto, era stato fra gli azionisti del giornale che dirigevo a quel tempo, L’Indipendente.

All’ora convenuta, le 20.30, bussai al portone dell’elegante palazzo. Mi ricevette un signore, suppongo il maggiordomo, che mi introdusse nell’austera dimora. Fui fatto accomodare in un salotto e attesi. Ero un po’ agitato, anche perché non conoscevo l’ospite illustre. Si prova sempre un certo imbarazzo nell’incontrare un potente mai frequentato in precedenza, specialmente quando non si sa che cosa voglia.

Trascorsi alcuni minuti, il magnate si appalesò: abito grigio antracite, capelli bianchi, espressione severa. Dopo i soliti convenevoli – stretta di mano, «come sta?», «bene, grazie, e lei?» – si sedette di fronte a me, ma aprì bocca soltanto per ordinare al cameriere di servire l’aperitivo: champagne Veuve Clicquot. Scuro in volto come uno cui sia stato diagnosticato un cancro che non perdona, Gardini ne bevve un sorso. Poi si accese una Muratti Ambassador. Gli chiesi se potessi fare altrettanto. Con la sigaretta tra le labbra m’illudevo di recuperare disinvoltura. Trovai soltanto il coraggio di rompere il silenzio di tomba, rivolgendogli la domanda più cretina in quella circostanza surreale: che ne dice, presidente, di questa mattanza di politici e imprenditori?

Gardini tirò un sospiro, immagazzinò una nuvola di fumo nei polmoni, poi sconsolato osservò: «Speravo fosse lei a darmi qualche notizia». Risposi in automatico: tutto quello che so lo scrivo, ogni giorno ce n’è una nuova, ormai i cancelli di San Vittore sono girevoli, purtroppo solo in entrata, come le porte degli alberghi. Il suo commento fu molto stringato: «Già». Per fortuna nell’arrancante conversazione s’inserì il cameriere: «Se lo desiderano, prego, la cena è pronta».

Gardini si alzò e mi indicò la sala da pranzo. Con sgomento constatai che la tavola era apparecchiata per due, dal che desunsi che per un’oretta, forse di più, sarei stato costretto, senza l’ausilio di altri commensali, a escogitare un espediente per sciogliere il rigidissimo padrone di casa. Provai in ogni modo a stimolare il suo interesse. Non ci fu verso di fargli cambiare espressione: occhi fissi sulla minestrina di alta cucina ospedaliera, la mano destra impegnata con il cucchiaio, le dita della sinistra che stringevano la sigaretta come se fosse l’ultima, quella del condannato a morte. Gardini sorbiva un po’ di brodino e fumava; ogni tre cucchiaiate e due boccate, beveva champagne. Parole, zero. Un incubo. Non comprendevo il senso di quella serata. Mi domandavo: perché mi avrà invitato qui per non dirmi niente?

Di sottecchi controllavo l’orologio: le lancette sembravano paralizzate. Ero infastidito oltre che stupito. In un obitorio ci sarebbe stata un’atmosfera più allegra che in quella sala da pranzo. Per adeguarmi ai ritmi del padrone di casa, bruciai anch’io una sigaretta dietro l’altra. Ero al corrente che Gardini stava sulle spine: le voci di un suo probabile arresto circolavano da settimane. Per cui non mi fu difficile intuire da che cosa dipendesse il suo umore tetro. Ma rimaneva il mistero: perché convocarmi al suo desco? Forse pretendeva da me qualche dritta. Avendogli però detto, non appena giunto in piazza Belgioioso, che non avevo informazioni di prima mano, egli si era reso conto dell’inutilità della mia presenza ed era sprofondato nei suoi cupi pensieri.

L’ipotesi di spararsi non credo che lo allettasse, ma lo allettava ancora meno, evidentemente, quella di subire l’umiliazione del carcere. Mai suicidio fu più meditato. Altro che «moto d’impeto». Di Pietro non deve pentirsi di non avere arrestato Gardini prima che questi ponesse fine ai suoi giorni. Un Pm fa il suo mestiere secondo coscienza, se ce l’ha, altrimenti rischia di usare la custodia cautelare (che espressione gentile, ma la galera è galera) quale scorciatoia per arrivare subito al nocciolo: la confessione. Il sistema è efficace, indubbiamente, però può provocare disastri. E infatti seguita a provocarne. Gardini è solo uno dei tanti esempi. Più che un impulsivo autolesionista, fu una vittima designata. È tempo che anche i suoi becchini lo riconoscano. Voto: 6

GASPARI Remo (Gissi, Chieti, 1921-2011). Ministro in 18 governi. Esponente di spicco della Dc. Indagato per l’indebito utilizzo di un elicottero dello Stato: l’accusa fu archiviata.

È passato alla storia come il più formidabile distributore automatico d’impiego alle Poste. Se ne vantava, persino: «Noi sì che sapevamo come governare un Paese e un territorio, sapevamo chi aveva bisogno di aiuto, di una spintarella. Sapevamo, insomma, fare del bene». L’avevano rieletto per 27 volte sindaco di Gissi, paese di 3.000 abitanti in provincia di Chieti. Lo chiamavano Zì Remo, Duca degli Abruzzi e anche San Remo, perché era considerato l’inventore della raccomandazione. Però faceva dormire i suoi autisti negli stessi alberghi dove scendeva lui e alla fine pagava il conto di tasca propria, e lo stesso al ristorante. Avevo in orrore il suo metodo. Ma quando, nel bel mezzo dell’alluvione in Valtellina, lo raggiunsi all’hotel Sheraton di Padova dove da ministro della Protezione civile partecipava a un convegno della Dc veneta, mi diede l’impressione di un’educazione politica eccezionale, pari alla sua correttezza nei rapporti con la stampa. Per i leader di oggi, il giornalista o è complice o è nemico. Gaspari, almeno, ti rispettava. Voto: 6

GELLI Licio (Pistoia, 1919). Imprenditore, finanziere, giornalista, poeta, faccendiere e massone. Ha combattuto nella guerra civile in Spagna con le truppe inviate da Benito Mussolini a sostegno di Francisco Franco e in seguito ha aderito alla Repubblica sociale italiana. Maestro venerabile della loggia coperta P2 (Propaganda 2), nel maggio 1981 si è visto sequestrare nella sua villa di Castiglion Fibocchi (Arezzo) gli elenchi degli iscritti, comprendenti politici, militari, agenti segreti, magistrati, imprenditori, banchieri e giornalisti. Ne sono scaturite un’indagine giudiziaria e una commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Tina Anselmi (Dc). È stato condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna e per la bancarotta fraudolenta del Banco ambrosiano e indagato per l’omicidio del banchiere Roberto Calvi.

È il cardiopatico più attivo d’Italia. Considerato il pericolo pubblico numero uno, è stato scarcerato perché gravemente malato, ma i suoi problemi coronarici non hanno avuto ripercussioni né sullo stile di vita né sulla durata della medesima. Posso testimoniarlo per aver seguito da vicino i movimenti di Gelli nel 1988, quand’era da poco tornato libero cittadino e – sosteneva lui – verdi, radicali e missini s’erano addirittura offerti di candidarlo a Strasburgo. Il venerabile maestro andava a prendere l’aperitivo al Caffè dei Costanti: olivelle e patatine. Pranzava alla Buca di San Francesco: zuppa di farro, fegatini di pollo e fagioli. Si spostava 15 giorni a Montecatini Terme per passare le acque: altre strippate serali. Uno stile di vita che avrebbe stroncato un toro. Cene, viaggi, inviti, incontri di lavoro. Sempre in piena forma e di buon umore. E i poliziotti, a piedi o in auto, appresso ansimanti. Faticavano a tenergli dietro. Mai scorta è costata più cara ai contribuenti italiani.

Non ho ancora deciso se sia stato un grande burattinaio oppure una trascurabile macchietta. Voto: 3

GELMINI Angelo (padre Eligio) (Bisentrate, Milano, 1931). Frate francescano. Consigliere spirituale del Milan negli anni Settanta, noto per le sue frequentazioni mondane. Amico di Gianni Rivera. Fondatore delle comunità di recupero per tossicodipendenti Mondo X e della Frateria di Cetona (Siena). Fratello di don Pierino Gelmini.

I rotocalchi lo fotografavano sempre al night, anziché sull’altare o nel confessionale. Impegnato in balli sfrenati con i calciatori. Un prete più votato allo champagne che all’acqua santa. Glielo feci presente, il giorno che andai a trovarlo alla Frateria, residenza di charme ricavata da un convento fondato da San Francesco nel 1212, con annesso ristorante, tre forchettine rosse sulla Michelin. «Dài, fa minga ’l stupid, domanda quel che te vöret», tagliò corto. «Sei qua per parlare dei drogati?» Uno dei pochi esperti del ramo, forse l’unico, a chiamarli così.

L’ex monastero di Cetona mi parve grande come un villaggio e bello come l’idea del paradiso. Fino a cinque anni prima era solo un ammasso di ruderi. Padre Eligio e i suoi ragazzi ne avevano tirato fuori un gioiello. «Hanno sgobbato sodo, è vero, ma in fin dei conti non avevano nient’altro da fare. E poi sudare fa bene sia al corpo che all’anima».

L’ex padre spirituale dei rossoneri si occupa dei drogati dal lontano 1968, quando questa piaga era appena agli inizi. «Il guaio è che, volendo fare seriamente, mi sono affidato agli esperti. Bestie, guarda. La malattia era inedita, le cure inesistenti. Visto che non cavavano un ragno dal buco, mi sono messo ad agire di testa mia. Ho capito che il tossicomane è un disadattato bisognoso di una rieducazione totale. Devi fare tabula rasa dentro di lui, altrimenti non lo salvi. Quindi si trattava d’istituire gruppi autosufficienti che impedissero qualsiasi contatto con il mondo esterno, con le cattive abitudini del passato».

Detto fatto. Apre la prima comunità nel castello di Cozzo Lomellina (Pavia). Oggi ne ha una quarantina. Gli ospiti sono liberi di entrare e di uscire, non esistono ponti levatoi. Ma, una volta accettate le regole della casa, se decidono di uscire lo fanno per sempre. «Le famiglie devono dimenticarseli. Qui non abbiamo né giornali, né radio, né televisione: sarebbero una cinghia di trasmissione fra il mondo e la nostra casa», mi spiegò padre Eligio. «Non entra neppure la religione. Però vivere nella natura permette di osservare il cielo e la terra, fa sorgere delle domande, predispone alla fede. Le crisi d’astinenza? Siamo seri, non esistono. Basta mandarli qualche giorno in clinica prima di portarli qui».

Una vita da caserma. «Sveglia alle 7, colazione, e via nei campi. Che sono nostri, come il ristorante e la residenza d’epoca. Il lavoro non manca mai. Ci facciamo tutto da soli, dal pane all’olio. Tranne il vino: non mi pare il caso. Vietate anche le sigarette. Quando un ragazzo e una ragazza cominciano a flirtare, li spediamo a 700 chilometri l’uno dall’altra. Dopo tre mesi, tiro le somme: se hanno ancora voglia di vedersi, significa che è vero amore. E allora le soluzioni non mancano, matrimonio incluso».

I problemi sopraggiungono dopo sette o otto mesi. «I giovani sono fisicamente rifioriti. Mangiano bene, vivono all’aperto. Si sentono forti come leoni. Così a qualcuno viene voglia di mettersi alla prova, di andarsene. Crede di poter camminare sulle proprie gambe. Io cerco di dissuaderlo, ma la porta è sempre aperta. Purtroppo nove volte su dieci finisce con un tonfo: riprende a bucarsi. L’esperienza c’insegna che il limite di sicurezza minimo è di 36 mesi prima di tornare ad affrontare le insidie della vita precedente».

Mi venne spontaneo obiettargli: dev’essere una noia mortale, la sera, senza televisione e senza giornali. «Non è vero: abbiamo i libri. E chiacchieriamo, discutiamo fra noi. Il miglior passatempo. Alla fine i ragazzi ritrovano sé stessi. Quando tornano fuori, riprendono gli studi, cercano un lavoro, si sposano, mettono al mondo figli. Tre anni così farebbero bene anche a te».

Il frate francescano mi tracciò l’identikit del drogato-tipo: «Ragazzo dalla sensibilità scoperta, privo di corteccia, intelligente, fortemente intuitivo, dotato di antenne che percepiscono subito le minacce del futuro. Candido e malinconico. Incline alla contemplazione e all’introspezione. Disprezza chi mira alla carriera, al successo, al denaro, idoli che schiavizzano l’uomo quanto e più della droga. Ma in lui non alberga mai uno spirito di contestazione violenta».

Rividi padre Eligio due anni dopo, nel 1987. M’invitò alla presentazione del suo pupillo Gianni Rivera, candidato da Giovanni Goria e Bruno Tabacci alle elezioni politiche di quell’anno, nelle liste della Dc. Rivera è un mio caro amico: nel 1964 abbiamo fatto la naia insieme al Centro addestramento reclute di Orvieto, caserma Piave, granatieri. Da consigliere spirituale del calciatore, padre Eligio era diventato l’organizzatore della sua campagna elettorale. Sprigionava, come sempre, un estro pari al suo mostruoso vigore. E infatti Rivera con la benedizione del frate divenne deputato per la circoscrizione Milano-Pavia. Voto: 8

GELMINI Mariastella (Leno, Brescia, 1973). Politica e deputata. Ha esordito in Forza Italia al Comune di Desenzano del Garda. È stata assessore al Territorio e poi all’Agricoltura della Provincia di Brescia, consigliere regionale della Lombardia e coordinatrice regionale di Forza Italia. Alla Camera dal 2006. Ministro dell’Istruzione nel governo Berlusconi IV.

L’unico insulto che le hanno risparmiato è quello che il senatore socialdemocratico Luigi Angrisani, fondatore della Lista del gallo, riservava sulle piazze della Campania al suo rivale democristiano Fiorentino Sullo, il ministro della Pubblica istruzione in carica quasi 50 anni fa. Il pittoresco parlamentare interrogava un gallo tenendolo per le zampette: «Sullo è ’nu poco ricchione?» E subito faceva partire una scossa elettrica nei testicoli del pennuto, che rispondeva assertivamente con uno straziato chicchirichì.

Per il resto, alla donna di governo del Pdl – la quarta nella storia repubblicana a dirigere quel dicastero, dopo Franca Falcucci, Rosa Russo Iervolino e Letizia Moratti – ne hanno dette di tutti i colori. Offrendole la poltrona più irta di spine, il premier Silvio Berlusconi era stato facile profeta: «Non aspettarti la fanfara». La sinistra l’ha odiata fin da subito perché la Gelmini le toglieva il controllo sull’insegnamento. «La scuola è sempre stata una sua sinecura, una fabbrica di consenso politico. Be’, adesso non è più un’azienda privata: è tornata di proprietà dello Stato, cioè di tutti», diceva.

La rogna più grossa che ha dovuto affrontare da sola, a mani nude, è stata quella dei precari: ben 250.000. Da decenni la scuola era considerata un ammortizzatore sociale. Alla fine aveva raggiunto una cifra stratosferica di dipendenti: 1,3 milioni. In nessun’altra nazione al mondo il bilancio dell’istruzione pubblica veniva prosciugato per il 97 per cento dal pagamento degli stipendi. La media europea si aggirava intorno al 50 per cento. Eravamo arrivati alla grottesca situazione per cui in Italia avevamo più bidelli, 165.000, che carabinieri, 112.000, eppure le pulizie delle scuole venivano appaltate alle cooperative di servizi, con raddoppio della spesa, e le aule restavano sporche.

Per soprammercato, tutto questo spreco si traduceva in statistiche qualitative disastrose: su 57 Paesi presi in esame nelle classifiche internazionali, i nostri alunni figuravano al 38° posto per le competenze matematiche, al 36° per quelle scientifiche, al 33° per la capacità di lettura e di comprensione del testo.

La Gelmini ci ha dato dentro di buona lena, con caparbietà da bresciana testa dura. Ha tagliato 1.300 corsi di laurea inutili. Ha chiuso 500 scuole di specializzazione che non specializzavano in nulla. Ha recuperato quasi 10 milioni di euro in contributi a pioggia che il suo ministero avrebbe dovuto erogare a enti come l’Associazione allevatori provincia di Taranto, che pretendeva 350.000 euro, o a sodalizi come i Silenziosi operai della croce, che volevano addirittura 1 milione. Il tutto scandalosamente rubricato alla voce “ricerca”.

Per tentare di demolire la credibilità del ministro castigamatti, la sinistra e i sindacati l’hanno attaccata sul suo profilo di laureata in legge uscita dal liceo classico con una votazione di 50 sessantesimi, non eccelsa ma neppure disprezzabile. Scrissero che proprio lei, la paladina della meritocrazia, era andata a sostenere l’esame d’abilitazione per il praticantato legale a Reggio Calabria, dove forse era più facile passarlo che non a Brescia. Non contava nulla che provenisse da una famiglia umile, che avesse bisogno di lavorare, e che dunque si fosse recata dove c’erano più probabilità di accedere alla professione con un esame regolare. Avevano già fatto la stessa cosa in migliaia, prima di lei, e altri continuano a farlo, ma solamente la Gelmini fu additata al pubblico ludibrio.

Benché martirizzata, la signora ministro ha avuto il merito di portare a termine una delle poche riforme strutturali del quarto governo Berlusconi, quella della scuola, appunto. Se prima le nostre università sfornavano laureati che c’entravano come i cavoli a merenda con il lavoro, adesso almeno il mondo accademico e il mondo imprenditoriale sono interfacciati e qualche possibilità d’impiego in più per i giovani cominciano a produrla. La Gelmini ha battuto il chiodo fintantoché non s’è conficcato nei glutei dei professionisti del precariato. Non c’è da stupirsi dei loro alti lai. E si capisce perché Benedetto XVI, ricevendola in Vaticano, le abbia sussurrato: «Lei è una donna tenace». Voto: 8

GIANNINO Oscar (Torino, 1961). Giornalista, conduttore radiofonico e televisivo, politico. È stato portavoce nazionale del Pri (1987-1994) e direttore del quotidiano del partito, La Voce Repubblicana. Ha curato la pagina economica del Foglio ed è stato vicedirettore del Riformista e di Finanza & Mercati. Ha condotto il programma Batti e ribatti su Rai 1. Dal 2007 al 2009 ha diretto Libero Mercato, inserto finanziario di Libero. Nel 2012 ha fondato il movimento d’opinione Fermare il declino e nel dicembre dello stesso anno è diventato presidente di un nuovo partito, Fare per fermare il declino. Nel 2013 si è dimesso dalla carica in seguito a uno scandalo legato ai titoli di studio millantati, pur restando candidato premier alle elezioni politiche. Conduce La versione di Oscar su Radio 24.

Fermare il declino? Vasto programma, avrebbe commentato De Gaulle. A Giannino non riuscì nemmeno di fermare il suo licenziamento. E tutto per quella maledetta storia dei titoli accademici inventati. Quando andavo al ristorante con lui, mi parlava sempre di analisi cliniche, di patologie gravissime, di notti trascorse in ospedale, e intanto trangugiava ettogrammi di salame aiutandosi con il vino rosso, meglio se piemontese, e in quantità non proprio modiche. Mai accennato alla malattia psicologica che lo costringeva a inventarsi un curriculum inesistente. Evidentemente non gli era stata ancora diagnosticata.

Delle lauree di Oscar non m’è mai importato nulla. È sempre stato bravo, e questo mi bastava. Poteva scrivere su qualunque argomento con sicuro mestiere: di economia (il suo cavallo di battaglia), di politica, di cultura, di costume e anche di musica lirica, essendo un melomane. Mi chiese persino di trasformarsi in cronista sportivo e quella devo dire che fu l’unica volta in cui un pochino mi deluse. Accadde in occasione dei Mondiali di calcio 2006, se non vado errato.

L’anno seguente gli affidai la direzione di Libero Mercato, il nostro inserto economico-finanziario, stampato su carta color salmone come il Financial Times e Il Sole 24 Ore. Erano stati gli editori di Libero, gli Angelucci, a chiedermi di arruolarlo. Ma Libero Mercato finì per costare come una petroliera senza rendere altrettanto, e così fu chiuso. Lo invitai a restare a Libero almeno come editorialista. Lui prese cappello e se ne andò, facendoci pure causa.

L’uomo non è eccentrico soltanto per via dell’abbigliamento, che nell’Ottocento ne avrebbe fatto un perfetto frequentatore del Café Royal di Londra, quello con il salon privé all’ottavo piano frequentato dal suo omonimo Oscar Wilde e da George Bernard Shaw. Quando toglieva le giacche da dandy, era solo per avvolgersi nella bandiera a stelle e strisce in difesa degli Stati Uniti. Nella redazione di Libero divideva l’ufficio con Arturo, il suo gatto, un animale davvero intelligente, tanto che una volta aggredì Alessandro Sallusti e un’altra volta cagò sulla scrivania del caporedattore Pietro Senaldi.

Prima di partecipare alla sfortunata campagna elettorale del 2013 come candidato premier della lista Fare per fermare il declino, da lui stesso inventata, e uscirne maciullato e con la patente di millantatore, Giannino aveva condotto un programma di successo su Radio 24, intitolato Nove in punto, dal quale si era momentaneamente autosospeso appunto per impegni politici. Fermatosi il declino sulla soglia dello sbarramento del 4 per cento alla Camera e conclusa con un nulla di fatto l’esperienza partitica, Oscar aveva chiesto all’editore, lo stesso del Sole 24 Ore, il reintegro nella radio. Insorse il Comitato di redazione, affermando che la spiacevole vicenda delle lauree fasulle aveva minato irreparabilmente la credibilità del conduttore.

Ma si trattava davvero di una colpa grave? Per un aspirante politico, sì. Gravissima. Se un parlamentare in pectore comincia a mentire prim’ancora d’essere eletto, c’è il rischio che ci prenda gusto e seguiti a raccontare balle anche nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Ma che senso ha bandire dalla categoria degli imbrattacarte un giornalista collaudato, che ha ottenuto ascolti importanti, che ha scritto centinaia di articoli improntati ad autorevolezza, che ha ricevuto applausi da esperti economisti, che è stato giudicato abile e arruolato dai lettori di parecchie testate? D’accordo, s’è inventato addirittura la partecipazione allo Zecchino d’oro ed è stato smentito dal Mago Zurlì, alias Cino Tortorella. Ma più che una faccenda seria a me sembra una gran minchioneria.

Mi domando perché Giannino tenesse tanto a far sapere in giro di possedere un paio di lauree. Anche se le avesse avute davvero, che cosa avrebbero aggiunto alla sua preparazione quei pezzi di carta incorniciati? Nulla. Un tipo fuori dagli schemi banali del conformismo, quale lui è, non necessita di pergamene per essere sé stesso, cioè un personaggio. Gli autodidatti che hanno contribuito a migliorare il mondo sono sempre stati numerosi, specialmente in Italia. Guglielmo Marconi, che ha modificato la storia dell’umanità, non era neanche diplomato. Benedetto Croce, il filosofo di cui andiamo orgogliosi, intraprese studi universitari di giurisprudenza e di etica ma non li completò. Gabriele D’Annunzio non conseguì mai la laurea. Eugenio Montale, premio Nobel, era ragioniere. Salvatore Quasimodo, altro Nobel, perito tecnico. Grazia Deledda, Nobel anche lei, aveva solo la licenza media. Alberto Moravia s’era fermato alla quinta ginnasio e fu pure bocciato all’esame per diventare giornalista professionista (pare tuttavia che sapesse scrivere). Italo Svevo era perito contabile, aveva studiato in Austria. I più grandi architetti – Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Carlo Scarpa, Marcello Nizzoli – erano al livello di Giannino: mai laureati. Idem Steve Jobs, fondatore della Apple, che pure ha cambiato il mondo.

La bugia di Giannino, se valutata freddamente e non sulla base dei soliti luoghi comuni moralistici, è stata un peccato veniale. Non una tragedia, bensì una guasconata. Impedire a quest’uomo geniale di lavorare e di guadagnarsi con onestà la pagnotta, come faceva da decenni, sarebbe stata una mascalzonata sindacale. Se gli alberi si giudicano dai frutti, le persone si giudicano dalle opere, e quelle di Oscar sono sempre state di cospicuo valore scientifico e culturale.

Per questo rivolsi un pubblico appello ai colleghi del Sole 24 Ore: non macchiatevi di una carognata. Incredibile a dirsi: una volta tanto, sono stato ascoltato, e Giannino ha riavuto il posto. Il lieto fine tuttavia non lo assolve dall’errore. La pagella prevede anche il voto in condotta e il suo non va oltre una risicata sufficienza. Come dicevano i professori alla mia mamma, potrebbe far meglio. Voto: 6-

GIORDANO Mario (Alessandria, 1966). Giornalista e scrittore. Ha lavorato all’Informazione e al Giornale. Ha esordito in televisione nel 1997, su Rai 1, nel programma Pinocchio di Gad Lerner, che lo ha poi voluto al suo fianco come vicedirettore del Tg1. Direttore di Studio Aperto dal 2000 al 2007 e del Giornale dal 2007 al 2009, quando è tornato a dirigere Studio Aperto. Dal 2014 direttore del Tg4. Ha pubblicato 11 libri di grande successo, denunciando sprechi e privilegi della casta.

È cresciuto al Nostro Tempo, settimanale cattolico di Torino fondato nel 1946 da don Carlo Chiavazza, che lo diresse per 35 anni. La testata ha una peculiarità quasi unica: i giornalisti ci entrano cristiani e ne escono antiberlusconiani. Un esempio per tutti? Marco Travaglio. Si è formato lì. L’attuale direttore, Beppe Del Colle, è stato vicedirettore di Famiglia Cristiana e poi editorialista del rotocalco delle Paoline e ha sempre avuto come unica missione nella vita quella di sodomizzare il Cavaliere almeno una volta la settimana.

Mario Giordano ha tralignato. È finito proprio alla corte dell’odiato Silvio. Forse perché al Nostro Tempo ha avuto un maestro diverso, Domenico Agasso, che dal 1971 al 1974 aveva diretto Epoca. Quando doveva commissionare al principiante un servizio impegnativo, Agasso, piemontese vecchio stampo, gli diceva: «Giordano, prima vada a comprarsi una barba finta».

Rimasto disoccupato dopo la chiusura dell’Informazione diretta da Mario Pendinelli, Giordano mi venne segnalato nel 1996 da un altro torinese, Roberto Crespi, che era il consigliere delegato del Giornale. Lo assunsi all’istante. A convincermi che fosse un asso fu un ritratto di Giorgio Fossa, candidato alla presidenza della Confindustria, scritto dal giovanotto e portato in redazione da Crespi come biglietto da visita. Non mi sono mai pentito d’averlo ingaggiato, neppure quando, nell’agosto 2009, nel suo fondo d’addio mi accusò, senza nominarmi, d’avergli rubato il posto di direttore, che s’era meritatamente guadagnato 11 anni dopo quel primo articolo. Accusa ingenerosa, perché in realtà io non avevo mosso neppure il mignolo per tornare una seconda volta sulla tolda di comando del Giornale.

Da allora su Giordano incombe la maledizione del gambero: avanzate folgoranti e inopinate retrocessioni. L’ultima delle quali, avvenuta a fine gennaio 2014, è stata particolarmente sanguinosa: gli hanno tolto la direzione di Videonews, la testata giornalistica che serve i vari programmi d’informazione delle reti Mediaset, per restituirla al suo predecessore, Claudio Brachino. È vero che gli hanno affidato la direzione del Tg4, lasciata libera da Giovanni Toti, nominato consigliere politico di Berlusconi. Ma è anche vero che Toti era contemporaneamente direttore di Studio Aperto, per cui Il Fatto Quotidiano ha potuto trarre la più maligna delle conclusioni: Giordano vale mezzo Toti e dove lo metti sta.

Dicono che Mariolino stavolta avesse toppato con la sua Videonews fornendo a Domenica live, il programma domenicale di Barbara D’Urso, alcuni servizi hard che hanno mandato su tutte le furie Pier Silvio Berlusconi non meno del Moige (Movimento italiano genitori). Il che conferma quanto mi andava ripetendo Giorgio Fattori: «Giornali e televisioni digeriscono tutto. Ma non proprio tutto».

Curioso che un giornalista di formazione cattolica venga crocifisso per essere inciampato in immagini e interviste a luce rossa. Certo, da una compagnia di giro capace di mandare in onda Il tredicesimo apostolo e I segreti di Borgo Larici bisogna aspettarsi di tutto. Ma un po’ rossa di vergogna dovrebbe essere anche la faccia di chi dalla mattina alla sera, e con un pretesto così goffo, scarica un collaboratore leale, un lavoratore indefesso che da quasi vent’anni si fa un mazzo così a maggior gloria dei media della real casa di Arcore. Merita che almeno io gli alzi anche solo per questo il punteggio. Voto: 7½

GIOVANNI XXIII, san al secolo Angelo Giuseppe Roncalli (Sotto il Monte, Bergamo, 1881 - Città del Vaticano, 1963). Vescovo di Roma e 261º pontefice della Chiesa cattolica dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963. Proclamato beato nel 2000 e santo nel 2014. Ordinato sacerdote nel 1904, fu delegato apostolico in Bulgaria, Turchia e Grecia, amministratore apostolico a Costantinopoli e nunzio a Parigi. Cardinale e patriarca di Venezia dal 1953. Tra gli atti più importanti del suo pontificato, l’indizione del Concilio Vaticano II nel 1962.

Un bergamasco. Mi piaceva che avesse le mie stesse origini. Se non sei campanilista almeno in fatto di papi, per che cosa mai dovresti esserlo? Avevo 15 anni quando fu eletto. Già allora non è che fossi farina da ostie. Della Chiesa e dei preti m’è sempre importato poco, per non dire nulla. Ma vivere in una sacrestia, com’era Bergamo a quel tempo e com’è in parte tuttora, costringeva a fare i conti con la religione.

Su Roncalli cominciarono a circolare aneddoti irresistibili, non saprei quanto veri. Per esempio si diceva che la sera, dopo cena, non volesse rotture di coglioni dalle tonache svolazzanti nel Palazzo apostolico: doveva fumarsi in santa pace due o tre Nazionali esportazione senza filtro. Forse una cattiva abitudine che aveva preso in Turchia. Per me, già allora fumatore incallito e per di più allergico ai contatti sociali, ciò rappresentava una garanzia.

Lo ribattezzarono subito “il Papa buono”, però risulta che fosse all’occorrenza alquanto stizzoso. «Se quelle dilettissime figlie di Eva laggiù in fondo non stanno un po’ zitte, non posso andare avanti con il discorso», si spazientì durante un’udienza concessa a un gruppo di suore, nel quale ve n’erano alcune che non la smettevano di parlottare fra loro. Non che fosse un misogino, anzi. Si raccontava che a un ricevimento, quand’era nunzio della Santa Sede a Parigi, gli avessero presentato una nobildonna che esibiva un crocifisso tempestato di brillanti e smeraldi adagiato sul generoso décolleté e che lui avesse commentato: «È bella la croce, ma è bello anche il calvario».

Osservavo incuriosito i suoi gesti, i suoi atti quasi rivoluzionari. Come quando, il giorno di Santo Stefano del primo anno di pontificato, andò a celebrare un Natale supplementare fra i reclusi del carcere romano di Regina Coeli: «Non potete venire da me, così io vengo da voi. Dunque eccomi qua, sono venuto, m’avete visto. Io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore». Un linguaggio semplice, nel quale riconoscevo quello della mia gente, e non solo per l’intonazione della voce.

Gli anticomunisti lo criticavano perché qui perché là, perché su perché giù. In realtà era un intellettuale che aveva ben presente la minaccia del bolscevismo ancora incombente sul mondo. Solo che, a differenza del suo predecessore Pio XII, s’era anche persuaso che non sussistesse alcun reale pericolo di vedere i cosacchi arrivare al galoppo in piazza San Pietro per abbeverare i loro cavalli alle fontane del Bernini e del Maderno; e che si potesse ottenere più libertà per la Chiesa del silenzio, oppressa oltre cortina, non con gli anatemi bensì ricevendo in Vaticano la figlia di Nikita Kruscev, Rada, accompagnata dal marito Alexej Adjubei, direttore dell’Izvestija, l’organo ufficiale del Presidio del Soviet Supremo.

Si comportava come don Camillo con Peppone: da vecchio parroco. Un parroco intelligente, però. E di straordinario spessore umano, come testimonia il cosiddetto “discorso della luna”, il più celebre che sia mai stato pronunciato da un pontefice. L’unico che non avrebbe voluto tenere. Fu il suo segretario, don Loris Capovilla, a convincerlo a improvvisarlo dalla finestra dello studio, la sera dell’11 ottobre 1962, a conclusione della giornata di apertura del Concilio Vaticano II: il pretino aveva intravisto dalle fessure delle imposte una piazza San Pietro illuminata dalle fiaccole dei fedeli. «Dammi la stola, spalanca la finestra», ordinò il bergamasco a don Loris. E parlò: «Si direbbe che persino la luna si è affrettata, stasera – osservatela in alto! – a guardare a questo spettacolo». Di quel discorso tutti ricordano la raccomandazione finale: «Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza». A me piace ricordare invece una pressante esortazione ripetuta tre volte: «Continuiamo a volerci bene, a volerci bene così, a volerci bene così». Da allora, non mi pare che abbia prodotto molti effetti, neppure dentro quel Palazzo apostolico da cui fu rivolta al mondo. Voto: 8

GIOVANNI PAOLO II, san al secolo Karol Wojtyła (Wadowice, Polonia, 1920 - Città del Vaticano, 2005). Vescovo di Roma e 264º pontefice della Chiesa cattolica dal 16 ottobre 1978 al 2 aprile 2005. Proclamato beato nel 2011 e santo nel 2014. Ordinato sacerdote nel 1946, fu docente di teologia ed etica, arcivescovo di Cracovia dal 1964 e cardinale dal 1967. Nel 1981 fu gravemente ferito in piazza San Pietro da un attentatore turco, Mehmet Ali Agca.

Non vi è stato nessun altro pontefice, nella storia recente della Chiesa, che abbia influito più di lui nelle vicende politiche. Ha cambiato il corso del XX secolo. Ha abbattuto l’altra Chiesa, quella comunista, un monolite che sembrava indistruttibile. Per riuscirci, non ha esitato ad andare per le spicce e a servirsi di personaggi incredibili, pittoreschi, come il suo amico Jacek Pałkiewicz, l’esploratore italo-polacco residente nel Vicentino, che all’epoca delle rivolte di Solidarnos´c´ fungeva da corriere segreto fra Giovanni Paolo II e Lech Wałe˛sa, portava all’uno i messaggi dell’altro e viceversa. E non parliamo dei fiumi di denaro arrivati dal Vaticano per finanziare l’insurrezione nei cantieri di Danzica. Del resto il programma di Karol Wojtyła era già tutto condensato nella prima omelia da papa, pronunciata durante la messa d’incoronazione: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!» Allora nessuno di noi capì il corollario sottinteso di quello che sembrava soltanto un appello spirituale e che invece era un monito rivolto in particolare ai Paesi del Patto di Varsavia: o aprite le porte e i confini degli Stati, voi da soli, o qualcun altro provvederà al posto vostro. Lui. Con l’aiuto del Padreterno, si capisce.

Dell’esistenza di Wojtyła ci accorgemmo tutti all’improvviso il 16 ottobre 1978, sul far della sera. Nel salone albertiniano del Corriere della Sera si attendeva spasmodicamente la fumata bianca. In redazione avevamo preparato le biografie di una dozzina di cardinali, i cosiddetti papabili. Seguivamo sul televisore quello che le agenzie di stampa non potevano raccontare in tempo reale. Solite dispute sulla fumata che esce dal comignolo: è nera, no aspetta, forse è bianca, no no è nera, un momento, no è bianca, sì sì è bianca. Poi si affaccia alla Loggia delle benedizioni il cardinale protodiacono Pericle Felici, che con quel suo accento mezzo romanesco e mezzo ciociaro sembra pronto ad annunciare l’elezione di uno de noantri: «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum dominum, dominum Karolum, Sanctæ Romanæ Ecclesiæ cardinalem Voitìua».

«Voitìua? Chi cazzo è ’sto Voitìua?» Le redazioni, si sa, non sono club oxfordiani. Urla belluine. «Chiama De Santis!», Fabrizio De Santis, il vaticanista, successore del mitico Silvio Negro, che aveva raccontato i papi sul Corriere per 28 anni, dal 1931 fino alla morte. «Chiama anche Tucci che è in piazza San Pietro!», Bruno Tucci, per una vita presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio. Dal televisore frattanto arriva la traduzione dell’annuncio: non è un africano, come qualcuno aveva ipotizzato, si tratta invece di Karol Wojtyła, polacco, arcivescovo di Cracovia. «Ma nelle biografie pronte non c’è!» La solenne circostanza impedisce che la stizza degeneri nei moccoli di rito in casi del genere. «Ostia, dobbiamo rifare tutto!» Non sapevamo nemmeno come si scrivesse il nome di ’sto Voitìua. Eravamo nel pallone. I profili già impaginati da buttare nel cesso, le lancette dell’orologio che corrono: già le 19. «E adesso chi ci fa la biografia di questo qui?» Si offrì volontario Dario Fertilio, in aggiunta a De Santis.

Da allora Wojtyła avrebbe continuato a stupirci quasi ogni giorno. Le fughe dal Vaticano. Le sciate sul Terminillo. La gita sull’Adamello con il suo amico Sandro Pertini. Fino a diventare il primo Papa nella storia dell’umanità immortalato in costume da bagno, mentre nuotava in piscina a Castel Gandolfo, immagini rubate (da una funambolica fotoreporter, Roberta Hidalgo) ma non per questo meno dirompenti. Poi l’imponderabile: i due colpi di pistola nell’addome, sparati il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro da un killer professionista turco, Mehmet Ali Agca. E Wojtyła che due anni dopo va a trovarlo in carcere per dargli il suo perdono.

È stato un papa attore, in tutti i sensi, e in questo ha assecondato la sua vocazione giovanile per la recitazione. Ma pochi attori hanno saputo tenere la scena come lui per quasi 27 anni senza mai sbagliare un’entrata. Di che tempra fosse fatto, l’ha mostrato nell’agonia infinita che segnò i suoi ultimi mesi di vita.

Non che Papa Francesco possa essere considerato da meno, quanto a decisionismo. Però un santo mastino come Karol Wojtyła credo che sulla cattedra di Pietro non si rivedrà più per un bel pezzo. Voto: 9

GOTTI TEDESCHI Ettore (Pontenure, Piacenza, 1945). Economista, docente universitario e banchiere. S’è formato alla Sema di Parigi, la Société d’économie et de mathématique appliquée voluta dal presidente Charles De Gaulle. Dopo un’esperienza in McKinsey tra Milano e Londra, ha fondato con Gianmario Roveraro la banca d’affari Akros, che ha portato in Borsa la Parmalat. Nel 1992 ha aperto la filiale italiana del gruppo spagnolo Banco Santander. È stato consigliere economico del ministro Giulio Tremonti, che lo ha nominato nel consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti. Dal 2009 al 2012 ha ricoperto la carica di presidente dello Ior (Istituto per le opere di religione). Autore di vari libri, è stato opinionista dell’Osservatore Romano.

Venne a trovarmi nella redazione del Giorno, in via Stradivari a Milano, dalle parti di corso Buenos Aires. Poteva essere la fine del 1999 o l’inizio del 2000. Aveva saputo che ero in procinto di fondare Libero. Si dichiarò interessato al progetto e mi fece proposte per costituire una base azionaria ampia e differenziata, al fine di assicurare la massima indipendenza alla testata. La cosa mi parve un po’ curiosa quanto originale. Che interesse poteva aver suscitato un piccolo giornale, ancora in fase embrionale, nel rappresentante italiano del Banco Santander, il primo istituto di credito d’Europa, l’ottavo al mondo per capitalizzazione? E ancora più strano mi parve che Gotti Tedeschi, membro dell’Opus Dei, cercasse proprio me, un miscredente. Senza contare che lui ha sempre avuto simpatia per Maurizio Belpietro, che però in quel momento dirigeva Il Giornale. Dunque, che senso aveva aiutare o sostenere un concorrente? Non posso dire che l’attenzione manifestatami in quell’occasione dal banchiere non mi abbia lusingato. Solo che poi non ho concimato il campo. Mea culpa. È finita che non ci siamo più sentiti. Un’occasione sprecata, forse.

Ho seguito, un po’ come tutti, lo scandalo dell’Istituto per le opere di religione, meglio noto come “la banca del Vaticano”, e della defenestrazione di Gotti Tedeschi, che ne era il presidente. L’idea che ne ho tratto è che egli sia stato vittima di una delle più colossali cospirazioni degli ultimi anni, tanto più spregevole perché maturata in seno a Santa Madre Chiesa. Diradata la cortina di fumo e d’incenso che ancora avvolge la tribolata vicenda, i fatti appaiono di una semplicità disarmante nella loro crudezza.

Sei mesi prima che Joseph Ratzinger diventi pontefice, Gotti Tedeschi conosce il cardinale tedesco in casa di Gaetano Rebecchini, prestigioso membro della Consulta vaticana, figlio di Salvatore Rebecchini, democristiano, primo sindaco di Roma dopo la Liberazione. Tre ore e mezzo di chiacchiere, alle quali partecipa anche Francesco Cossiga. Tra il prefetto dell’ex Sant’Uffizio e il banchiere del Santander nasce una simpatia immediata, che scaturisce dalla perfetta consonanza di vedute su come la fede possa e debba influenzare capitalismo, globalizzazione, mercato.

Diventato papa, Ratzinger si ricorda di quell’incontro e decide di ricorrere alla consulenza di Gotti Tedeschi per la stesura di alcuni passaggi dell’enciclica Caritas in veritate, soprattutto quelli riguardanti la crisi economica. Anche se, timorato di Dio com’è, il banchiere non ammetterà mai che Benedetto XVI abbia attinto da lui.

Non basta. Sua Santità da tempo ha deciso che bisogna mettere mano al marciume nello Ior. Per cui quando il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, gli propone di nominare Gotti Tedeschi presidente dell’istituto, trova la porta dell’appartamento pontificio non aperta: spalancata. Il banchiere era stato presentato a Bertone da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, e aveva già dimostrato di saperci fare risanando le finanze del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.

Insediatosi nel Torrione Niccolò V, tre finestre sotto il davanzale dal quale il Papa si affaccia per l’Angelus la domenica, Gotti Tedeschi si mette subito al lavoro, sulla base di un mandato pontificio che non ammette deroghe: fare pulizia, trasformare lo Ior in una casa di vetro, renderlo efficiente e dargli credibilità. Incarica perciò la maggior società di revisione esistente al mondo, la Deloitte, di rivedere tutte le procedure interne. Promuove contatti a Parigi con l’Ocse e con il Gafi, il Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio. Chiama i maggiori esperti per formulare un’esemplare legge antiriciclaggio. Si avvale dei suggerimenti di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, per regolare i flussi di denaro della Santa Sede in base alle normative sulla trasparenza da cui lo Ior ormai non può più prescindere.

Lo scopo è di far entrare il Vaticano nella white list compilata dall’Onu, quella dei Paesi che non combinano potacci e sbrodeghezzi nelle transazioni finanziarie. Un modo per proteggere la Santa Sede da gravi rischi e per dare la massima credibilità al Papa, autorità morale a cui tutto il mondo guarda. Benedetto XVI asseconda il tentativo. Con un motu proprio, alla fine del 2010 istituisce l’Aif (Autorità di informazione finanziaria), che diventa l’istituzione della Città del Vaticano per la prevenzione e il contrasto del riciclaggio, e vi mette a capo il cardinale Attilio Nicora, l’inventore del meccanismo dell’8 per mille che finanzia la Chiesa cattolica attraverso l’Irpef; un lombardo assai concreto, in quel momento presidente dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), insomma il contabile del Vaticano. Se il Papa si scomoda a inventare un simile organismo, vuol dire che qualche problemino con il riciclaggio lo Ior ce l’ha.

Con Nicora, Gotti Tedeschi s’intende a meraviglia. Ma intorno a loro si crea il vuoto. Una potentissima lobby di curia complotta per tagliare le gambe a entrambi. Il sacro terrore dei Sacri Palazzi è che i due matti si mettano in mente, come in effetti hanno in mente (e come di fatto poi avverrà, ma soltanto dopo l’elezione di Papa Francesco), di chiudere i 1.200 conti laici esistenti presso lo Ior; conti di personaggi opachi che non c’entrano nulla con le opere di religione, usati presumibilmente per mascherare attività illecite dall’Italia verso il resto del mondo, e viceversa, sfuggendo ai controlli della Guardia di finanza, visto che la Città del Vaticano è uno Stato sovrano.

Gotti Tedeschi comincia a temere per la propria incolumità personale. In un memoriale privato, destinato a essere aperto solo «in caso d’incidente» e requisito durante una perquisizione effettuata in casa sua dai magistrati italiani, egli indica in particolare due persone che gli stanno mettendo i bastoni fra le ruote in tutti i modi: Paolo Cipriani, direttore generale dello Ior, e Marco Simeon, intimo del cardinale Bertone, direttore di Rai Vaticano e responsabile delle relazioni istituzionali e internazionali di viale Mazzini. Non si capisce a che titolo il secondo, figlio di un benzinaio di Sanremo, protagonista di una fulminante carriera alla corte di Bertone fin da quando il porporato era arcivescovo di Genova, invii a Gotti Tedeschi sibillini Sms, non molto diversi dall’accusa che Cipriani arriva a muovergli: «Lei passerà alla storia come colui che ha distrutto lo Ior». Ciò che invece si capisce benissimo è che, agli occhi di Cipriani e Simeon, Gotti Tedeschi ha una colpa imperdonabile: non gravita, come loro, nell’orbita di Cesare Geronzi, ex dominus della Banca di Roma ed ex datore di lavoro di entrambi. E Geronzi, non proprio uno sconosciuto oltretevere, è il banchiere che in un’intervista concessa nel 2011 ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera ebbe a dire del suo collega: «È un personaggio ritenuto preparato, che si è particolarmente esercitato nella demografia», un’allusione tanto ambigua quanto caustica, perché non chiariva se il riferimento fosse ai cinque figli messi al mondo da Gotti Tedeschi oppure alla sua teoria che individua nella denatalità la causa principale della crisi economica planetaria.

Per colpa degli sbrodeghezzi combinati ai piani bassi dello Ior, il presidente viene raggiunto a pochi mesi dalla nomina, senza avere né conoscenza dei fatti né il potere di determinarli, da un avviso di garanzia. Il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Rocco Fava gli imputano omissioni legate alla normativa antiriciclaggio. In ballo c’è la movimentazione sospetta di 23 milioni di euro, depositati su un conto dello Ior nella filiale romana del Credito artigiano e destinati parte alla J.P. Morgan Frankfurt e parte alla Banca del Fucino. Il 5 luglio 2013 saranno però gli stessi magistrati della Procura di Roma a chiedere l’archiviazione del procedimento a carico del banchiere, risultato estraneo alle accuse.

Ma i tentativi di screditamento più pesanti si sviluppano a partire da gennaio 2012. Nascono all’interno delle sacre mura, non all’esterno, subito dopo le modifiche della legge antiriciclaggio apportate a insaputa del presidente dello Ior e invano contrastate dal presidente dell’Aif, cardinale Nicora. L’insinuazione più velenosa è che Gotti Tedeschi abbia addirittura a che fare con il “corvo” del caso Vatileaks. Questa calunnia trova un’antenna assai sensibile nel segretario di Stato, che ha preso a detestare il banchiere in quanto s’è opposto all’acquisto dell’ospedale San Raffaele da parte dello Ior, mandando così a farsi friggere il nebuloso progetto di un grande polo sanitario vaticano coltivato da Bertone ma osteggiato anche dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano. La denigrazione lascia invece del tutto indifferente monsignor Georg Gänswein, segretario di Benedetto XVI, che sprona il presidente a tirare dritto nell’opera di pulizia.

A questo punto è chiaro che in Vaticano si stanno fronteggiando per la sfida finale due opposte fazioni: quella di chi vuole cambiare tutto, capeggiata dal Papa in persona, e quella di chi non vuole cambiare proprio nulla. Purtroppo vince la seconda. E il primo a farne le spese è Gotti Tedeschi. Per esautorarlo, i marpioni dello Ior arrivano ad arruolare uno psicoterapeuta e ipnoterapeuta, Pietro Lasalvia, che viene incaricato di osservare con attenzione il presidente durante un ricevimento natalizio nei saloni dell’istituto e di redigere poi un rapporto sui tic del medesimo. Il referto clinico, evidenziante «tratti di egocentrismo, narcisismo e un parziale scollamento dal piano di realtà, assimilabile a una disfunzione psicopatologica nota come “accidia sociale”», finisce sul tavolo del cardinale Bertone e diventa l’arma letale per il siluramento dello spaccaballe, che proprio in quelle ore si accinge a sfiduciare Cipriani, il direttore dello Ior, e a denunciare direttamente al Papa gli avvenimenti che stanno danneggiando la Chiesa. Non avrà il tempo per farlo.

All’americano Carl Albert Anderson, che siede nel consiglio di soprintendenza dello Ior, spetta il colpo di grazia: «Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che Gotti Tedeschi non sia in grado di guidare l’istituto in tempi difficili come questi». L’addolorata deduzione trascura un dettaglio decisivo: Anderson è cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, 1,8 milioni di membri, la più potente organizzazione cattolica degli Stati Uniti. La quale, avendo in pancia polizze vita per 80 miliardi di dollari, distribuisce ogni anno quasi 170 milioni in beneficenza, soprattutto alla Chiesa. Il tentativo di porre lo Ior sotto la sfera d’influenza del cattolicesimo più ricco e vitale del pianeta, quello americano, sottraendolo al controllo del declinante cattolicesimo europeo e all’asfittica gestione italianocentrica, tinge di nuovi significati la lotta senza quartiere che si combatte all’ombra della basilica di San Pietro.

Com’è andata a finire, si sa. Gotti Tedeschi ci ha rimesso il posto, la reputazione, la salute e il sonno, ma ha sempre taciuto per amore del Papa. La nuova legge antiriciclaggio è stata stravolta. Il cardinale Nicora s’è visto esautorare e sostituire alla guida dell’Apsa dal confratello Domenico Calcagno, un porporato – fedelissimo di Bertone – dispiaciuto perché l’incarico vaticano non gli permette più di esercitarsi nel tiro a segno con la sua pistola, una Smith & Wesson 357 magnum. Benedetto XVI, constatata l’impossibilità di riformare la curia romana, ha preferito addirittura rassegnare le dimissioni e passare la mano a un pontefice arrivato «dalla fine del mondo» con la ramazza in pugno.

Ma agli altri protagonisti di questa desolante vicenda non è toccata sorte migliore. Il cardinale Bertone è stato il primo che Papa Francesco ha fatto fuori – sarà mica un caso – e a gennaio 2014 s’è visto escludere, insieme con il fido Calcagno, persino dalla Commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior, l’unico incarico che era riuscito a mantenere lasciando la segreteria di Stato, quello che pareva premergli, chissà perché, più della sua stessa vita. Il direttore generale Cipriani è stato licenziato in tronco insieme con il suo vice Massimo Tulli, anche se i due hanno evitato il disonore dell’accompagnamento alla porta firmando un attimo prima una lettera di dimissioni. L’onnipresente Simeon, costretto financo a smentire d’essere il figlio naturale di Bertone, è stato rimosso dalla guida di Rai Vaticano nonché dalla direzione delle relazioni istituzionali e internazionali della Rai e di lui si sono perse le tracce. Con l’avvento di Jorge Mario Bergoglio sul trono di Pietro è stata anche ripristinata la legge originale antiriciclaggio studiata da Gotti Tedeschi e avallata da Nicora. Più chiaro di così.

Conclusione. Ora c’è tanto di sigillo papale: altro che matto da legare, Gotti Tedeschi aveva ragione. Succede qualche rara volta che l’onestà alla fine trionfi e questa è una di quelle volte. Ma se fosse diventato editore di Libero non sarebbe finito allo Ior e avrebbe senz’altro passato meno guai. Mea culpa, sì. Voto: 8

GRAMELLINI Massimo (Torino, 1960). Giornalista e scrittore. Ha lavorato al Corriere dello Sport e al Giorno. Nel 1988 è entrato alla Stampa, di cui è attualmente vicedirettore. Il suo libro Fai bei sogni, uscito nel 2012, è diventato un long seller da oltre 1 milione di copie.

L’avevo visto in azione come cronista – ma dovrei scrivere cane da tartufi – nel periodo aureo di Diego Armando Maradona al Napoli. Per un anno intero Gramellini fu messo a tampinare il campione. Spiava il bagno della sua casa di Posillipo da dietro una siepe. Correva dietro alle spasimanti del goleador argentino. Lo inseguiva per strada e nei night per strappargli un mozzicone di frase. «Fino a quando», avrebbe raccontato anni dopo, «un inviato di lungo corso non mi trattenne per un braccio: “Lascia correre gli altri, tu conserva le energie per la macchina da scrivere”. Era Vittorio Feltri».

Poi dalla redazione romana della Stampa fu trasferito a quella di Milano. Al piano di sotto dello stesso palazzo avevano sede il Quotidiano Nazionale e Il Giorno, dei quali ero direttore. Dopo aver letto tutti i suoi articoli, mi sarebbe piaciuto averlo come vice. Capisco che mollare l’house organ della Fiat non sia facile, però all’epoca il Quotidiano Nazionale era il terzo giornale d’Italia, dopo Corriere e Repubblica, perché il fascicolo unico assommava le tirature di Giorno, Resto del Carlino e Nazione.

Fu molto lusingato dal mio interessamento, ma non accettò l’offerta. Anni dopo l’ho rivisto in occasione di un pranzo al mare con mio figlio Mattia, a Sabaudia. Anche lì il corteggiamento non ha funzionato. Oggi è vicedirettore alla Stampa, quindi direi che ha fatto bene a non darmi retta e ad aspettare.

Gramellini è un fuoriclasse della scrittura e una persona molto perbene. Però la palandrana d’ordinanza da antiberlusconiano che si è messo addosso gli fa perdere un po’ del suo naturale equilibrio. Pur essendo una mente brillante, finisce per infarcire sempre i pezzi con i luoghi comuni del politicamente corretto, anche se espressi con prosa mai scontata. È diventato il Fazio della carta stampata, ecco. Non a caso i due sono compagni di merende anche in televisione. Più che i gemelli diversi, i gemelli uguali.

Inoltre, benché padroneggi la penna come pochi, non capisco come abbia fatto a vendere più di 1 milione di copie con un libro, Fai bei sogni, che nell’incipit contiene questa immagine fantozziana: «Infilo le pantofole nei piedi sbagliati». E pensare che io invece ho sempre infilato i piedi nelle pantofole. Devo aver sbagliato proprio tutto nella vita. Anche a mettermi le ciabatte. Voto: 7-

GRILLO Beppe all’anagrafe Giuseppe (Savignone, Genova, 1948). Comico, attore e politico. Notato da Pippo Baudo in un cabaret di Milano, ha esordito come mattatore televisivo con Secondo voi, Luna park e Fantastico alla fine degli anni Settanta. Allontanato dalla Rai nel 1986 per una battuta sarcastica sul premier Bettino Craxi, fece ritorno in video con i Festival di Sanremo del 1988 e del 1989. Il Beppe Grillo show trasmesso da Rai 1 nel 1993 è stato il suo ultimo spettacolo sia sulla televisione pubblica che sulle reti Mediaset. Nel 2005 ha aperto un blog, giudicato nel 2008 dal quotidiano britannico The Guardian fra i 50 più importanti al mondo e inserito al nono posto della classifica. Nel 2009 ha promosso con Gianroberto Casaleggio la nascita del Movimento 5 stelle, che alle elezioni politiche del 2013 ha raccolto quasi 9 milioni di voti e conquistato 109 seggi alla Camera e 54 al Senato, diventando il terzo partito dopo il Pd e il Pdl.

Quando faceva il comico, lo trovavo un po’ più bravo di un comico. Adesso che fa il politico, lo trovo un po’ meno bravo di un politico. Continua a ripetere le stesse cose con un tono della voce così stentoreo che mi sembra di risentire sempre il suo primo comizio, quello del “vaffa”. È ogni volta uguale a sé stesso, monocorde nei latrati e ancor più negli argomenti, mi sembra inutile che parli ancora. Dovrebbe solo mandare in onda il filmato della prima concione, non cambierebbe nulla.

È anche vero, però, che quando Grillo parla, difficilmente si riesce a non concordare con quello che dice. Personalmente trovo che tutte le sue invettive abbiano un fondamento. Insomma, ha sempre ragione, su tutta la linea, e questo mi spaventa, perché ce n’è stato solo un altro, nella storia patria, che aveva, o voleva avere, sempre ragione, e sappiamo che fine ha fatto; uno di cui non si avverte la mancanza.

La cosa che più mi lascia perplesso è che il comico ligure per molti anni è stato nemico giurato delle nuove tecnologie. In tempi non lontanissimi, nel 2000, chiamava Infernet il Web e durante lo spettacolo Time out distruggeva a martellate un computer. Adesso è diventato il pontefice massimo della Rete. Mai saputo di un profanatore di tabernacoli che si tramuta in papa. Deve trattarsi di una Chiesa farlocca, dunque.

Va di moda prendersela con Grillo, accusato di essere il campione dell’antipolitica, un qualunquista, un guitto trasformatosi in un demagogo indegno di essere ascoltato. Invece la gente lo ascolta, si diverte ai suoi comizi-cabaret, apprezza la sua capacità d’intercettare umori e malumori diffusi. I partiti tradizionali confondono, come sempre, i sintomi con la malattia. La malattia sono loro stessi e l’antipolitica è il sintomo che segnala come un numero crescente di cittadini si allontani per disgusto dai propri rappresentanti, non considerandoli meritevoli di fiducia.

Non so con esattezza quale sia lo scopo finale del mattatore genovese, forse non lo sa nemmeno lui. Da quando fu inventata la democrazia, se questa smette di funzionare, perché i partiti hanno perso i contatti con la realtà, si aprono dei vuoti che vengono riempiti da chi è in grado di farlo. In questo periodo di sbandamento della politica, un personaggio come Grillo va in piazza, alza la voce, esprime concetti semplici con linguaggio diretto, l’esatto contrario del politichese, ed è ovvio che mieta consensi in gran quantità. La colpa non è sua se gli avversari contro cui egli si batte non sono all’altezza di reagire con argomenti persuasivi. Alle sue contumelie i professionisti della cadrega non rispondono, o rispondono con disprezzo, il che aumenta negli elettori il convincimento che siano da cacciare e basta.

Pigliarsela con Grillo, come ha fatto perfino Giorgio Napolitano, è controproducente. Intanto, perché lo si eleva al rango di avversario temibile, rispettabile o comunque da non sottovalutare; inoltre, maltrattare chi critica un sistema palesemente sbagliato, quale il nostro, comporta inimicarsi la massa che stima il fustigatore. Ad alimentare il grillismo è il fallimento della politica, l’impotenza dell’apparato, l’inerzia della macchina decisionale, lo spreco di denaro pubblico, la fame di rimborsi elettorali utilizzati per fini personali, l’insipienza di chi manovra le leve del potere, la facilità con cui s’impone ai contribuenti un rigore fiscale non bilanciato da analogo rigore nell’amministrazione della cassa statale.

Nel tentativo di analizzare l’urticante avanzata di Grillo, vari commentatori hanno rivisitato la storia della Repubblica cercando i precedenti, e sono risaliti a Guglielmo Giannini, fondatore del giornale L’Uomo Qualunque e del movimento con la medesima denominazione. Una forzatura, se non un errore. Altri tempi, altra Italia. Giannini era un commediografo, a suo modo un intellettuale, e un brillante giornalista. Ma ciò che lo rendeva minaccioso agli occhi della Dc e del Pci era la sua fede liberale, giudicata pericolosamente infettiva dai cattolici e dai socialcomunisti.

L’Uomo Qualunque era uno spauracchio perché demoliva i dogmi dei due partitoni a vocazione maggioritaria. Non solo: coagulava il consenso di coloro che non si riconoscevano nelle due Chiese, quella bianca e quella rossa. Alcide De Gasperi, che aveva un naso non inutilmente lungo, intuì il da farsi: fagocitare la stramba creatura. Come? Promesse, blandizie, posti. La Dc sfoderò tutte le proprie arti seduttive e, quando Giannini si avvicinò alla Balena bianca, questa lo ingoiò e vinse le elezioni altrimenti alla portata del frontismo.

Riusciranno il centrosinistra o il centrodestra a circuire Grillo? Ne dubito. Nel momento stesso in cui egli dovesse cedere alla corte di uno dei due schieramenti ed entrasse in una compagine governativa, verrebbe a decadere la ragione sociale stessa del Movimento 5 stelle, che ha fondato le proprie fortune nell’essere sempre e comunque “contro” e nel mantenersi accuratamente alla larga dai partiti.

Non potendo dialogare con i politicanti, Grillo è condannato al limbo di Internet, luogo di democrazia più virtuale che sostanziale, dove quattro gatti pretenderebbero di scegliere addirittura chi è l’italiano più degno di diventare capo dello Stato. Nei fatti, quando per le cosiddette “quirinarie” votano appena 28.518 internauti, pari allo 0,1 per cento degli utenti che si collegano alla Rete almeno una volta al mese da un computer, e Stefano Rodotà viene candidato alla presidenza della Repubblica soltanto perché è stato indicato da 4.677 anonimi, scadiamo nella farsa: vuol dire che lo strumento democratico escogitato da Grillo va bene al massimo per eleggere l’amministratore di un condominio.

Il fondamentalista della Rete ha divinizzato un mezzo che in realtà non è ancora sufficientemente rappresentativo. Internet non è affatto un luogo di confronto popolare, come il capo del M5s vorrebbe farci credere. È, al contrario, un’agorà di nicchia e lo dimostra la pochezza del personale politico che vi è stato reclutato: giovanotti mandati allo sbaraglio, tipi stravaganti senz’arte né parte, gaffeur del calibro di Roberta Lombardi, la capogruppo alla Camera che ha dimostrato di non conoscere neppure la Costituzione ed è stata costretta a dimettersi per aver tentato di far pagare al movimento una fattura da 10.000 euro emessa da un consulente di sua fiducia. Dopo un anno e passa di permanenza in Parlamento, la folta tribù pentastellata ha saputo produrre soltanto una caterva di parole e di baruffe interne.

Anche quel Gianroberto Casaleggio, il guru cui Grillo s’ispira, mi pare un po’ schiodatello, come dicono a Roma, un filosofo avulso dalla realtà. Più concreto mi sembrava l’altro ideologo del M5s, poi scomunicato perché le sparava troppo grosse, il professor Paolo Becchi, docente di filosofia del diritto all’Università di Genova, che ho fatto scrivere su Libero. Mi è parso l’unico capace di dare sostanza giuridica a una delle fisse di Grillo: l’impeachment di Giorgio Napolitano per attentato alla Costituzione e alto tradimento. Ma anche Becchi viene scomposto di tanto in tanto da qualche refolo di lucida follia, altrimenti non avrebbe scritto un libro, Anatomia di un dolore, che nessun editore ha avuto il coraggio di pubblicargli, essendo interamente dedicato al proprio buco del culo, martoriato da una fistola curata malamente.

Con Infernet al momento Grillo può solo scottarsi. Probabilmente egli ha prefigurato una modalità di far politica che sarà realizzabile solo fra vent’anni (forse). E, come sempre accade a chi arriva primo con troppo anticipo, viene scambiato per un visionario inconcludente. Rimane il fatto, incontrovertibile, che il suo modo di contestare il potere è efficacissimo. Il 20 per cento dei consensi non lo raccogli dall’oggi al domani per puro caso. Sono stato fortemente tentato di votare anch’io per il Movimento 5 stelle. Mi sembrava l’unico in grado di abbattere questo sistema marcio che non riesce a produrre niente di buono, pensavo che dal caos generale potesse poi sorgere un nuovo ordine. Per fortuna alla fine mi sono trattenuto, altrimenti sarei qui a prendermi a sberle da solo, come Adriano Celentano, Pippo Baudo, Flavio Briatore e Antonello Venditti, che ci hanno creduto e si sono pentiti.

Il saltimbanco di Genova scomparirà dalla scena soltanto quando la politica avrà sconfitto l’antipolitica. Come? Lavandosi la faccia e le mani. Voto: 7

GRONCHI Giovanni (Pontedera, Pisa, 1887 - Roma, 1978). Terzo presidente della Repubblica (1955-1962). Sindacalista cattolico, fu tra i fondatori del Partito popolare e deputato dal 1919. Passato all’opposizione nel 1923, partecipò all’Aventino. Tornò alla vita politica nel 1943 e rappresentò la Dc nel Comitato nazionale di liberazione. Membro della Costituente, fu più volte ministro e poi presidente della Camera (1948-1955).

Chi ha i capelli grigi ricorderà come, un tempo, i presidenti della Repubblica si comportassero all’incirca con lo stile dei re: se ne stavano al Quirinale contornati dai corazzieri, ricevevano di tanto in tanto qualche collega straniero, venivano ritratti mentre sorseggiavano il tè seduti in salottini dorati e, alla fine dell’anno, leggevano il messaggio augurale agli italiani che pochi ascoltavano. Una volta nella mia città arrivò Giovanni Gronchi in visita ufficiale. Quando transitò nel centro urbano, ci saranno state sì e no 100 persone a osservare la scena, attratte più dall’auto che dal presidente: una Lancia Flaminia cabriolet nera, lucidata a specchio, che Gronchi in persona aveva commissionato in quattro diversi modelli – la spending review era di là da venire – alla carrozzeria Pininfarina.

L’unica pruriginosa curiosità che i bergamaschi, notoriamente molto pii, riservavano al capo dello Stato concerneva le sue abitudini private. Si sussurrava che fosse uno sciupafemmine e che avesse addirittura fatto aprire una porticina nei giardini del Quirinale dalla quale far scivolare via all’alba, in gran segreto, le amanti. Se penso che il premier Silvio Berlusconi costruì un condominio in via Olgettina, a Milano 2, per farcele stare tutte, la riservatezza di Gronchi merita d’essere premiata. Voto: 6

GRUBER Lilli all’anagrafe Dietlinde (Bolzano, 1957). Giornalista, scrittrice ed ex politica. Dopo il praticantato a Telebolzano, nel 1982 è entrata in Rai. Tra il 1987 e il 1990 ha condotto l’edizione di prima serata del Tg2. Chiamata da Bruno Vespa al Tg1, è stata inviata e conduttrice dell’edizione delle ore 20. Ha seguito il crollo del Muro di Berlino, la guerra del Golfo e quella nell’ex Jugoslavia, gli attentati terroristici dell’11 settembre e il conflitto in Iraq. Eletta nel 2004 europarlamentare con l’Ulivo, si è dimessa nel 2008. Conduce il programma Otto e mezzo su La7.

Ho avuto simpatia per lei fin dall’inizio. Una debolezza tutta maschile, dettata dall’aspetto decorativo della ragazza. Oh, ci sarà pure un motivo se il telegiornale fa più ascolti oggi con Laura Chimenti che non ieri con Sergio Telmon. La Gruber si è fatta subito notare per la postura, detta “di tre quarti”, insomma con una tetta più protesa dell’altra verso la telecamera, che poi non è neppure che a seno stia messa così bene, come nel 1992 documentarono impietosamente le foto (rubate) del suo topless estivo in Sardegna. Insomma, una gnocca di traverso sul video non passava inosservata. Grande delusione quando saltò fuori che quello era il suo modo involontario di correggere la postura della schiena per via di una scoliosi giovanile.

Dopodiché mi ha stupito che una collega brava e sveglia come lei abbia deciso a un certo punto di buttarsi in politica, facendosi eleggere al Parlamento europeo con l’Ulivo. Intendiamoci, fosse arrivata a Strasburgo con Forza Italia, il mio stupore sarebbe stato uguale. Non si capisce perché un giornalista a un certo punto debba smettere di fare il suo mestiere per entrare in un partito. È un errore imperdonabile: già la gente che ci vede ogni sera a Porta a porta e a Ballarò insieme ai politici sospetta che noi e loro si faccia lo stesso mestiere, se poi arrivano le Gruber a confermarglielo, addio, l’intera categoria perde anche quel po’ di residua credibilità.

Fra l’altro, già adesso ogni giornalista viene automaticamente associato a una fazione. Se in televisione vedono me, siccome prendo lo stipendio dalla famiglia Berlusconi, pensano che io sia totalmente appiattito sul Cavaliere e qualsiasi cosa dica la interpretano con il filtro politico, non interessa a nessuno che sia vera o no, giusta o no: sto sui coglioni sempre e comunque, sono un cretino, uno stipendiato, un salariato, un servo. La stessa cosa vale, anche se in misura molto più ridotta, per quelli contigui alla sinistra: però in quel caso l’appartenenza viene considerata generalmente un titolo di merito.

Della Gruber inviata speciale del Tg1 durante la guerra del Golfo ricordo che, nel timore di uscire dagli schemi progressisti imposti dalla teletradizione, offriva agli italiani una sequela impressionante di luoghi comuni per screditare i ricchi americani che si accanivano sui poveri iracheni. I momenti migliori erano quando si faceva riprendere appollaiata in uno stato di apparente precarietà sul tetto dell’hotel Al Rasheed di Baghdad, in realtà la terrazza di un cinque stelle della catena Royal Tulip dotato di piscina e tennis. Ben truccata, la chioma cotonata di fresco avvolta nella mitica pashmina, in tinta con il vestito o meglio ancora candida come il velo della Madonna di Lourdes, ci rifilava informazioni frolle di seconda o terza mano. Talvolta annunciava imminenti attacchi aerei degli americani quando già si vedevano all’orizzonte gli F15 e gli F16 che martellavano la capitale dell’Iraq. Negli intervalli fra un collegamento e l’altro, trovava anche il tempo di flirtare con Jacques Charmelot, inviato dell’agenzia France presse, che poi sarebbe diventato suo marito.

Avendo fatto lo stesso mestiere per anni, sia pure senza andare al fronte, so per esperienza che all’inviato càpita spesso di telefonare alla redazione e di sentirsi riferire dai colleghi quello che lui dovrebbe conoscere a menadito, essendo sul posto. È che in questi frangenti comandano le agenzie di stampa, Associated press, Reuters, Ansa. Tu stai lì, nel luogo dove si compiono gli eventi, e non capisci un cazzo di quel che succede. Mentre quelli comodamente seduti in poltrona a Roma o a Milano beccano tutto, sanno tutto. Così accadeva – raccontano le malelingue – che la Gruber, prima di andare in onda, chiedesse lumi ai colleghi del Tg1 sulle informazioni da dare durante il collegamento.

Adesso s’è riscattata con Otto e mezzo su La7, dove dimostra di saper dettare le regole del gioco con il consueto piglio della scoliotica di tre quarti. Peccato che l’uso sconsiderato del Botox ci abbia reso orfani dell’antica bellezza del suo viso, restituendoci un canotto di salvataggio. Al quale tuttavia non disdegno di aggrapparmi nei momenti di più tetro sconforto. Voto: 7

GUZZANTI Paolo (Roma, 1940). Giornalista, scrittore e politico. Ha lavorato alla Stampa e alla Repubblica ed è stato vicedirettore del Giornale. Ha condotto in Rai la prima edizione di Chi l’ha visto? con Donatella Raffai e poi Bar condicio e Rosso di sera. Tre legislature fra Senato e Camera con Forza Italia e Pdl. Ha presieduto la commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin. Famoso per le sue irresistibili imitazioni: telefonò a Renzo Arbore durante una puntata di Quelli della notte spacciandosi per Sandro Pertini, senza che il presentatore si avvedesse della burla. È padre degli attori e comici Caterina, Corrado, Sabina, avuti dalla prima moglie.

È diventato Guzzanti alla Repubblica, c’è poco da fare. Lui stesso racconta che essere ammesso a lavorare nel giornale del futuro confessore di Papa Francesco fu una delle esperienze più esaltanti della sua vita. Il roveto ardente s’accese a mezzanotte di un imprecisato giorno del 1975. Guzzanti, che allora lavorava al Giornale della Calabria, aveva saputo che il Mosè del giornalismo stava per scendere dal Monte Sinai con un nuovo quotidiano nazionale scolpito nella pietra. Nel cambio di data squillò il telefono: era Lui, Eugenio Scalfari, il Vice Jahweh, che gli annunciava con tono solenne l’assunzione alla Repubblica, il giornale degli eletti.

Trasfigurato, Guzzanti ingurgitò pane, salame, peperoncino e s’infilò nella vecchia Lancia Fulvia del padre, non prima d’essersi comprato una bottiglia di whisky che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto tenerlo sveglio. Si mise al volante e corse per tutta la notte, una sgroppata dall’Aspromonte alla capitale, per farsi trovare alle 5 in piazza Indipendenza, dove allora c’era la sede della Repubblica, che sarebbe uscita nelle edicole il 14 gennaio 1976.

Il roscio – dal colore dei capelli e della barba – ha voluto un gran bene a Scalfari e credo che gliene voglia ancora, anche dopo la scomunica. Altrettanto ne ha ricevuto. Mi ha raccontato che, quando manifestò la sua intenzione di lasciare La Repubblica per La Stampa, il Fondatore si sdraiò per terra, davanti alla porta del proprio ufficio, e gli disse: «Se te ne vuoi andare, devi passare sul mio corpo». Lamentazione seguita dall’anatema di prammatica non appena capì che il reprobo faceva sul serio: «Stai per entrare nel cono d’ombra del giornalismo italiano».

Ricordo che anche Ostellino voleva Guzzanti a tutti i costi. Era impossibile per chiunque non innamorarsi delle paginate che scriveva sulla Repubblica. L’accordo sembrava ormai fatto, se ne parlava anche sui giornali, ma al Corriere non arrivò mai e non s’è mai saputo perché.

Alla Stampa si conquistò la fiducia di Francesco Cossiga e ne divenne il cantore, quasi un portavoce parallelo che rese d’improvviso superflua la presenza degli addetti stampa del Quirinale. Le gesta del Picconatore, narrate con accenti epici e ogni giorno sempre più emozionanti, resero Guzzanti molto popolare.

Dopodiché, decise di traslocare al Giornale come vicedirettore e si fece candidare alle elezioni da Forza Italia. Commettendo, secondo me, un errore gravissimo, perché da quel momento non è più stato un giornalista ma non è mai riuscito a diventare un vero politico. E, finita l’esperienza parlamentare, non è stato capace di ritornare a essere ciò che era stato un tempo. La sua parabola discendente dovrebbe suonare di monito per tutti quei miei colleghi che a un certo punto si lasciano sedurre dalle sirene del Palazzo e vi entrano non più come cronisti, ma come schiacciabottoni per il voto a comando in aula, smarrendo completamente la loro personalità.

È chiaro che Guzzanti è ancora in grado di scrivere, mica ha disimparato. Però non ci mette più quell’impegno e quella passione che ci metteva un tempo. I suoi pezzi non hanno più quel fascino, quella partecipazione che è tipica di chi fa un solo mestiere e vi si dedica anima e corpo. Da allora, purtroppo, non l’ho più visto riconquistare la ribalta come avrebbe meritato.

Non voglio nemmeno soffermarmi sulle posizioni contraddittorie che Guzzanti ha assunto in seguito, prima uscendo dal Pdl per confluire nel Pli e aderire al Gruppo misto, e poi ritornando all’ovile. Mi riferisco alla sanguinosa disfida con Mara Carfagna – da lui definita «calendarista alle Pari opportunità» – circa i motivi per cui a suo avviso Berlusconi le aveva assegnato l’incarico ministeriale; agli attacchi al Cavaliere («è amico di Putin, mi fa vomitare»); ai libri che ha scritto per dipingere l’allora premier come un puttaniere e un lenone (Guzzanti vs Berlusconi, Mignottocrazia, La sera andavamo a ministre).

Ha ritrovato un residuo sprazzo dell’antica notorie tà solo quando ha presieduto la commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin, che indagava sull’attività spionistica svolta dal Kgb in Italia fino al 1984. Ma scoperchiare il pentolone, mettendo in piazza i nomi dei collaboratori italiani dei sovietici, i finanziamenti illegali giunti da Mosca al Pci e persino l’ubicazione delle stazioni radio e dei depositi clandestini di armi che dovevano servire a far diventare l’Italia una provincia dell’Urss, è stato vano. I suoi avversari hanno avuto buon gioco – tanto parevano incredibili le malefatte denunciate – nel metterlo in ridicolo, nel dipingerlo come un cacciatore di farfalle. Una tecnica molto usata dalla sinistra per sputtanare quelli passati dall’altra parte della barricata. E Guzzanti, che cominciò scrivendo sull’Avanti!, un tempo era di sinistra. Gli spretati, si sa, vengono dileggiati in modo crudele dai vecchi compagni.

Adesso Guzzanti non riesce più a essere Guzzanti. È solo un distinto intellettuale che si è contaminato con la politica. Quando qualcuno polemizza con lui, non capisci mai se polemizza con il politico o con il giornalista. È venuto meno alla più scontata delle regole: offellee fa’ el tò mesté. E questo gli abbassa di molto il voto. Voto: 6½