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BAGET BOZZO Gianni (Savona, 1925 - Genova, 2009). Sacerdote, teologo, politico, giornalista e scrittore. Al liceo ebbe per insegnante don Giuseppe Siri, che in seguito divenne suo arcivescovo e lo ordinò prete nel 1967, a 42 anni. Primo amore per Giuseppe Dossetti, capo della sinistra democristiana, poi per Alcide De Gasperi. Nel 1978, durante il sequestro Moro, conobbe Bettino Craxi. Diventò europarlamentare del Psi e fu sospeso a divinis dal cardinale Siri. Nel 1994 partecipò alla fondazione di Forza Italia e ne stese la Carta dei valori.

La madre era una ragazza catalana che lo partorì da nubile, gli diede il proprio cognome, Baget, e morì quando lui aveva appena 5 anni. L’altro cognome lo prese dagli zii Bozzo, che l’avevano adottato.

Abbiamo avuto un lungo rapporto di amicizia. Scriveva sulla Repubblica. Mi telefonò offrendosi di passare all’Indipendente. Lo presi al volo. E me lo portai anche al Giornale quando ne divenni direttore.

Aveva una scrittura un po’ asfittica. Ma era un vulcano d’idee e dimostrava un’intelligenza decisamente superiore alla media. Ogni tanto si faceva prendere da esaltazioni un po’ infantili, come apparve chiaro quando Silvio Berlusconi, nel decimo anniversario della fondazione di Forza Italia, lesse un articolo di don Gianni nel quale egli attribuiva allo Spirito Santo la discesa in campo del Cavaliere.

Di questo candore approfittò mio figlio Mattia, che nel 2000, in pieno Giubileo, riuscì a fargli ammettere, in un’intervista apparsa sul Foglio, d’aver provato nella sua vita «casti sentimenti omoerotici» e di credere che «l’omosessualità possa essere un fatto cristiano», non un impedimento alla santità.

Quando mi chiamava, era capace di tenermi al telefono una mezz’ora. Al termine non ci avevo capito un cazzo però gli dicevo sempre di sì, perché pochi potevano vantare un fiuto politico più fine del suo. Voto: 7

BAGNASCO Angelo (Pontevico, Brescia, 1943). Arcivescovo metropolita di Genova, nominato nel 2007 da Benedetto XVI presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana), confermato nell’incarico nel 2012. Ordinato sacerdote nel 1966 e vescovo nel 1998. Nominato presidente del consiglio di amministrazione di Avvenire nel 2001. È stato arcivescovo ordinario militare per l’Italia.

Non sono iscritto al suo club. Ho trovato improprio che, da presidente della Cei, si sia avventurato a censurare, sia pure con velate allusioni, le vicende di letto riguardanti l’allora premier Silvio Berlusconi. Si vede che in materia la penso come il pontefice venuto dopo Benedetto XVI: «Chi sono io per giudicare?» O forse è Papa Bergoglio che la pensa come me.

Un pastore d’anime è un pastore d’anime e ciò che dice in materia sessuale è sempre e comunque scontato. Aspettarsi qualcosa di diverso da lui sarebbe da ingenui. Nessuno stupore perciò quando sua eminenza ha affermato che di fronte a certi episodi – le “cene eleganti” di Arcore – la collettività rimane sgomenta e che l’immagine dell’Italia ne risulta danneggiata. Non sarò certo io ad accusare Bagnasco d’aver interferito illegittimamente nella vita pubblica. Il presidente della Cei ha tutto il diritto, come qualunque cittadino, di esprimere il proprio pensiero su qualunque vicenda, anche politica. L’opinione della Chiesa e delle sue gerarchie va accolta con rispetto. Ma non è obbligatorio condividerla.

Semmai rilevo un’incoerenza: i vescovi, molto solleciti e rigorosi nel censurare le trasgressioni di un laico che all’epoca era investito di responsabilità nel governo dell’Italia, appaiono sempre molto flemmatici e cauti nel giudicare quelle di parecchi sacerdoti. Abituati a occuparsi di pagliuzze e travi negli occhi altrui, devono aver perso di vista il diametro della loro coda di paglia.

Nel gennaio 2010, a pochi mesi dalla conclusione della nota vicenda Boffo, il porporato ha voluto attribuirmi, sempre con il suo linguaggio curiale e traslato, «il male che anche di recente è stato fatto, male grande, per distruggere», ricordando che «davanti a Dio andiamo tutti e ognuno dovrà rispondere di sé». In buona sostanza mi ha dato una specie di foglio di via con destinazione inferno. Non me la sono presa. Però mi ha stupito un fatto: perché se il «male grande» poggiava su elementi inesistenti non ha fatto scudo con il proprio corpo all’innocente direttore di Avvenire, che è pur sempre il quotidiano della Cei presieduta da Bagnasco? Perché l’editore di rosso vestito ha invece prontamente accettato le dimissioni di Dino Boffo? Poteva respingerle e riconfermargli la sua fiducia. Misteri della fede.

Forse il presidente dei vescovi non si rende conto che con il suo atteggiamento pilatesco ha contribuito ad azionare qualche levetta della cosiddetta “macchina del fango”. Come pastore d’anime dev’essere proprio scarso se lascia finire nel fosso quelle più vicine a sé. In ogni caso gli auguro di salvare almeno la sua, di anima. Voto: 4

BARON Renato (Schio, Vicenza, 1932-2004). Perito industriale. Impiegato al casello di Piovene Rocchette dell’autostrada A31, andò in pensione nel 1989. Più volte consigliere nel Comune di Schio, dove fu anche assessore ai Lavori pubblici e segretario di sezione della Dc. Veggente.

Può un segretario democristiano vedere la Madonna? Sì, ma deve mettere in conto la protesta del Pci, colto in contropiede dall’evento soprannaturale che potrebbe avere ricadute assai terrene nell’urna. Neanche la fervida fantasia di Giovannino Guareschi, l’inventore di don Camillo e Peppone, sarebbe riuscita a partorire una storia come quella che negli anni Ottanta ebbe per protagonista Renato Baron. A me toccò seguirla per il Corriere della Sera, quindi l’ho ancora ben presente. A quell’epoca la difficoltà maggiore, per un inviato speciale, era la trasmissione del pezzo al giornale. Non c’erano né i cellulari, né i computer, né la posta elettronica. Ci si arrangiava con l’Olivetti Lettera 22 e poi si dettava al telefono. In mancanza di gettoni, spesso i baristi ti mettevano a disposizione la linea di casa loro. Non era come oggi che, se vedono arrivare un giornalista, nascondono l’argenteria. Ecco dunque la storia uscita da un bar di Schio.

Il pio casellante sostiene che il 25 marzo 1985 la Vergine gli è apparsa nella chiesetta di San Martino, la più antica del luogo, affidata alle sue cure di custode fin da quando era studente. Gli eventi celesti si susseguono. Torme di fedeli accorrono. Vado anch’io. E scopro che, prima di annunciare urbi et orbi il fenomeno nel quale si trova suo malgrado coinvolto, il confidente della Madre di Dio s’è fatto ricoverare nel locale ospedale per una visita specialistica, volta ad accertare che non vi fosse qualche filo staccato nella sua testa. Avuto responso negativo dal primario, Baron si decide a parlare, sicuro che nessuno potrà dargli del matto.

E invece l’onorevole Ermenegildo Palmieri, un operaio eletto deputato del Pci nella circoscrizione di Verona, Vicenza, Padova e Rovigo, presenta un’interpellanza urgente al ministro della Sanità, il democristiano Costante Degan, chiedendo di sapere se l’Ulss di Schio sia abilitata a compiere accertamenti diagnostici di tale delicatezza. Le comiche di Ridolini.

Nel 1987 nasce il Movimento mariano Regina dell’Amore, ispirato alle visioni di Baron. Torno a Schio. La moglie, Margherita Menin, sposata con lui da 25 anni, cerca di sviarmi: «È fuori. Si rivolga agli incaricati dei rapporti con i giornali». Il veggente ha un ufficio stampa? Da non credere.

Uno dei press agent è Gianfranco Basso. Mi accoglie nella sua casa di Valdagno. Persona cortese, sulla cinquantina. Ha una laurea in economia, è consulente della Marzotto e studente di teologia. «Vorremmo che fosse nota la volontà della Mamma, ma non gradiamo prese in giro», attacca. La mamma? Quale mamma? «La Madonna. Noi la chiamiamo così. Ero cristiano per educazione, andavo a messa la domenica e basta. A un tratto, mi no’ so, gh’ho sentìo un’attrassion forte par quel benedeto omo, Baron, e sono andato nella chiesetta di San Martino. Da allora vivo per lui e per la Mamma». Interviene l’altro addetto stampa, Dino Fadigato, titolare di un’agenzia d’assicurazioni: «Ero scettico. Ho ficcato il naso e ora non lo sono più».

I due mi riportano a casa Baron, in collina. Il veggente democristiano mi riceve in salotto. È seduto sul divano, davanti a un quadro dell’Assunta: «L’ha dipinta un mio amico, ma non è bella quanto Lei». Dapprincipio appare reticente. Poi si scioglie in un eloquio torrentizio: «La voce è mia, ma i concetti sono di Maria. Io sono soltanto lo strumento che trascrive i suoi messaggi. Mi appare un paio di volte la settimana e mi detta delle raccomandazioni per i cristiani. Vuol sapere la più recente? “Donatevi con fiducia ed entusiasmo all’opera di conversione”».

Baron mi racconta di come sono cominciate le apparizioni: «Recitavo il rosario inginocchiato davanti alla Regina dell’Amore. All’improvviso una luce accecante, uno stordimento. La statua s’è animata e mi ha parlato. Il miracolo s’è ripetuto più volte e io mi sono persuaso lentamente che non erano allucinazioni». In realtà a me pare in preda all’autosuggestione, come tutti coloro che entrano nella parte e, per essere coerenti con i loro sogni, si costruiscono una seconda personalità. Parla con voce ispirata e gli occhi spesso sono rivolti verso il soffitto. È noto che la Madonna sta lassù, in alto.

Poi Basso e Fadigato mi conducono fino alla via crucis nei pressi del santuario: «Venga, venga, tocchi, non abbia timore. Senta il profumo... Lo sente?» Sfioro con il naso il legno della seconda stazione: un odore di fiori dolciastro, violento. «Non penserà mica che lo si metta noi con la bomboletta, vero?» Decine di mani sfiorano il palo aromatico.

Tre anni dopo toccherà al giudice istruttore Massimo Gerace smontare una storia alla quale, fin dall’inizio, neppure il vescovo di Vicenza, Pietro Nonis, aveva mai creduto: 36 rinviati a giudizio per abuso della credulità popolare. Fra loro, Caterina Nardon, 72 anni, sospettata d’aver vaporizzato nell’aria nuvole di Paris, eau de toilette di Yves Saint Laurent. Ecco da dove veniva il profumo. Voto: 4

BARTALI Gino (Ponte a Ema, Firenze, 1914-2000). Campione di ciclismo. Formidabile scalatore, rivaleggiò sempre con Fausto Coppi, tanto da dividere l’Italia in due partiti. In vent’anni (1934-1954) partecipò a 836 corse e ne vinse 186. Si aggiudicò tre volte il Giro d’Italia (1936, 1937, 1946), due volte il Tour de France (1938, 1948) e quattro volte la Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950).

Lo conobbi al Giro d’Italia del 1989, vinto dal francese Laurent Fignon. Non ricordo più durante quale tappa, io, l’altro inviato del Corriere della Sera, Gianfranco Josti, e l’autista ci fermammo davanti a un ristorante. Stavamo entrando per pranzarvi quando un frastuono della madonna ci costrinse a voltarci indietro: una Golf stava piombando su di noi a tutta velocità. Frenatona finale un attimo prima che ci scansassimo. Dall’utilitaria scese Bartali.

Fu contento che lo invitassimo al nostro tavolo. Era un parlatore accanito, capace di risistemare la scena di qualsiasi avvenimento a modo suo, fedele all’antico motto: «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Un fiume in piena: salite, volatone, vittorie sul filo di lana. «E ti ricordi di quella volta che...» «E ti ricordi di quel giorno in cui...» Io non potevo ricordarmi un cazzo, perché del ciclismo non me n’era mai fregato nulla. Ma decisi di non arrecargli un ulteriore dispiacere informandolo che, avendo dovuto in gioventù iscrivermi come tutti i ragazzini italiani a uno dei due partiti, ero diventato coppiano anziché bartaliano.

Il grande corridore aveva già 75 anni ma era ancora lucidissimo e dimostrava una fame da adolescente. Bruciò una portata dopo l’altra, come una stufa a pellet. Ordinò anche una bottiglia di Barbera, che si scolò da solo, con l’avvertenza finale di lasciarne due dita sul fondo per ragioni di urbanità.

Conclusa la strippata, salutò, s’infilò di nuovo nella sua Golf e schizzò via. Seguiva le tappe del Giro così, da solo, guidando la propria macchinina fino al traguardo. Noi con l’ammiraglia del Corriere, una Fiat Croma, non riuscimmo a tenergli dietro. Sempre andato di fretta, il Ginettaccio. Voto: 9

BATTISTA Pierluigi (Roma, 1955). Giornalista, scrittore e conduttore televisivo. Ha cominciato collaborando a Mondoperaio, Pagina e L’Espresso. Ha lavorato a Epoca e Storia Illustrata. È stato capo della redazione romana della Stampa e vicedirettore di Panorama e del Corriere della Sera, dov’è attualmente editorialista. Ha condotto Batti e ribatti su Rai 1 e Altra storia su La7.

Nel 1995, durante la mia prima direzione al Giornale, voleva lasciare La Stampa per venire a lavorare con me. A segnalarmelo era stato Paolo Mieli. Anziché parlare nel mio ufficio, discutemmo dell’ingaggio giù in strada, passeggiando avanti e indrè per via Gaetano Negri, da piazza Affari a via Santa Maria Segreta, come due peripatetiche. Avrebbe desiderato la nomina a vicedirettore e la responsabilità della redazione di Roma, dove viveva. Ma io nella capitale un capo di grandissimo valore, Andrea Pucci, ce l’avevo già. Quindi gli offrii un posto da inviato speciale, che non accettò. L’anno seguente si trasferì a Panorama come vice di Giuliano Ferrara.

Nel 2010, dalle pagine del Corriere della Sera, dov’è tuttora editorialista, mi ha rimproverato «l’ostentazione per ben due volte della parola “negro”» in un titolo di prima pagina del Giornale, «una spavalderia futilmente offensiva». Secondo lui avrei dovuto scriverla senza la “g”. Mi è toccato replicargli che l’avevo fatto apposta per verificare le reazioni di quelli che rispettano i negri a parole – «venite, venite, siamo vostri amici, vi ospitiamo volentieri» – ma non muovono un dito se poi gli immigrati sono ridotti in schiavitù, sottopagati, maltrattati e costretti a vivere come insetti. Ciò che sospettavo potesse avvenire era puntualmente avvenuto: i commentatori si erano attaccati al vocabolo presuntivamente offensivo e non avevano fiatato sui disordini di Rosarno, che non erano da attribuirsi ai clandestini bensì a chi li aveva chiamati qui per sfruttarli nella raccolta dei pomodori e degli agrumi. Senza contare che Manlio e Michele Cortelazzo, curatori del Dizionario etimologico della lingua italiana edito dalla Zanichelli, fanno notare che il termine “negro” «è stato proscritto, come denigratorio, ma senza un obiettivo fondamento». E che dire di Cesare Pavese, che nel suo La luna e i falò scriveva: «La confusione e il baccano della piazza avrebbero mimetizzato anche un negro»? Uno sporco reazionario anche lui?

Battista, piaccia o non piaccia, è una delle firme più seguite e un commentatore equilibrato. Ma ha questo difetto di fabbrica: è rimasto schiavo degli stilemi della sinistra. Càpita quando il Sessantotto ti coglie adolescente al liceo Mamiani di Roma, dove furono allevati gli Eugenio Scalfari e i Marco Lombardo Radice, e t’intruppa in un gruppuscolo chiamato Unità operaia marxista-leninista.

Quando leggo Battista, tra le righe colgo sempre che nutre ancora una forte diffidenza per tutto ciò che non è di derivazione progressista. Teme l’opinione degli ex compagni, fatica a liberarsi dei pregiudizi. Ciò mi costringe ad abbassargli il punteggio. Voto: 6½

BELPIETRO Maurizio (Castenedolo, Brescia, 1958). Giornalista e conduttore televisivo. Ha esordito nel 1975 come collaboratore a Brescia Oggi, occupandosi di sindacato, per poi passare a Bergamo Oggi, dove ha incrociato i suoi destini professionali con quelli di Vittorio Feltri, nominato direttore del quotidiano orobico nel 1983. Ha seguito Feltri all’Europeo come caporedattore centrale e all’Indipendente e al Giornale come vicedirettore. Ha diretto Il Tempo (1996-1997) e, dopo una breve parentesi come vicedirettore al Quotidiano Nazionale, è diventato direttore del Giornale (2001-2007). Ha diretto Panorama dal 2007, dimettendosi nel 2009 per assumere la direzione di Libero. Presente dal 2004 sulle reti Mediaset come conduttore (L’antipatico, Panorama del giorno e La telefonata).

È diventato un animale televisivo, fra i più ricercati dai talk show. Documentato, tignoso, compassato. Non si scompone mai e non si lascia intimidire da nessuno. Finché non ha esposto tutte le argomentazioni che ha in testa, non demorde. Un avversario fra i più temibili per i suoi contraddittori. Il profilo camuso da guerriero troiano e il ghigno beffardo con cui li affronta rafforzano la sua allure da primo della classe. Ha un unico, grave torto: è un cane sciolto, non si è mai affezionato ad alcun partito né, forse, ad alcuna persona che non sia lui medesimo.

Era esattamente così anche quando lo conobbi, nel 1983. Aveva 25 anni. Me lo trovai praticante, però già capo dell’economia, a Bergamo Oggi, dov’ero stato nominato direttore. Precisino, diffidente, sempre con quel sorrisetto sarcastico sulle labbra. All’inizio mi stava un po’ sui coglioni, ma era talmente bravo come uomo-macchina che gli delegai la fattura del giornale.

A volte ho l’impressione che questa sua irrefrenabile brama di video sia eccessiva e possa nuocere al suo impegno come direttore di Libero. Ha cominciato con L’antipatico condotto prima su Canale 5 e poi su Rete 4. Dal 2007 si materializza ogni mattina sempre su Canale 5, dal lunedì al venerdì, con La telefonata. La sera dilaga sulle altre reti come ospite. Non c’è salotto dove non sia stato invitato: Porta a porta, Ballarò, Matrix, Annozero, Servizio pubblico, Otto e mezzo, In onda, Piazza pulita, L’ultima parola. Non parliamo delle interviste rilasciate ai tiggì. Va dappertutto, persino a Rai News 24, che non viene vista nemmeno da chi ci lavora. È più presente del segnale orario. Ma come fa? Capisco che viva per la professione e conosco bene la sua smisurata capacità di resistere alla fatica. Però temo che alla lunga questa ubiquità vada a detrimento della sua missione originaria, che è quella del facitore di giornali. Sarebbe una perdita.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere, naturalmente, con il nostro ultimo divorzio, maturato nel giugno 2011 dopo neanche sei mesi di convivenza sotto lo stesso tetto a Libero (peraltro non era neppure la prima volta che ci capitava di rompere i piatti in casa: Belpietro nel 1996 aveva piantato in asso me al Giornale per andare a dirigere Il Tempo). Lì hanno giocato soprattutto problemi societari che necessitano di un passo indietro per poter essere spiegati.

Quando nell’agosto 2009 lasciai Libero per un nuovo mandato da direttore del Giornale, gli Angelucci, editori del quotidiano che avevo fondato nove anni prima, cominciarono fin dal mese successivo un amorevole pressing per farmi tornare sui miei passi, offrendomi il 10 per cento del pacchetto azionario. Rifiutai.

L’anno seguente gli Angelucci ripresero l’assedio: 10 per cento di Libero a me e 10 per cento a Belpietro purché ci mettessimo insieme. Accettai. Subito un intermediario molto vicino alla famiglia Berlusconi mi chiese: «Possiamo trattare su questa base del 10 per cento?» In pratica mi veniva offerta la stessa quota nel Giornale purché non me ne andassi per la seconda volta. Ma io avevo già dato la mia parola agli Angelucci. E comunque ero talmente avvilito per la sospensione di tre mesi inflittami dall’Ordine dei giornalisti in seguito alla vicenda Boffo che avvertivo come preminente il bisogno di allontanarmi anche fisicamente dal luogo dov’ero costretto a stare con le mani in mano. Insomma, l’idea di cimentarmi come direttore-editore a Libero, in coppia con Belpietro, mi allettava.

Ma l’alchimia non ha funzionato. A parte che quel 10 per cento rientrava nella retribuzione, pensavo che i conti di Libero fossero come li avevo lasciati un anno e mezzo prima: in ordine. Invece ho scoperto che, complice la crisi economica, erano parecchio dissestati. A quel punto avrei dovuto ripianare di tasca mia i debiti di una gestione che non mi sembrava affatto brillante. Sto parlando di qualche milione di euro, mica bruscolini. Così ho chiamato l’avvocato Alessandro Munari e gli ho chiesto di trattare con gli Angelucci per sciogliere il contratto che mi legava a loro per un decennio, restituendo il mio 10 per cento di azioni.

Non posso dire che la convivenza con Belpietro sia stata difficile, anzi. Non abbiamo mai litigato, nonostante due galli nello stesso pollaio rischino tutti i giorni di darsi qualche beccata. Diciamo però che ci siamo trovati nelle condizioni di due gentiluomini i quali, davanti a una porta aperta, fanno a gara su chi debba entrare per primo, «prego, passi pure», «ci mancherebbe altro, dopo di lei», e intanto viene notte. D’altronde un’auto non si può guidare in due, perché ha un volante solo e a bordo riesce difficile spartirsi i ruoli: chi tiene il volante e chi impugna la leva del cambio? Tutti inconvenienti che mi erano ben presenti prima di accettare l’offerta degli Angelucci e che pensavo comunque di superare in virtù dei rapporti più che civili, amichevoli, intrattenuti con Belpietro nel passato.

Ecco, a proposito di passato, se c’è una cosa che devo rimproverare a Maurizio è proprio questa: Libero appare un po’ démodé. Nel mondo tutto cambia in fretta. Internet, gli smartphone e i social network come Twitter hanno impresso alla comunicazione globale un’accelerazione impressionante. In questa situazione un giornale deve sapersi rinnovare, offrendo ogni giorno qualcosa di fresco. Invece Libero è rimasto sostanzialmente ancorato, anche nel vestito esteriore, al modello che gli avevo dato io. È invecchiato. Non vuol essere una critica, ma una semplice constatazione. A dirla tutta, non sono neppure convinto che oggidì i quotidiani, svecchiandosi, possano riuscire a riprendersi dal morbo fatale che li affligge. Perseverare sulla vecchia strada, comunque, non li aiuta, perché è un viale di cipressi che conduce al cimitero.

Il guaio è che i giornalisti si ritengono sempre più furbi del lettore medio. Siamo convinti di essere noialtri a dare le carte. Colleghi, sveglia! Qui non c’è più neanche il mazzo in tavola. Esempio: continuiamo a dedicare le prime otto-dieci pagine dei quotidiani alla politica, cioè all’argomento che più di ogni altro ha annoiato e disgustato il pubblico. Per di più siamo al servizio di editori miopi, che pensano a tutto fuorché a fare sul serio gli editori e che tengono la politica nella massima considerazione sicuri di poterci ricavare qualche vantaggio, sull’esempio dell’imprenditore genovese Rinaldo Piaggio, quello degli aerei da combattimento e della Vespa, che teorizzava: «A chi possiede un giornale in realtà ne servono al massimo tre copie: una per sé, una per la moglie, se ce l’ha, e una, quella più importante, da mandare a Roma». Solo che ci siamo dimenticati che Piaggio è morto nel 1938 e Roma nel frattempo è diventata una fogna.

Ma come possiamo pensare di salvare i giornali riempiendoli ogni giorno di cronache dal Palazzo, con tre articolesse per pagina che parlano tutte dello stesso fatto? Dovremmo invece seguire la vita reale, aiutare la gente a orientarsi nelle difficoltà, saper cogliere nella cronaca – oggi trascurata – quei fenomeni di costume emergenti e quei personaggi sconosciuti che hanno qualcosa da dire e da insegnare.

Comunque Belpietro sa tener botta come pochi altri. Vedo che, nonostante gli impegni televisivi, riesce ancora a scrivere l’articolo di fondo tutti i giorni, confermandosi un instancabile stacanovista. Voto: 7

BELTRAMI Ottorino (Pisa, 1917 - Milano, 2013). Manager. Ufficiale della Regia marina, partecipò alla seconda guerra mondiale su diversi cacciatorpediniere e infine sui sottomarini Toti, Ametista e Acciaio. Di quest’ultimo fu comandante. Perse una gamba in un bombardamento. Dopo il congedo, lavorò per Adriano Olivetti e per vari grandi gruppi industriali a partecipazione statale, fra cui Finmeccanica, Stet e Sip. Fu presidente di Assolombarda e della Fondazione Cariplo.

Mai conosciuto un uomo più in gamba di lui, nonostante uno dei due arti inferiori gli fosse stato amputato dal generale medico Raffaele Paolucci, l’eroe che nel 1918 aveva partecipato all’azione di Pola e all’affondamento della corazzata austriaca Viribus Unitis. Dopo il liceo classico e l’Accademia navale di Livorno, Beltrami aveva cominciato la sua straordinaria carriera in mare prima come ufficiale sulle navi da combattimento e poi sui sommergibili. Raccontava di come il rumore del sonar contro lo scafo terrorizzasse i suoi marinai. La grave menomazione subita fu il frutto del suo ardimento nello sfidare la flotta inglese nel Mediterraneo. Mentre era ricoverato all’ospedale di Cagliari con la bruttissima ferita alla gamba sinistra, confidò all’ammiraglio Antonio Legnani le sue preoccupazioni per la vita che lo attendeva dopo l’amputazione e ne fu così rincuorato: «Ma cosa vuoi che sia? Con tante teste di legno che ci sono in giro, ci sarà senz’altro posto anche per una gamba di legno».

E infatti per Beltrami, decorato con quattro medaglie al valor militare, quello fu solo l’inizio di una brillantissima carriera. Una volta congedatosi, si laureò alla Normale di Pisa, università che non è certamente la Scuola Radio Elettra. Finì subito alla corte di Adriano Olivetti, quello delle macchine per scrivere, divenendone segretario e braccio destro. Il visionario imprenditore di Ivrea gli offrì di seguire la ricostruzione dei porti nell’ambito dell’European recovery program, più noto come piano Marshall. In pochi anni Beltrami diventò uno dei massimi esperti italiani di logistica. Nel 1962 gli venne affidata la divisione elettronica Olivetti e nel 1964 fu nominato direttore generale della Olivetti general electric.

Nel 1970 Beltrami lasciò l’Olivetti per la Finmeccanica, ma da lì, dopo una breve esperienza come direttore generale, tornò nell’azienda di Ivrea, dove rimase in veste di amministratore delegato fino al 1978, quando la Olivetti fu rilevata da Carlo De Benedetti.

La sua scalata non era ancora finita. Dal 1980 al 1984 fu vicepresidente della Stet e numero uno della Sip, l’antenata della Telecom, che sotto la sua guida arrivò a 77.000 dipendenti e incrementò del 36 per cento il numero degli abbonati al telefono. Assunse poi le presidenze della Confindustria lombarda e della Fondazione Cariplo. Fu nominato cavaliere del lavoro dal presidente della Repubblica. Uomo di finissima sensibilità culturale, si occupò anche dell’Accademia di Brera e della Fondazione teatro alla Scala.

A Milano abitavamo nello stesso palazzo, in piazza Duse. Fino ai 90 anni l’ammiraglio sortì di casa ogni mattina sicuro sulle proprie gambe, benché una fosse di legno. Poi le difficoltà deambulatorie dovute alla mutilazione ebbero il sopravvento. Negli ultimi tempi usciva raramente dal suo appartamento. Lucido, gli occhi scintillanti, era di una cordialità pari alla raffinata educazione. La sua virtù più apprezzabile consisteva nel non parlare mai di sé. S’interessava solo del prossimo, un modo gentile per seguitare a vivere attraverso gli altri, amorevolmente accudito dalla moglie Maria.

S’è congedato da questo mondo con un austero funerale celebrato nella chiesa evangelica metodista di via Porro Lambertenghi. I tanti che ebbero modo di lavorare con lui o anche solo di conoscerlo lo ricordano come uomo tutto d’un pezzo, leale, competente, schietto. Non è transitato invano su questa terra. Voto: 9

BENEDETTO XVI al secolo Joseph Aloisius Ratzinger (Marktl am Inn, Germania, 1927). Papa emerito. Vescovo di Roma e 265º pontefice della Chiesa cattolica dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013. Teologo e scrittore. Ordinato sacerdote nel 1951. Ha partecipato come esperto al Concilio Vaticano II. Nominato da Paolo VI arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga, ha ricevuto l’ordinazione episcopale nel 1977. Cardinale dallo stesso anno, è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (1981-2005).

Una figura che mi piaceva. Il suo accento tedesco era musica per le mie orecchie. Peccato non sentirlo più, ora che è Papa emerito.

L’hanno sempre descritto come un finissimo teologo, tutto libri e meditazione, anziché come un pastore d’anime. Io, per la verità, non sono mai riuscito a capire per quale motivo la Chiesa avrebbe avuto bisogno di un grande teologo. È già tutto nei Vangeli, scritti con parole semplici proprio per poter essere intesi dai semplici. E raccolti, fra l’altro, da quattro discepoli che avevano qualche difficoltà a comprendersi fra di loro. Giovanni era un povero pescatore. Marco faceva il galoppino per Pietro, pure lui un ex pescatore. Matteo lavorava all’Agenzia delle entrate di quel tempo, un esattore di tasse per conto di Roma (la capitale tributaria, come si vede, non è cambiata). L’unico un po’ istruito era Luca, un medico.

Quanto a Gesù, non aveva neppure il diploma di ragioniere. Ora, io posso ammettere che ci sia bisogno di un decifratore, di uno che conosca la storia, per penetrare i misteri della Bibbia, tanto sono fitti. Fra l’altro, non è che la Chiesa cattolica abbia mai avuto molto a cuore la propagazione della conoscenza del testo sacro per eccellenza, tant’è che fino al Cinquecento le varie traduzioni delle Scritture nelle lingue volgari, dall’italiano allo spagnolo, figuravano tutte nell’Indice dei libri proibiti e si dovette aspettare fino al Settecento perché un papa, un altro Benedetto, XIV mi pare, abolisse il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino.

Ma il Vangelo? Quello lo capisce anche un bambino. È il racconto più lineare che esista al mondo. È a prova d’imbecille. Perché Gesù mica era criptico, parlava chiaro. Anzi, proprio per il timore di non essere ben compreso dal popolino, ricorreva agli esempi e alle similitudini, le parabole, termine che etimologicamente deriva da paragone.

Ecco, a me sfugge perché la Chiesa avesse necessità di un grande teologo per spiegare ciò che era già chiarissimo da due millenni. Ma ho molto apprezzato che questo valentuomo abbia deciso, schiacciato dal peso degli anni e della sua santità, di rinunciare al soglio di Pietro, dando prova – lui che passava per retrivo – di una modernità che mi ha sbalordito. Voto: 8

BERLINGUER Enrico (Sassari, 1922 - Padova, 1984). Politico. Dal 1943 nel Partito comunista italiano. Deputato dal 1968, fu segretario generale del Pci dal 1972 fino alla morte. Fautore dell’eurocomunismo e del compromesso storico, che contemplava la cogestione del potere con la Dc, diede vita alla politica di unità nazionale.

L’hanno proclamato santo della Chiesa comunista, ma non s’è mai ben capito quale miracolo abbia compiuto per meritarsi d’essere elevato alla gloria degli altari rossi. L’unico che gli è stato attribuito è l’eurocomunismo, da qualcuno chiamato neurocomunismo. Ne ha sempre parlato tanto, senza mai realizzarlo. In che cosa consistesse, non si sa e probabilmente non era chiaro neppure a lui. In Europa, grazie al cielo, i comunisti erano spariti da tempo. Quindi lanciare l’eurocomunismo in assenza degli eurocomunisti appariva una velleità fuori dal mondo, una visione onirica.

Riconosco che Berlinguer aveva qualche tratto di simpatia. Era provvisto di eloquio nitido e innata cortesia. Il suo comportamento austero oggidì può essere solo rimpianto. Le folle impazzivano per lui, non tanto per la tensione morale che lo innervava, quanto per i modi aristocratici, a dimostrazione che i migliori comunisti sono i ricchi. Non a caso Giorgio Forattini sulla Repubblica lo effigiò in vestaglia e pantofole, seduto in poltrona a leggere L’Unità e a sorseggiare il tè vegliato da un ritratto di Karl Marx, mentre dalla finestra giungevano nel salotto gli echi lontani delle proteste di piazza. E sempre non a caso l’opulento editore della medesima Repubblica, Carlo De Benedetti, vota per il Partito democratico erede di quello comunista.

La brutta copia del borghese Berlinguer è oggi incarnata da Gianni Cuperlo, che per conto di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani è stato l’atrofico antagonista di Matteo Renzi alle primarie 2013 del Pd. Un tipetto talmente contegnoso da dichiarare alla vigilia della consultazione che non avrebbe votato per sé stesso perché non gli sembrava elegante. Forse era più elegante non dirlo. E comunque gliel’ha mai spiegato nessuno che nel segreto della cabina Dio ti vede e Stalin no?

Come segretario del Pci, Berlinguer riuscì a battere la Democrazia cristiana soltanto da morto, seppure con uno scarto minimo: poco più di 130.000 voti. Accadde alle elezioni europee del giugno 1984, a sei giorni dal suo decesso, grazie a una furbata dei compagni sopravvissuti, che lasciarono la salma come capolista. Va considerato il primo segretario di partito morto di fatica sul lavoro, visto che gli fu fatale un comizio a Padova. Lasciarci la pelle per superare la Dc mi sembra un sacrificio eccessivo, tuttavia meritevole di un voto indulgente. Voto: 6

BERLUSCONI Marina (Milano, 1966). Imprenditrice. Figlia di Silvio Berlusconi e della sua prima moglie Carla Dall’Oglio. Entrata nell’azienda paterna giovanissima, si è occupata di gestione e dello sviluppo delle strategie economico-finanziarie di Mediaset. Vicepresidente di Fininvest dal 1996, presidente dal 2005. Dal 2003 presidente di Arnoldo Mondadori editore. Ha ricoperto ruoli in Jumpy, 21 Investimenti, Medusa film e Mediobanca.

L’ho incontrata solo un paio di volte. M’è sembrata una donna molto garbata, ammodino. Non avendo dovuto trattarci per motivi di lavoro, non saprei dare un giudizio sul suo valore professionale. Però c’è stato un piccolo episodio che me l’ha resa simpatica. Il Corriere della Sera pubblicò un’intervista che la signora aveva rilasciato a Daniele Manca, piena di osservazioni intelligenti. Mi venne perciò spontaneo inviarle due righe per complimentarmi. Lei rispose con un bigliettino in cui mi diceva che io ero la persona che stimava di più dopo suo padre.

So che come presidente della Mondadori è molto benvoluta, lo constato ogniqualvolta mi capiti di parlare con le persone impegnate al suo fianco in azienda. Il che mi fa pensare che abbia qualche difetto: di solito i capi sono odiati, non amati. Voto: 7

BERLUSCONI Paolo (Milano, 1949). Editore, immobiliarista e finanziere. È azionista di maggioranza e consigliere di amministrazione del Giornale. Nel 2011 ha rilevato il 38 per cento del Foglio in precedenza detenuto da Veronica Lario, ex moglie del fratello Silvio.

Lo incontrai la prima volta nel tardo autunno del 1993, quando Indro Montanelli stava progettando La Voce e si cominciava a immaginare un mio trasloco dall’Indipendente al Giornale. Mi portò a pranzo per scambiare quattro chiacchiere e conoscerci meglio. Da uomo di classe qual è, scelse il St. Andrews, ristorante milanese che stava all’angolo fra via della Spiga e via Sant’Andrea, frequentato da una clientela abituale in cui spiccavano Gianfranco Ferré, Gianmarco Moratti, Diego Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo, poi acquistato da Prada – a 45 milioni di lire al metro quadrato, si vociferò – per farne una boutique. Parlammo pochissimo di giornali e giornalisti.

Lo rividi ai primi di gennaio del 1994 nei suoi uffici in Foro Buonaparte. Con lui c’erano Amedeo Massari e Roberto Crespi, vicepresidente e consigliere delegato della Società europea di edizioni, che pubblica Il Giornale. I quali facevano a gara per tirare sul prezzo dell’ingaggio. Eppure mi stavano proponendo di prendere in mano una testata in coma, che vendeva meno copie del mio Indipendente. Mi ero già rimesso il cappotto per andarmene, quando Paolo Berlusconi tagliò la testa al toro: «D’accordo, 1 miliardo di lire». Parlava dello stipendio lordo annuo.

Basterebbe già questo elemento per mettere in risalto la peculiare caratteristica dell’uomo: è indubbiamente buono. Buono d’animo. Sempre gentile, sempre disponibile, anche dopo che nel dicembre 1997 mi dimisi dal Giornale in seguito alle polemiche scaturite dalla pace con Antonio Di Pietro, siglata onde evitare di dover sborsare un sacco di quattrini nelle cause per diffamazione che l’ex Pm ci aveva intentato. L’Espresso scrisse che in quell’occasione gli avrei chiesto una liquidazione da 10 miliardi di lire, uniformandomi a un’esortazione ricevuta dal mio predecessore Indro Montanelli: «Non fare come me che me ne sono andato con 75 milioni». Non solo non li chiesi, ma non li ho nemmeno presi, lo dico sconsolato.

Il mio giudizio positivo sull’imprenditore si è rafforzato nel 2011, poche settimane dopo che gli avevo voltato le spalle per la seconda volta, ritornando a Libero. C’incrociammo a un gala di beneficenza. Durante la cena venne a sedersi accanto a me e mi disse: «Quando vuoi tornare, Il Giornale è sempre casa tua». A giugno lo presi in parola.

Ecco, se c’è un editore che non mi ha mai rotto le balle – mai! – questi è Paolo Berlusconi. Ed è anche dotato di un’invidiabile autoironia, come quando ti racconta che un giorno un tizio gli chiese: «Come sta la mamma di suo fratello?» Voto: 7

BERLUSCONI Pier Silvio (Milano, 1969). Imprenditore. Figlio di Silvio Berlusconi e della sua prima moglie Carla Dall’Oglio. Dopo un training cominciato nel 1992 a Publitalia e a Italia 1, nel 1996 è diventato responsabile del coordinamento palinsesti e programmi delle reti Mediaset e nel 1999 è stato nominato vicedirettore generale dei contenuti di Rti, la società che esercita l’attività televisiva. Dal 2000 vicepresidente del gruppo Mediaset e presidente e amministratore delegato di Rti. È consigliere di amministrazione di Mediaset España comunicación, Medusa film, Arnoldo Mondadori editore, Publitalia ’80 e Mediobanca.

Avendolo incontrato una sola volta nella villa paterna di Arcore, non sono in grado di esprimere un giudizio compiuto, ma potrei assegnargli un 10 e lode – e identico voto meriterebbe la sorella Marina – per i modi educati. C’è stato tuttavia un trascurabile seguito a quell’incontro che mi ha convinto di quanto il giovanotto sia, come il padre, abile negli affari. Accadde quando, una decina d’anni fa, parlando del più e del meno con Mauro Crippa, direttore generale per l’informazione di Mediaset e consigliere di amministrazione del Giornale, gli dissi che il sogno della mia vita in fatto di automobili era la Range Rover, tant’è che nel 2013 me la sono poi comprata. «Ma lo sai che Pier Silvio Berlusconi sta vendendo la sua? È praticamente nuova. T’interessa?», mi chiese Crippa. Altroché se m’interessa, risposi. Dentro di me pensavo: verrà via per quattro lire. A quel punto mi passò al telefono Pier Silvio. Breve trattativa. Per scoprire che le lire non erano quattro, bensì otto. Così l’affare sfumò.

L’episodio avvalora quello che vado dicendo da tempo e cioè che i Berlusconi, tutti, non vendono mai niente. Poi però Pier Silvio s’è fatto perdonare regalandomi un televisore per il digitale terrestre. L’ho messo in camera da letto. Non chiedetemi la marca e il numero di pollici, o se sia attrezzato per vedere Premium, perché di queste cose non capisco un tubo, catodico o no che sia. So che funziona benone e mi concilia il sonno. Voto: 6½

BERLUSCONI Silvio (Milano, 1936). Imprenditore e politico. Ha cominciato nel settore immobiliare con Edilnord, costruendo Milano 2 e Milano 3, oltre a vari edifici nel capoluogo lombardo. Attraverso Fininvest e Mediaset ha poi allargato le sue attività ad altri settori: televisione (Canale 5, Italia 1, Rete 4), editoria (Arnoldo Mondadori editore e Il Giornale), pubblicità (Publitalia), cinema (Medusa film), grande distribuzione (Standa), sport (Milan), prodotti finanziari e assicurativi (Mediolanum). Nel 1993 ha fondato il movimento politico Forza Italia, che ha vinto le elezioni politiche del 1994. Dopo una breve esperienza di governo (maggio-dicembre 1994), ha guidato l’opposizione fino al nuovo successo elettorale del 2001 con una coalizione di centrodestra. Tornato all’opposizione dopo la sconfitta del 2006, nel 2008 si è affermato con la coalizione del Popolo della libertà, formata da Forza Italia e Alleanza nazionale e appoggiata dalla Lega Nord, e ha riottenuto l’incarico di presidente del Consiglio. Nel novembre 2011, sotto l’incalzare della grave crisi politica ed economica, ha accettato di dimettersi, dando l’appoggio ai successivi governi presieduti da Mario Monti ed Enrico Letta, ai quali in seguito ha però tolto la fiducia. Alle elezioni del 2013, nonostante i pronostici sfavorevoli, ha conseguito con il Pdl un risultato superiore a ogni aspettativa, conquistando il 29,18 per cento dei voti, contro il 29,53 del partito vincitore, il Pd. Imputato in 32 procedimenti giudiziari, la maggioranza dei quali si è conclusa con assoluzioni, archiviazioni o prescrizioni, nell’agosto 2013 ha subìto l’unica condanna definitiva in Cassazione (4 anni) per frode fiscale e altri reati.

Silvio Berlusconi è sincero solo quando mente. Se non si capisce questo, non si capisce niente di lui. È talmente convinto di quello che dice, anche se sa che non è vero, che finisce per convincere non soltanto gli altri ma persino sé stesso. Poi si dimentica, poi rimanda, poi si perde per strada. Ma intanto ti ha persuaso.

Ho cominciato a occuparmi di lui 40 anni fa. A quel tempo era imprenditore edile e stava per ultimare Milano 2, dove ebbe l’idea d’installare un impianto tv via cavo, privo di antiestetiche antenne, per le informazioni di servizio, dai turni delle farmacie agli orari dei negozi, condite con un po’ d’intrattenimento. Scelse come annunciatrice una delle sue prime fiamme, Fabrizia Carminati, affiancata da Cesare Cadeo.

Per qualche tempo l’ho mazzolato con regolarità, se non altro perché il gruppo del Corriere della Sera, per il quale lavoravo, vedeva nel Cavaliere monopolizzatore d’inserzioni e nelle sue televisioni una minaccia mortale. Scrivevo: questo Berlusconi pretende tre emittenti, pubblicità pressoché illimitata, la Mondadori, un quotidiano, vari periodici, poca roba insomma, perché non regalargli anche un paio di stazioni radiofoniche, il Bollettino dei naviganti e la Gazzetta Ufficiale, così almeno le leggi se le fa da solo sul bancone della tipografia?

Non sono mai stato un passionale. Se alla fine mi sono schierato dalla parte di Berlusconi, è unicamente per motivi razionali, perché non c’era (e non c’è) una valida alternativa al Cavaliere. Controprova: oggi che una sentenza gl’impedisce di candidarsi a premier, siamo tutti qui a chiederci che fine faranno il centrodestra e gli elettori moderati.

La prima volta che lo incontrai, nell’aprile 1993, fece da intermediario il compianto Giovanni Belingardi, che era stato mio collega al Corriere e poi passò alla Fininvest come direttore dei rapporti con la stampa. Un pranzo nella Villa San Martino di Arcore. Il Cavaliere la prese alla larga, non mi chiese niente di preciso. Soltanto verso la fine volle sapere se da parte mia vi fosse una disponibilità di massima ad assumere la direzione del Giornale. Non era un’offerta formale, solo un pourparler. Mi mostrai possibilista, ma gli feci anche notare che L’Indipendente, dove stavo, guadagnava un sacco di copie, soprattutto a spese del quotidiano di Indro Montanelli, quindi non vedevo il motivo per passare dalla direzione di una testata lanciatissima a quella di una malconcia. Non mi stette neppure ad ascoltare. Disse solo, quasi che si stesse preparando un evento ineluttabile: «Guardi, Feltri, che oggi lei siede al volante di una spider, ma Il Giornale è un’auto d’epoca la cui guida richiede attenzioni particolari». Fine della chiacchierata. Arrivederci e grazie.

Il 14 agosto Berlusconi si rifà vivo al telefono: «Direttore, è in vacanza? Dove passerà il Ferragosto?» Gli rispondo che non sono in vacanza e che l’indomani sarò a casa mia, a Ponteranica, con moglie e figli. «Che ne direbbe di venire a pranzare da me? Porti anche loro». Accetto l’invito, ma aggiungo che non me la sento di estenderlo al parentado. «Come crede. La aspetto».

Alle 13 del Ferragosto sono nella reggia di Arcore. La sala da pranzo al pianterreno dà sul giardino, curato personalmente con amore e competenza dal botanico Berlusconi. Quadri seicenteschi alle pareti. Siamo lui e io, da soli. Ci sediamo uno di fronte all’altro a metà del tavolo che a Natale ospita 34 commensali. Pranzo normale, quasi frugale. Il padrone di casa con la tuta blu d’ordinanza che indossa nel tempo libero; io in giacca e cravatta.

Stavolta Berlusconi scende dalle stelle: «Vorrei che lei venisse a lavorare per me». Formula anche la qualifica: «Direttore a disposizione». Direttore di che? Non lo sa nemmeno lui: «Dipende da come evolvono gli eventi. Direttore di Canale 5. Oppure direttore del Tg5. Intanto vorrei contrattualizzarla». Butta lì un’altra ipotesi: «Potrebbe fare provvisoriamente il condirettore di Montanelli al Giornale». Mi pare confuso. Obietto: Indro non accetterebbe mai un vice impostogli dall’editore anziché scelto da lui. Non solo: le pare che io possa mollare L’Indipendente per ridurmi a fare il secondo, sia pure di un fuoriclasse? Lui non chiarisce, non avanza cifre. Si limita a insistere: «La vorrei nella mia squadra».

Ottenebrato da quella girandola di proposte, mi rendo conto che il mio sistema vagale comincia a dare i numeri. Crampi alla pancia, sudore freddo. Incolpo l’aria condizionata a palla e cerco di tenere duro. Intanto Berlusconi continua a parlare, parlare, parlare, senza nemmeno una parentesi. Mi accorgo non solo che non riesco a infilarmi nei suoi discorsi, il che è la norma, ma che il mio corpo me lo vieta: mi sento troppo male, sto per svenire. Non capisco d’essere in preda a una colica addominale, perché non l’ho mai avuta in vita mia.

A un certo punto, sperando che non noti il mio viso madido e terreo, esalo: mi scusi, dovrei andare un attimo in bagno. Mi indica premuroso il percorso. Avviandomi a passo svelto verso la salvezza, calcolo mentalmente la distanza dalla sala da pranzo e mi consolo: saranno un 25 metri, non potrà udire nulla.

Entro. Faccio appena in tempo a slacciarmi la cintura e ad abbassarmi i pantaloni. Ora finalmente comprendo il significato di quell’aggettivo – imperiose – che i medici associano alle scariche diarroiche. Mentre mi sto sgravando, la nebbia che mi offuscava la vista si dirada e sono colto da un acuto senso di colpa. Mi viene in mente la frase che Berlusconi disse per telefono a sua madre la prima volta che mise piede a Palazzo Chigi: «Mamma, vedessi che disastro i bagni!» (dopodiché li fece rifare a sue spese). Questa di Arcore non è una toilette: è un tabernacolo! Rubinetti d’oro, ceramiche che sembrano porcellane Richard Ginori per mangiarci dentro, profusione di radica e di sughero, applique liberty a palloncino, fiori freschi. E tanti, tanti asciugamani in lino, almeno uno dei quali merita di essere messo alla prova dopo un indispensabile bidè.

Pulisco ovunque, con il terrore di lasciare in giro qualche traccia del mio vandalico passaggio, e torno rinfrancato nel salone, dissimulando nonchalance. Il Cavaliere riprende il colloquio dal punto in cui l’avevo costretto a interromperlo: «Lei oggi fatica a scrivere pezzi lunghissimi. In televisione è tutto più facile, mi creda, bastano opinioni di 20 righe. Potrebbe una buona volta tirare un pochino il fiato». Per meglio indorare la pillola, chiama Enrico Mentana sul cellulare e me lo passa. Arrivo a pensare che sia in procinto di cacciare il direttore del Tg5. Al momento del congedo, Berlusconi tira da solo le conclusioni: «In settimana la cercherà l’ingegner Spingardi, così combiniamo». Aveva fatto tutto lui.

Nei giorni seguenti mi chiama Roberto Spingardi, che era il direttore generale della Fininvest per il personale, lo sviluppo organizzativo e le relazioni interne ed esterne. Cominciamo a parlare di soldi. All’Indipendente guadagno mezzo miliardo di lire l’anno, più i bonus, gli faccio presente. Ma Spingardi, che non ha nessuna voglia di assumermi, tergiversa in tutti i modi. L’avrei capito troppo tardi: sperava che nel frattempo si raffreddasse l’innamoramento del Cavaliere per la mia insignificante persona. Alla fine vinse lui, nel senso che non arrivammo mai a stipulare un contratto.

In seguito, per altre due volte – come dirò più avanti, alla voce “Confalonieri Fedele” – Berlusconi mi ha tirato il bidone, sia pure senza volerlo. Questo consente di porre l’accento sul suo difetto più grave: l’uomo ha «il sole in tasca», come ama sempre ripetere, ed è un venditore davvero impareggiabile. Però gli manca il prodotto da vendere. La confezione è perfetta, fa venire l’acquolina in bocca solo al sentirgliela descrivere. Pensi: chissà che cosa ci troverò dentro. E compri. In questo modo egli riesce a vendere tutte le confezioni. Poi tu scarti e scopri che non c’è dentro un santo cazzo: s’è dimenticato di metterci il prodotto.

Non dico che sia privo di buoni propositi. Anzi, ne ha fin troppi e, nei suoi eccessi di autoesaltazione, convince sé stesso e anche noi di poterli realizzare. Solo che, nel lungo percorso intercorrente tra la progettazione e la realizzazione, manda tutto a ramengo. In parole povere, naufraga nel mare che c’è di mezzo tra il dire e il fare. Esempio: l’avete vista voi la tanto decantata rivoluzione liberale? Io no. Berlusconi obietterà che gli hanno impedito di farla. E sia, concediamoglielo, nonostante la maggioranza parlamentare che gli avevamo consegnato renda poco credibile la giustificazione. Ma allora dovrebbe quantomeno attenersi a una regola: fare le promesse soltanto dopo averle mantenute.

Potrei citare decine di casi in cui il Berlusconi decisionista ha dovuto cedere il passo, talvolta suo malgrado, al Berlusconi temporeggiatore, fino a trasformarsi in un sòr Tentenna. Mi limiterò ad alcuni. Nel 1997 il Cavaliere annunciò che il nuovo direttore del Giornale dopo le mie dimissioni sarebbe stato Enzo Bettiza. Per costui doveva essere una sorta di risarcimento e al tempo stesso una rivincita sull’amico-nemico Montanelli, che dal Giornale lo aveva cacciato 14 anni prima. Poiché però Bettiza pretendeva che venissero assunti insieme a lui una sua segretaria di fiducia, un autista e addirittura una cameriera personale, vi fu la rivolta dei quadri, capeggiati dagli sparagnini Amedeo Massari e Roberto Crespi, che costrinsero Berlusconi a rimangiarsi la nomina. E così, invece di Bettiza, diventò direttore Mario Cervi, con Maurizio Belpietro come condirettore.

Altro esempio. Nel 2004 la guida del Tg5 viene affidata al direttore di Panorama, Carlo Rossella. Sulla poltrona rimasta vuota in Mondadori, il Cavaliere vuole insediare Giorgio Mulè, un suo pupillo, di cui si fida ciecamente anche dal punto di vista politico. La scelta sembra nell’ordine naturale delle cose: Mulè è giovane e bravo, sta a Panorama da parecchi anni e ha già i gradi di vicedirettore esecutivo, è il numero 2, l’uomo-macchina. Perché andarsi a prendere a peso d’oro un esterno quando si ha già la soluzione a libro paga? Sembra fatta. Invece si mette di mezzo la figlia Marina, che è da poco subentrata al defunto Leonardo Mondadori alla guida della casa editrice di Segrate e vuole dimostrare di contare qualcosa. Così la nomina di Mulè, già annunciata dai giornali, viene archiviata in un baleno e a Panorama arriva Pietro Calabrese, direttore della Gazzetta dello Sport, gradito a Marina. E il candidato del Cavaliere? Finisce “deportato” a Milano Oltre, con un contentino: la direzione di Panorama Economy, settimanale che in Mondadori è soprannominato “il cadaverino”. Tutti dentro l’azienda, e anche fuori, sono infatti convinti che abbia i mesi contati: perde milioni di euro, non ha appeal. A Mulè basta un anno per azzerare i debiti, conquistare la leadership nelle edicole e addirittura assumere giornalisti. Lascia tutti a bocca aperta. Poi si trasferisce a Mediaset, mentre a Panorama inizia il declino.

Terzo esempio dell’impotentia generandi di Berlusconi (certo non di quella coeundi) in campo editoriale. Questo mi riguarda da vicino. Nel 2009 me ne sto bello sereno a Libero. Il Cavaliere mi cerca. Vuole che ritorni al Giornale per farne un Le Figaro italiano. Mi promette mari e monti. Mi espone programmi faraonici. Arriva persino a dirmi: «Il Giornale è suo. Ne disponga come crede». Davanti a una simile apertura di credito, impossibile non cascarci. Accetto e gli espongo il mio piano: con pochi soldi – diciamo 1,5 milioni di euro – possiamo fottere il Corriere della Sera portandogli via gli editorialisti di riferimento della borghesia moderata. Penso a Piero Ostellino, Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Aldo Grasso. Lui: «Crede di riuscirci?» Almeno ci provo. «Carta bianca, gli dia quello che chiedono».

Mi metto all’opera per realizzare il grande quotidiano liberale immaginato dal Cavaliere. Il primo che contatto è Galli della Loggia, con il quale ho un buon rapporto. C’è grandissima simpatia anche con sua moglie, Lucetta Scaraffia, ex atea, ex marxista, ex femminista, ex sessantottina, convertitasi al cattolicesimo militante dopo essere entrata per caso, una domenica, nella basilica di Santa Maria in Trastevere e avervi sentito cantare l’Akathistos bizantino, l’inno liturgico più antico dedicato alla Madre di Dio. Pochi mesi prima, la dolce Lucetta, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, mi ha convinto a fare una cosa di cui non avrei mai creduto d’essere capace: la lettura della Passione di Nostro Signore. Non mettetevi a ridere. È la verità. Mi ha costretto a prepararmi su un vecchio Vangelo recuperato nella mia biblioteca. Due o tre ripassi a voce alta in casa, prestando attenzione alle pause, alla punteggiatura, ai dialoghi dei vari personaggi in campo: Gesù, discepoli, Pilato, folla. Dopodiché, una sera di aprile, m’è toccato andare a leggere il sacro testo nella Certosa di Milano, nell’ambito della manifestazione “Imago veritatis”, la cui direzione culturale era affidata alla Scaraffia. Fra l’altro quella sera il diavolo ci aveva messo la coda, appioppandomi un colpo della strega straziante, tanto che mi fecero recitare seduto. Ma ero riuscito ugualmente a conquistare la folla di fedeli grazie al timbro cavernoso e alla mia consumata arte istrionica.

Torniamo al marito dell’organizzatrice. Pur lusingato dalla mia offerta, Galli della Loggia nicchiava: il Corriere è il Corriere. Con l’aiuto di Lucetta, magari sarei riuscito a farlo capitolare, chissà. Il fatto è che mi accorsi quasi subito d’essere finito nei panni di un generale De Gaulle da strapazzo, senza esercito alle spalle. «L’intendance suivra», aveva tagliato corto il grande stratega francese, davanti alle perplessità sul piano di battaglia espresse da un ufficiale del suo stato maggiore. Io non avevo nessuna intendenza disposta a seguirmi. Berlusconi mi aveva mandato alla guerra con una pistola ad acqua. Appena toccavo l’argomento soldi ai piani alti di via Negri, gelo totale. Difficile fare la spesa al mercato delle grandi firme con il borsellino vuoto. Perciò evitai di espormi a ulteriori figuracce con i vari Ostellino, Panebianco, Romano e Grasso.

Gli esempi di questa incapacità congenita del Cavaliere di comportarsi in modo conseguente ai proponimenti enunciati potrebbero essere, come ho detto, decine. Ve n’è un ultimo – poi smetto – che merita di essere richiamato perché, riguardando la politica e non quella disciplina marginale che è il giornalismo, m’è sembrato catastrofico per la sua immagine e la sua credibilità. Mi riferisco alla scelta di Giovanni Toti, già direttore del Tg4 e di Studio Aperto, come delfino. Niente da dire sul giovanotto, anche perché lo conosco superficialmente: sono più ferrato sull’altro Toti, Enrico, quello che durante la Grande guerra scagliò la stampella contro gli austriaci dopo essere stato colpito a morte. Pare che sia un tipo sveglio, e infatti ha sposato Siria Magri, una brava giornalista che collaborava al Bergamo Oggi da me diretto e che poi è diventata conduttrice di Studio Aperto. A dire il vero, io al posto di Berlusconi sarei andato a cercarmi qualche giovanotto già formato, tipo Flavio Tosi, il sindaco di Verona, un recordman in fatto di voti, anche se agli occhi del Cavaliere presenta parecchi difetti inescusabili: non mette la cravatta, si veste male, si rade solo una volta la settimana e per di più è sempre stato ferocemente antiberlusconiano. Tutto vero. Ma, trasandatezza a parte, avrei considerato due fatti: che Tosi è seduto al volante di un’auto, la Lega, senza motore e che non può autocondannarsi in perpetuo all’irrilevanza da capopopolo di periferia. Mi meraviglio che il talent scout della Brianza non si sia reso conto che poteva attirarlo dalla sua parte con una foglia d’insalata, dargli una ripulita e farne il Matteo Renzi del centrodestra. Preferiva invece giocare in casa? Ebbene, mi dicono meraviglie anche di Alessandro Cattaneo, sindaco forzitalista di Pavia, neanche 35 anni. Possibile che l’imprenditore così esperto di cavalli da aver tenuto a libro paga lo stalliere Vittorio Mangano non si sia mai preoccupato, in vent’anni che bazzica la politica, di allevarsi un poulain? Cecità? Imprevidenza? Cinismo alla Luigi XV, del tipo «après moi le déluge»? Va’ a saperlo.

Ora, ammesso che quella di Toti sia un’investitura azzeccata, il modo in cui il giornalista toscano è stato mandato allo sbaraglio mi sembra demenziale. Mai avevo assistito a un profluvio d’insipienza politica di questa portata. Rivediamo il film. Il 12 gennaio 2014 il Cavaliere presenta il suo ex dipendente quale coordinatore unico di Forza Italia. I vecchi marpioni del partito, capitanati da Denis Verdini e Raffaele Fitto, insorgono, minacciano sfracelli: o noi o lui, se ci paracaduti questo qui dal cielo ce ne andiamo e fondiamo un altro partito. E il grande capo che fa? Anziché mettere i coglioni sul tavolo e tenere il punto, glissa. La nomina slitta.

Comincia a circolare la voce che, in subordine, Toti possa diventare coordinatore organizzativo o vicepresidente. Si scopre però che la seconda opzione non è praticabile, giacché richiederebbe una modifica allo statuto del partito. Vabbè, si rassegna Berlusconi, allora il Toti lo candido all’Europarlamento. Nel frattempo me lo porto con il barboncino Dudù a Villa Paradiso, beauty farm di Gardone Riviera, perché è troppo su di peso, deve smaltire qualche chiletto, altrimenti in televisione mi tocca usare il grandangolo per inquadrarlo tutto. E lì, sul balcone prospiciente il lago di Garda, avviene l’ostensione del corpo di Toti in tuta bianca e in via di rapido dimagrimento, mentre il suo padre adottivo gli è accanto e fa ciao ciao con la manina ai fotografi. Ma dormono anche nella stessa camera? Roba da reggersi la pancia, pingue o grinzosa poco importa, dal gran ridere. Posso capire che Berlusconi, quand’era il fasso-tuto-mi della Fininvest, bocciasse regolarmente gli aspiranti agenti pubblicitari di Publitalia che avevano le mani sudaticce e l’alito pesante. Tuttavia, se avesse ordinato a me di ridurmi il girovita, l’avrei mandato affanculo all’istante. Ne deduco che Toti non è stato a scuola da Beppe Grillo.

È finita che, in data 24 gennaio 2014, il (quasi) fusiforme collaboratore è stato nominato solamente consigliere politico di Forza Italia, una carica che ricorda quella del conducente nei “trenini” dei partouze descritti da Giancarlo Fusco: non disponeva di un buco in cui infilarlo, però aveva diritto al berretto rosso con il cordone d’oro e al fischietto da capostazione. Da numero uno che doveva essere, questo signore è diventato il quattro, infine il cinque. Ma non è ancora detta l’ultima parola: potrebbe migliorare o peggiorare la posizione.

Sul Cavaliere smussatore di angoli, che riesce a farsi concavo quando lo vorremmo convesso e convesso quando ci servirebbe concavo, ho detto fin troppo. Quindi passo al resto. Mi hanno sempre procurato una certa ilarità quelli che attribuiscono la sua enorme ricchezza ad affari sporchi combinati in passato con la mafia. A parte che costoro non sono nemmeno originali (ci aveva già pensato un romanziere dell’Ottocento, Honoré de Balzac, a teorizzare che dietro ogni grande fortuna vi sia un crimine), io ho sempre ritenuto assai più credibile la testimonianza di Rosa Bossi, detta Rosella, una santa donna che nel 1935 aveva sposato Luigi Berlusconi, detto Gino, impiegato alla Banca Rasini, dandogli tre figli: Silvio, Maria Antonietta e Paolo. L’anziana donna ha abitato fino alla morte, sopraggiunta nel 2008 all’età di 97 anni, in un condominio di otto piani costruito dal figlio in zona Bande Nere e Lorenteggio, alla periferia ovest di Milano. Nell’ingresso dell’appartamento, trasformato in una specie di cappella votiva, teneva una Madonna con Bambino, scolpita da Alceo Dossena nel 1936, anno in cui nacque il primogenito. Il quale s’identificava in uno dei due personaggi del bassorilievo marmoreo: indovinate quale. «Il Bambinello che ti offre una rosellina sono io, mentre tu sei la Madonnina», spiegò alla madre nel giorno dell’ottantesimo compleanno, porgendole in dono l’opera d’arte. Altro che Unto del Signore. Si sentiva già allora parte della Sacra Famiglia.

«Fosse dipeso da me», raccontava l’anziana donna, «mi sarei tenuta la nostra vecchia casa di viale Zara 58. Qui i negozi hanno certi prezzi... Ma il mio Gino preferì venderla e trasferirsi in questo palazzo. Silvio ne aveva tirati su quattro di uguali. Per sei mesi era rimasto a osservare i muratori che costruivano gli edifici in zona. Tutto il giorno nei cantieri a imparare. Alla fine gli architetti dissero a mio marito: “Se lo porti via, o finisce che suo figlio ci ruba il mestiere”». E aggiungeva, per farsi capire meglio: «Silvio era l’unico, a Oltrona San Mamette, dov’eravamo sfollati in tempo di guerra, a parlare l’italiano. Per questo i compagni di gioco lo rifiutavano. Ebbene, in una settimana aveva già imparato il loro gergo. Vedendomi allattare Maria Antonietta, concluse: “Come la vacca col vedèll”. La maestra mi diceva: “L’è pussè bravo lù de mì”. È sempre stato molto intelligente».

È così che Berlusconi si appassionò all’edilizia. «Venne a sapere che il conte Leonardo Bonzi», continuava mamma Rosella, «vendeva molti terreni a Segrate, quelli su cui poi sorse Milano 2. Ma non aveva i soldi per comprarli. Carlo Rasini, proprietario della banca dove lavorava mio marito, gli concesse un prestito. Noi gli demmo tutto quello che avevamo da parte. “Però ricordati che di figli ne ho tre”, gli disse suo padre, “perciò un giorno dovrai aiutare la Maria Antonietta e il Paolo”. Alla fine mio marito lasciò la banca per seguire le imprese di Silvio. In casa avevamo valigie piene di cambiali. Ogni tanto il mio Gino diceva: “Rosella, me buti giò de la finestra”». Ecco spiegata l’origine dei capitali che gli consentirono d’improvvisarsi imprenditore edile.

Ma il senso degli affari Berlusconi l’aveva manifestato già molto tempo prima. Ascoltate la vecchia madre: «Al liceo dai salesiani vendeva i compiti in classe. Oltre al suo ne compilava un paio da regalare ai compagni meno fortunati che arrancavano e un paio per gli amici ricchi disposti a pagare. Ultimati gli studi, si mise a vendere elettrodomestici. Una vigilia di Natale portò sulle spalle un frigorifero Ignis a una signora. Salito al quinto piano, s’accorse d’aver sbagliato scala e dovette rifare il percorso. Tornò a casa stravolto. La fatica non gli ha mai fatto paura. Le prime mance se le era guadagnate lavandomi i piatti e dando la cera al parquet».

A Rosa Bossi si deve un’ultima annotazione su un altro dei tratti distintivi del fondatore di Forza Italia: la generosità. «Tutte le domeniche ospitavamo a pranzo la Regina, un’amica di mio marito che viveva alla Baggina, l’ospizio per anziani. Lei andava matta per il lesso, mentre Silvio, Maria Antonietta e Paolo lo detestavano. Eppure per solidarietà lo mangiavano. Una domenica suonò alla porta un’altra vecchietta: “Me manda la sciura Regina. L’è morta. Prima di spirare, mi ha detto di venire qua al posto suo”. Abbiamo tenuto a tavola anche lei per anni. Per fortuna non era fissata con i bolliti».

C’è un altro radicato pregiudizio, su Berlusconi, al quale non ho mai dato credito: quello secondo cui sarebbe entrato in politica solo per non finire in galera travolto dai debiti, per salvare l’impero fatto di mattoni e di etere nato nel modo che vi ho appena descritto. Non ci credo non perché mi fidi di lui a prescindere, ma perché vissi quei momenti in diretta, quindi so perfettamente come andarono le cose. Nel 1993 il Cavaliere aveva compreso, come tutti noi del resto, che la Prima Repubblica, marcia fin dalle fondamenta, sarebbe crollata sotto i colpi dell’inchiesta Mani pulite che stava terremotando il pentapartito. Il suo ragionamento era di una linearità disarmante: «Quando i magistrati avranno sbattuto in galera tutti gli esponenti della Dc, del Psi, del Psdi, del Pri e del Pli, che cosa resterà in questo Paese? Soltanto il Pci. Da anticomunista, non posso permetterlo». Chiaro che vi fosse anche del tornaconto personale, in quest’analisi: era ben conscio che i nipoti di Togliatti gli avrebbero reso la vita difficile, nel caso avessero conquistato il potere, come si apprestavano a fare in perfetta solitudine con la «gioiosa macchina da guerra» che Achille Occhetto raffigurava come invincibile.

Io gli obiettavo: ma no, si sbaglia, Antonio Di Pietro è mio amico, mi ha garantito che, sistemati questi, farà fuori anche il Pci, perché nelle pratiche tangentizie sono immersi fino al collo anche i compagni. «Io credo invece che le cose non andranno affatto così», replicava lui. «I pubblici ministeri stanno lavorando per spianare la strada verso il governo ai comunisti. Non lo consentirò». Il ragionamento non faceva una grinza e alla fine mi persuasi che avesse ragione Berlusconi. Così nei miei fondi cominciai a scrivere che bisognava mettere insieme le forze moderate per contrastare l’avanzata dei rossi. La strada giusta era quella indicata dal mio amico Francesco Cossiga: dare vita al cosiddetto rassemblement, una coalizione di forze politiche eterogenee, non lambite dalle inchieste giudiziarie, che includesse la Lega Nord e il Movimento sociale italiano e che fosse in grado di raccogliere dalla polvere la bandiera dei moderati, ancora forza prevalente nel Paese ma destinata a soccombere se priva di un’acconcia rappresentanza parlamentare.

Solo che, mentre io mi limitavo a suggerire queste idee nei miei editoriali, il Cavaliere, com’è suo costume, era già passato all’azione, progettando Forza Italia. Nel pranzo ferragostano mi rivelò che a fine giugno aveva mandato tre vecchi amici dal proprio notaio di fiducia, Guido Roveda, a depositare statuto e simbolo del nuovo partito. I tre erano stati suoi compagni di classe dal 1947 al 1955, quando il futuro presidente del Consiglio frequentò le medie e il liceo classico all’istituto salesiano Sant’Ambrogio di via Copernico, a Milano. Il primo era Guido Possa, destinato a diventare viceministro dell’Istruzione, il quale da giovane vide Silvio piangere dopo essere stato piantato da una commessa della Standa e fu tra gli invitati al pranzo con cui all’hotel Gallia il 6 marzo 1965 fu festeggiato il primo matrimonio di Berlusconi con Carla Dall’Oglio. Il secondo era Luigi Scotti, futuro senatore. Il terzo era Ariberto Spinelli, che oggi fa lo psicologo e lo scrittore.

«Ma lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?», mi chiese Berlusconi. «Mario Segni o Mino Martinazzoli?» All’udire il nome del becchino della Dc, mi toccai le balle. Per carità, galantuomo come pochi, di rara intelligenza, mi era pure molto simpatico. Ma il suggello cimiteriale prevaleva su qualsiasi altra considerazione e induceva a sinistri presagi. Come avrebbe potuto un necroscopo trasformarsi in ostetrico? Berlusconi, che per i brand ha sempre avuto naso finissimo, non perdonava all’avvocato bresciano d’aver seppellito la Dc. «Buttare via un simbolo così prestigioso come lo scudocrociato, che follia!», non si dava pace. Per Segni, benché mi lasciasse perplesso quel nome da bietolone, Mariotto, ero più possibilista. Ma un precedente infausto m’impensieriva: sul figlio dell’ex presidente della Repubblica aveva già scommesso inutilmente Montanelli, subendo per questo una vivace contestazione all’interno del Giornale. Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega, del quale non si poteva certo dire che fosse un cretino, aveva parlato nella circostanza di «abbraccio mortale». Insomma, affidata a Segni, la neonata Forza Italia sarebbe rimasta nei paraggi del cimitero.

Allora mi ricordai che un paio d’anni prima, da direttore dell’Europeo, avevo commissionato un sondaggio demoscopico sul personaggio che ispirava più fiducia agli italiani e al primo posto s’era piazzato Silvio Berlusconi, staccando di così tante lunghezze tutti gli altri contendenti che manco ne rammentavo i nomi. «Chi meglio di lei come leader di Forza Italia?», dissi al Cavaliere. Non replicò. Restò muto. Ma nell’occhietto voglioso vidi accendersi una lucina.

Arriviamo così ai primi di gennaio del 1994. Berlusconi si appresta alla “discesa in campo” – avverrà il giorno 26, con il famoso annuncio televisivo a reti Mediaset unificate – e io divento direttore del Giornale. Subito dopo aver firmato il contratto, il Cavaliere m’invita ad Arcore per festeggiare. C’è anche il mio editore, il fratello Paolo. Si brinda a champagne. Poi Berlusconi, infervorato, schiaccia il tasto di un registratore che c’è sul tavolo del salotto: «Ascolti, ascolti qua: lei è il primo a sentirlo, direttore». Parte un coretto: «E Forza Italia / per essere liberi / e Forza Italia / per fare per crescere...» Gongola: «Le piace? È l’inno ufficiale del mio nuovo partito». E qui accade l’imprevedibile. Il padrone di casa prende per mano sia me sia il fratello e pretende che ci mettiamo a cantare anche noi a squarciagola, insieme a lui: «E Forza Italiaaa / è tempo di credereee / dài Forza Italiaaa / che siamo tantissimiii...» Mi sento morire. Come se mi stessero spogliando nudo in piazza del Duomo alle 11 di mattina. Voglio solo che finisca subito. E dentro di me penso: Dio, che cos’ho fatto, sono spacciato, come ho potuto firmare?

Ecco, vi ho spiegato perché mi rifiuto di credere che l’imprenditore Berlusconi si sia inventato un partito per evitare il crac, come sostengono i suoi detrattori. Mi pare una congettura grossolana. È vero che le aziende della galassia Fininvest erano molto esposte con le banche, ma a salvarle non fu l’ingresso in politica del patron, che semmai le fece cadere in balia di rappresaglie giudiziarie devastanti, bensì la quotazione in Borsa di Mediaset e Mediolanum nel 1996 (la Arnoldo Mondadori editore era già presente a Piazza Affari dal 1982). Essa procurò al gruppo una liquidità mostruosa. Questo perché nella comprensione delle questioni finanziarie e gestionali il Cavaliere dimostra una capacità perforante. Prima ancora che tu abbia cominciato a esporgli un problema, lui ha già capito dov’è che andrai a parare. È dotato di un intuito animalesco.

Ho partecipato al salvataggio di una delle sue aziende, Il Giornale, portata sull’orlo del fallimento da Montanelli, che era tutto fuorché un bravo direttore, e dunque ho potuto vedere in corpore vili quali sono gli strumenti che Berlusconi adotta in casi del genere. La politica non c’entra un fico secco. I debiti furono abbattuti cambiando il manico, riducendo i costi e puntando sulla diffusione. Altrimenti col cavolo che m’avrebbe regalato il 6 per cento del pacchetto azionario.

Oggi sono assediato dalle domande che mi vengono poste sul destino del Cavaliere da lettori, colleghi, parenti, amici, persino da persone che incontro per strada o al bar, neanche fossi l’oracolo di Delfi. Che ne sarà di lui? Finirà in galera? Come farà a guidare il partito se sarà affidato ai servizi sociali o costretto agli arresti domiciliari? Il prodigioso accordo che ha raggiunto in appena due ore e mezzo con Matteo Renzi, segretario del Pd, per varare una nuova legge elettorale e aggiornare la Costituzione, reggerà alla prova dei fatti o s’impantanerà nella palude romana? Nel momento in cui sto scrivendo – marzo 2014 – non so dare alcuna risposta sensata. Nessuno, che non sia svitato, è in grado di farlo. Mi limito a mettere in fila una serie di ragionamenti.

Berlusconi ha subìto una condanna definitiva a 4 anni di reclusione nel processo Mediaset e per questo motivo l’aula di Palazzo Madama lo ha dichiarato decaduto dalla carica di senatore. Inoltre è stato interdetto per due anni dai pubblici uffici: non può candidarsi e neppure votare. Lasciamo stare che la sentenza sia stata confermata da un giudice, Antonio Esposito, presidente della seconda sezione penale della Cassazione, sul quale aleggia il sospetto che sia venuto meno in varie occasioni ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza. Così pure sorvoliamo sul fatto che il Cavaliere si sia appellato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale peraltro ha già dichiarato ammissibile il ricorso contro la retroattività della legge Severino che gli ha tolto il seggio al Senato. Mi attengo ai fatti. Berlusconi non si è mai riconosciuto colpevole e non ha mai accettato la sentenza: non sembrano i presupposti migliori per l’affidamento ai servizi sociali. Il condannato rischia di finire agli arresti in casa propria. In quelle condizioni, come fa a guidare il partito? Non può nemmeno imitare Beppe Grillo, che se ne sta nella sua villa sulle alture di Genova e dà disposizioni tramite cellulare ai pentastellati seduti in Parlamento. Un detenuto ai domiciliari è autorizzato a comunicare solo con i familiari conviventi. Gli è vietato qualsiasi contatto con l’esterno, anche per mezzo di telefoni, fax, posta elettronica e ordinaria. Per vedere un estraneo, deve chiedere il permesso al magistrato. E non è automatico che gli venga accordato.

Il buon Toti non abita né ad Arcore né a Palazzo Grazioli. Mettiamo che Berlusconi debba scambiare quattro chiacchiere con lui. Il permesso non viene concesso, ma il detenuto decide di vedere ugualmente Toti di nascosto. Tecnicamente il leader di Forza Italia si renderebbe responsabile di evasione. Non solo: il suo consigliere politico potrebbe essere inquisito per concorso nel medesimo reato. Non sono cosucce da niente.

Andiamo avanti. Il Cavaliere è stato condannato in primo grado a 7 anni di galera per concussione e prostituzione minorile in relazione al caso Ruby. Personalmente resto convinto che non sapesse che Karima El Mahroug era minorenne e che non l’abbia scopata. Però il mio parere conta poco. Posso sperare per lui che lo assolvano in appello. Ma se ciò non accadesse? Dovrebbe scontare anche i 3 anni coperti da indulto nella sentenza del processo Mediaset. Tre più 7 fa 10. Confinato per 10 anni agli arresti domiciliari, dato che va per gli 80. Però non è detto. Mi hanno spiegato che la legge cosiddetta “ex Cirielli” stabilisce che il detenuto ultrasettantenne «può» andare ai domiciliari, non che «deve». Infatti Calisto Tanzi, che di anni ne aveva 73 quando fu condannato in Cassazione per il crac Parmalat, fu prelevato nella sua villa e tradotto in carcere. Un precedente per nulla tranquillizzante. Se Berlusconi incappa in un giudice di sorveglianza appena un po’ carogna – ipotesi tutt’altro che remota – finisce dentro. Volete che dopo vent’anni di caccia all’uomo gli risparmino proprio sul più bello l’onta del carcere? Un passaggio al fresco, magari anche solo per pochi giorni, con un personaggio della sua stazza si rivelerebbe il colpo mediatico del secolo (di questo e di quello passato), e sappiamo bene quanto certe toghe siano sensibili al richiamo del proscenio. Il giudice di sorveglianza che lo spedisse in galera conquisterebbe d’emblée una popolarità così vasta da meritarsi di diritto un posto nel pantheon della Giustizia, accanto a eroi come Antonio Di Pietro, e magari una successiva candidatura in Parlamento. Tutto già visto, ahinoi.

Non è finita. A Napoli un’altra insidia letale attende il Cavaliere: l’accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti nel processo per la presunta compravendita di senatori. La Procura vuole dimostrare che Berlusconi versò 3 milioni di euro al giornalista Sergio De Gregorio (inizialmente eletto a Palazzo Madama con l’Italia dei valori), affinché entrasse a far parte del Popolo della libertà e sfiduciasse il secondo governo Prodi. Che infatti, il 24 gennaio 2008, cadde anche grazie al suo voto. Essendosi autoaccusato del reato e avendo patteggiato una pena di 20 mesi, dal punto di vista tecnico-giuridico De Gregorio diventa un testimone credibile. In pratica, la corda per impiccare il Cavaliere.

Stando così le cose, io posso soltanto dire che cosa farei al posto di Berlusconi: chiederei la cittadinanza russa e un passaporto diplomatico (quello italiano gliel’hanno sequestrato) al mio amico Vladimir Putin. E continuerei la battaglia politica dalla villa di Antigua, nei Caraibi, o, se proprio volessi mantenermi nelle vicinanze, dal panfilo Morning Glory alla fonda in acque internazionali nel Mediterraneo. Con 48 metri di nave a disposizione, non dovrei neppure rinunciare allo jogging, che invece agli arresti domiciliari o a San Vittore è di sicuro meno agevole.

Naturalmente mai, mai e poi mai il Cavaliere accetterà un simile consiglio. La sbronza di popolo e di piazza gli ha annebbiato i riflessi. Non si rende conto che la sua immagine, passati vent’anni, si è molto appannata. L’opinione pubblica comincia ad averne le scatole piene di sentir parlare in continuazione dei suoi affari privati. Non è odio, ma qualcosa di più letale: scoglionatura. La gente non ne può più di leggere e ascoltare resoconti riguardanti le materie che più gli stanno a cuore, e non solo a cuore, tipo la gnocca. Ormai l’abbiamo capito: ne va pazzo. Anche Vittorio Emanuele II ne andava pazzo e se ancor oggi viene ricordato come il “padre della patria” non è solo perché fu il primo sovrano dell’Italia unita, quanto piuttosto per lo stuolo di figli illegittimi che il sovrano erotomane, sessualmente superdotato, sparpagliò nei casolari del regno sabaudo. Anche Benito Mussolini ne andava pazzo. E Franklin Delano Roosevelt. E John Fitzgerald Kennedy. E Mao Tse-tung. E re Juan Carlos di Spagna. E Bill Clinton. E François Mitterrand. E Valéry Giscard d’Estaing. E Jacques Chirac, soprannominato “10 minuti, doccia inclusa”. Persino – chi l’avrebbe mai sospettato? – quella testa da casco di François Hollande ne va pazzo.

Ma c’è una differenza sostanziale, per rimanere all’attualità, fra Hollande e Berlusconi. Il primo sgattaiolava via dell’Eliseo su uno scooter, infilandosi l’elmetto da motociclista per non essere riconosciuto, e una volta scoperto è subito corso da Papa Francesco con il capo cosparso di cenere. Il secondo, invece, mi ricorda quei giovanotti trentenni che negli anni Sessanta arrivavano al Diurno di Bergamo intorno alle 23.30, scendevano dalla Giulietta sprint o spider, rigorosamente rossa, e facevano sognare il capannello di avvocati, ingegneri, meccanici, postini, muratori, lattonieri, studenti – i bar allora erano luoghi molto democratici – con racconti mitologici: «Uè, ragazzi, stasera ne ho caricate due. Da morire. Ho reclinato i sedili. Non vi dico...» Invece diceva e tutti ridevano. Più emozionante di Guerra e pace.

Berlusconi è fatto così. Gli piace esibire, anziché nascondere. L’esatto contrario di ciò che avrebbe dovuto fare una volta divenuto presidente del Consiglio: occultare, negare, defilarsi. Macché. È più forte di lui. Proprio non resiste. Vantarsi delle sue prodezze è un bisogno insopprimibile, come raccontare le barzellette. L’ultima volta che sono stato ad Arcore, ci ha tenuto a farmi da cicerone. Arrivati alla camera, mi ha detto: «Sa, dottor Feltri, in effetti, con quella Patrizia D’Addario... Me la sono trovata lì nel letto. Lei che cosa avrebbe fatto al posto mio?» Domanda retorica. Come non compiacerlo? Ho risposto: le avrei dato una botta. «Io tre».

Ecce homo. E ora ammazzatelo pure. Però, quando parlerete di Silvio Berlusconi ai vostri nipotini, cercate almeno di spiegare loro che fu l’unico politico di questa sventurata Seconda Repubblica ad arrivare fino all’effusio sanguinis per amore del suo Paese. Non lo ricorda mai nessuno. 13 dicembre 2009. La statuetta del Duomo di Milano scagliata in piena faccia dopo un comizio. Il setto nasale fratturato. I due denti sul selciato. I punti di sutura. L’intervento chirurgico maxillo-facciale. Il trapianto osseo. Grazie Italia. Forza Italia. Voto: 9

BERNARDINI DE PACE Annamaria (Perugia, 1948). Avvocato matrimonialista. Scrive per Il Giornale. Ha difeso Laura Sala, ex moglie del socialista Mario Chiesa: dall’assegno di mantenimento della sua cliente (4 milioni di lire al mese) presero avvio le indagini di Antonio Di Pietro che portarono all’inchiesta Mani pulite. La figlia Chiara Giordano ha sposato l’attore Raoul Bova, che nel 2013 ha annunciato di volersi separare da lei.

È una mia grande amica fin dagli anni Novanta. Mi ha assistito in tre o quattro cause e le ha vinte tutte, compresa una per diffamazione contro lo scrittore Aldo Busi. M’invita sempre alle sue cene, fra le poche cui partecipo volentieri, perché detesto la vita di società. L’ho inventata come editorialista. Ha le idee chiare, sa esprimerle con brio, ed è il motivo per cui me la sono sempre portata dietro nei giornali dove mi sono accampato. È tosta, in tutto. Voto: 8

BERSANI Pier Luigi (Bettola, Piacenza, 1951). Politico. È stato presidente della Regione Emilia Romagna (1993-1996) e più volte ministro nei governi Prodi, D’Alema e Amato. Segretario del Partito democratico dal 2009 e candidato premier della coalizione di centrosinistra uscita vincitrice dalle elezioni politiche del 2013, non è riuscito a formare il nuovo governo. Dopo aver visto bocciare dai franchi tiratori le candidature di Franco Marini e Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, s’è dimesso da segretario del Pd non appena Giorgio Napolitano è stato rieletto per il secondo mandato al Quirinale.

Confesso: ho un debole per lui. Come persona mi piace da morire. I suoi nonsense, soprattutto quelli zoologici, mi divertono un sacco, «meglio un passerotto in mano del tacchino sul tetto», «se il maiale vuol diventare una porchetta non va mica dal parrucchiere», «siam mica qui a fare la permanente ai cocker», «siamo rimasti col due in mano», «siam mica qui a spalmare l’Autan alle zanzare», «non possiamo portare vino annacquato». Gli è andata male solo con la smacchiatura del giaguaro, ma questo è un altro paio di maniche. Forse però non s’è reso conto che il “bersanese”, certamente più gradevole del burocratese con cui si esprimeva da ministro dello Sviluppo economico nel governo Prodi, strizzava l’occhio solo a quelli della sua e mia età, cresciuti fra i campi e l’osteria. Certi pirotecnici paragoni nulla potevano dire a una generazione tutta Iphone, Ipad e Ipod che un tacchino non sa neppure come sia fatto. E infatti il giovane Matteo Renzi bastonò il segretario del Pd per il siparietto a Italialand al fianco di Maurizio Crozza, ingiungendogli di smetterla subito con le colorite metafore, buone tutt’al più per gli ex compagni provenienti dai campi e dalle officine, quelli che nel 1968 avrebbero dovuto prendere la falce e portare il martello per affossare il sistema, come cantava Paolo Pietrangeli (il quale invece finì a lavorare per il Maurizio Costanzo show e Amici nelle reti di Silvio Berlusconi e, non contento di abitare sull’Appia antica e di calzare scarpe da 3 milioni di lire comprate a Londra da Lobb, confessò che l’unica cosa che si portava appresso, quando usciva dal suo casino di caccia davanti alla tomba di Cecilia Metella, era il parapioggia Brigg con manico in radica del costo di 1 milione e mezzo: falce e ombrello).

Bersani doveva essere il segretario della rinascita del Pd. Si è rivelato un becchino al cui confronto il compianto Mino Martinazzoli, detto anche Lumino, Crisantemo e Cipresso, storico affossatore della Dc, scompare più di quanto non sia già scomparso per raggiungere il confortevole mondo dei più, dove si trova perfettamente a suo agio. Il Pd era considerato vincente anche dagli avversari, al punto che Berlusconi, vedendo Walter Veltroni incoronato re al Lingotto, ne imitò la strategia. Walter fa il partito unico sposandosi con la Margherita? Bene, e io allora convolo a giuste nozze con quel giuda di Gianfranco Fini. Che dapprima respinse sdegnato i corteggiamenti, ma alla fine cedette e s’inginocchiò sul predellino.

Veltroni si perse per strada e, per espiare il fallimento come segretario, disse che avrebbe proseguito a piedi fino in Africa, sulle orme di Albert Schweitzer, ma poi si guardò bene dal metter su capanna a Lambaréné (mica stupido il ragazzo). Al suo posto subentrò al vertice del Pd un tal Franceschini Dario da Ferrara, meglio noto come Ciuffolino. In capo a una sola stagione gli diedero una pettinata di quelle, con tanto di trattamento antiforfora incluso.

E venne il momento del calvo Bersani, che assunse il ruolo gravoso di salvatore della patria progressista. La sua candidatura non prometteva nulla di buono, però il convento non offriva opzioni più allettanti, visto che gli altri due in lizza alle primarie erano lo stesso Franceschini e il chirurgo Ignazio Marino, la cui unica operazione memorabile fu fatta sulle note spese dell’University of Pittsburgh medical center, come ben documentato dal Foglio di Giuliano Ferrara. Il Bersani vincitor non fu cacciato via dopo pochi mesi solo perché non sapevano con chi sostituirlo. Il suo primo atto fu quello di apparecchiare un tavolino a tre gambe per una seduta spiritica che aveva lo scopo di convincere Romano Prodi a reincarnarsi candidato premier. Tanto valeva evocare direttamente il cucco.

Lo smacchiatore di giaguari mi è un po’ scaduto alle primarie successive del 2012 per la candidatura a premier. Sembrava che avesse vinto la terza guerra mondiale. Ora io non dico che quella fosse una consultazione truccata, ma senz’altro gli apparatcˇik ammaestrati alle Botteghe Oscure l’avevano costruita su misura per favorire lui anziché Renzi, che infatti fu elegantemente inchiappettato. A quel punto tutti gli osservatori lo davano già per trionfatore anche alle elezioni politiche del 2013. Invece contro Berlusconi e Beppe Grillo è riuscito a conseguire una vittoria di Pirro. E quando in diretta streaming l’ho visto trattare con i grillini Vito Crimi e Roberta Lombardi, prono ai loro piedi nel disperato tentativo di convincere il Movimento 5 stelle a formare il nuovo governo con il Pd, mi sono definitivamente cascate le braccia e anche qualcos’altro. Però il destino avrebbe potuto almeno risparmiargli l’ictus: è stata un’inaccettabile canagliata. Voto: 5

BERTINOTTI Fausto (Milano, 1940). Politico. Sindacalista, a lungo dirigente della Cgil, è stato iscritto al Psi, al Psiup e al Pci. Nel 1991 aderì al Pds. Ne uscì due anni dopo per dar vita al Prc, di cui è stato segretario (1994-2006). Presidente della Camera (2006-2008). Alle elezioni politiche del 2008 non è riuscito a superare lo sbarramento elettorale del 4 per cento con lo schieramento del quale era leader, la Sinistra arcobaleno, e non è stato rieletto in Parlamento.

Proviene dal Psi, come me, che a 19 anni m’iscrissi al partito di Pietro Nenni per levarmi dattorno le tonache dei preti bergamaschi. Stessa corrente lombardiana, nella quale militavano anche Fabrizio Cicchitto e Maurizio Sacconi. Poi però Bertinotti tralignò: s’iscrisse al Psiup, Partito socialista di unità proletaria, insieme con Vittorio Foa e Lelio Basso, mentre Riccardo Lombardi restò nel Psi e fu determinante per l’elezione a segretario di Bettino Craxi nel congresso che si tenne all’hotel Midas di Roma nel 1976.

Da lì in avanti, Bertinotti ha gareggiato con sé stesso per spostarsi sempre più a sinistra: è confluito nel Pci e, dopo un breve intermezzo nel Pds, è divenuto l’alfiere del Partito della Rifondazione comunista, che già a pronunciarne il nome provoca un accenno di tosse, perché suona polveroso come l’Unione comunista leninista pansovietica della gioventù che allevò Jurij Andropov.

Sdoganato da Romano Prodi (al quale nel 1998 per riconoscenza ha ritirato la fiducia, mandando a pallino il primo governo dell’Ulivo) e agguantata la poltrona di presidente della Camera, Bertinotti ha tradito la sua vocazione operaista. Lo capisco: quando si raggiungono certe posizioni di potere, ci si dimentica in fretta di quello che si è stati, perché i privilegi e gli agi piacciono a tutti, compagni inclusi. E infatti per prima cosa ha mandato i commessi di Montecitorio nel vicino negozio Sciusciachic di via in Lucina affinché affidassero le sue calzature alle mani sapienti della lustrascarpe Rosalina Dallago, incaricata di tirargliele a specchio per la modica cifra di 32 euro. Che è quanto guadagno io ogni mattina lucidandomi da solo le mie Church’s. Invece per le cravatte si è rivolto allo stilista bresciano Luca Roda, che non ha avuto difficoltà a convertirlo dal ruvido shetland al carezzevole cashmere.

Quando Bertinotti compariva in televisione, cioè sempre, sembrava appena tornato da una battuta di caccia alla volpe. Sprofondato in poltrona, le gambe accavallate che sfoggiavano calze di lana a losanghe, la giacca di velluto a coste larghe sgualcita quel tanto che basta, l’immancabile marsupio per gli occhiali appeso al collo, aveva l’aria di uno che aspettava di farsi servire dal maggiordomo Jeeves un bicchiere di sherry. Anziché raccontarci le sue imprese venatorie in brughiera, ci parlava di stato sociale, che non era lo stato dei conti del suo club, ma il più grande apparato assistenziale del mondo, quello italiano. Nel dissertare di minimi pensionistici, cassa integrazione a zero ore, disoccupati in piazza e ragazzi in cerca di primo impiego, non perdeva mai l’aplomb britannico: erre moscia, sorrisi di cortesia, toni pacati. Insomma, si capiva che di quello che stava dicendo non gli fregava niente. Non era il suo mondo. O, almeno, non lo era più.

Bisogna infatti sapere che l’ex segretario di Rifondazione comunista non è nato nella contea di Windsor e i suoi frequentavano, più che la Camera dei lord, il dopolavoro ferroviario di Sesto San Giovanni. Terminati gli studi da perito industriale, pur di non lavorare il giovane Fausto cominciò a fare il sindacalista e non smise più, condizione che lo rende diverso da me e da molti di voi che, pur avendo avuto origini e idee simili alle sue, a un certo punto siamo stati costretti a timbrare il cartellino. In questi differenti destini sta la spiegazione della nostra plebea volgarità e della sua aristocratica affettazione: noi ci siamo sempre dovuti guadagnare lo stipendio, a lui l’hanno dato e basta.

Per molti anni Bertinotti ha vissuto nel più anonimo grigiore torinese e forse è per questo che non rifiutava un solo invito a un programma televisivo, neanche alle previsioni del tempo. E, una volta lì, con il candore tipico degli spudorati riusciva ad affermare, senza che gli scappasse da ridere, che per risolvere il problema della disoccupazione era sufficiente ridurre l’orario di lavoro. Lavorare meno, lavorare tutti, però a una condizione: salari immutati. Già, ma chi paga? A questa banalità il sindacalista in tweed non ha mai pensato. Un’altra sua idea geniale per promuovere la piena occupazione era la seguente: far assumere dallo Stato tutti i disoccupati. Progetto affascinante ma non inedito; ci fu un commercialista di Bari dal cognome proporzionato al cervello, Rino Formica, il quale suggerì di trasformare in dipendenti pubblici i contrabbandieri. Anche qui la domanda è d’obbligo: chi paga?

Coerente con queste visioni di sciupio universale, nel 2006 il subcomandante Fausto si calò infine nella quotidianità e utilizzò un volo di Stato per recarsi in vacanza con la consorte nell’amena penisoletta di Quiberon, in Bretagna. Mi toccò strigliarlo in prima pagina su Libero. Ma lui non se ne diede per inteso. Continuò a servirsi degli aviogetti pagati dalla collettività anche per raggiungere Parigi, dov’era invitato al ricevimento per le future nozze della nipote del banchiere Mario D’Urso con Arthur de Kersauson de Pennendreff, e per farsi trasportare in Grecia, dove lo attendeva una visita privata ai monaci ortodossi del Monte Athos, così privata che si portò al seguito una troupe del Tg1 e il direttore di Radio Rai, Sergio Valzania. Del resto lo spirito ha le sue esigenze e l’ateo Bertinotti confessò, da segretario di Rifondazione comunista, che il primo quotidiano che sfogliava la mattina era L’Osservatore Romano, peraltro uscito nel pomeriggio del giorno precedente. Un uomo vigile, sempre sulla notizia.

Ogni volta che veniva pizzicato per questi lussi, Bertinotti dava sempre la stessa risposta attraverso l’ufficio stampa di Montecitorio: «L’uso di velivoli di Stato da parte delle più alte cariche istituzionali per i propri spostamenti è regolato da una direttiva del presidente del Consiglio dei ministri, emanata il 21 novembre dell’anno 2000, e dalle successive integrazioni. Le modalità di viaggio in Italia e all’estero, pertanto, non dipendono da un’autonoma scelta del presidente della Camera dei deputati, ma dal rispetto delle indicazioni dettate dal governo». Traduzione: sono ostaggio di questi grand commis dello Stato che pretendono di farmi viaggiare comodo, maledetti!

I medesimi motivi di sicurezza furono accampati persino per giustificare un intervento chirurgico alla prostata affrontato sotto Natale nella casa di cura privata Villa Margherita, fra le più esclusive e lussuose della capitale, anziché in un proletario ospedale del Servizio sanitario nazionale.

Rimane da capire perché Angela Merkel, quando viene in vacanza a Ischia, prenda un volo di linea Lufthansa per Napoli e faccia la coda con il marito al botteghino del molo Beverello, dove compra i biglietti dell’aliscafo pubblico. E soprattutto perché Bertinotti non abbia mai mosso un dito, nonostante fosse in suo potere farlo, affinché venissero modificati i regolamenti del kaiser che impediscono al presidente della Camera d’essere equiparato almeno al cancelliere tedesco. Voto: 4

BERTOLASO Guido (Roma, 1950). Medico. Dal 2001 al 2010 ha diretto il dipartimento della Protezione civile. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Berlusconi IV, s’è occupato fra l’altro dell’emergenza rifiuti in Campania e del terremoto in Abruzzo. Si è dimesso nel 2010 dopo aver ricevuto un avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per il G8 che avrebbe dovuto svolgersi alla Maddalena e che fu poi spostato all’Aquila. Nel 2013 è stato rinviato a giudizio.

Hanno sfasciato la Protezione civile per una palpatina. Ma si può? Che poi non è nemmeno vero che ci sia stata, pover’uomo, questa palpatina. Immaginavo, come tutti, che Bertolaso c’entrasse davvero nella pasticciata vicenda che gli costò il posto di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega a gestire i disastri ambientali di questo sciagurato Paese. Invece una controinchiesta con i fiocchi, svolta per Il Giornale da due fenomenali cronisti investigativi, Gian Marco Chiocci (poi meritatamente promosso direttore del Tempo) e Massimo Malpica, mi ha aperto gli occhi. E mi ha confermato che la fiducia in quest’uomo diventato simbolo di efficienza e tempestività era ben riposta. Ogni mossa di Bertolaso, ogni spesa, ogni passo sono documentati e quindi ampiamente giustificati. I sospetti sulle sue presunte ricreazioni con massaggiatrici e belle figliole brasiliane sono crollati davanti all’evidenza delle carte.

Che in ogni organizzazione umana possa allignare qualche ladro, è scontato. Ma da questo a impacchettare l’intera organizzazione ce ne passa. I Pm si sono basati su intercettazioni telefoniche – ingannevoli per definizione, e ognuno lo sa – per indagare sul capo della Protezione civile. Il quale, al rientro a Roma con la schiena a pezzi dopo qualche impegnativa missione, usava fare uno squillo al centro benessere (cui era abbonato) per avvertire che Francesca si tenesse pronta. Ullallà! Chi sarà mai Francesca? Una escort? Una geisha gentilmente offerta dalla ditta appaltatrice di qualche opera pubblica? Ma va’ là. Un’onesta lavoratrice specialista nel restituire scioltezza alle muscolature ingrippate. Per le massoterapie utili alla sua colonna vertebrale, Bertolaso ha sempre pagato di tasca propria. Controllare le ricevute, prego, prima di trarre conclusioni frettolose. Potrà forse dispiacere ai più sgallettati, ma in Italia esistono ancora massaggiatrici che si limitano a massaggiare e praticano soltanto trattamenti ortodossi. Anche se nell’inchiesta compariva una bonazza carioca, indicata quale compagna di giochi erotici del Signor Disavventura, trattavasi di equivoco, più maligno che malizioso. Infatti la bonona fu davvero messa a disposizione di Bertolaso (da un imprenditore in cerca di favori), ma il capo della Protezione civile la respinse, acquisendo il diritto all’assegnazione di una medaglia al valore, giacché rifiutare una ragazza di Ipanema è prova di eroismo che personalmente – confesso – non sarei riuscito a superare. Questo è Bertolaso, e scusate se è poco.

Certo, l’uomo oltre a non essere di legno non è neppure di cristallo e, nel circondarsi di collaboratori che fossero all’altezza del ruolo loro assegnato, può essergliene sfuggito qualcuno di statura morale al di sotto della soglia desiderata, qualcuno che probabilmente ha sgraffignato. Ma ciò succede in tutte le famiglie e non è mai un buon motivo per annientare l’intero parentado insieme con la pecora nera. E invece hanno eliminato la famiglia della Protezione civile con il pretesto dell’ovino morello, che nella fattispecie sarebbe stato Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici nonché Gentiluomo di Sua Santità, la cui colpevolezza però è ancora tutta da acclarare nelle sedi competenti. Ecco il punto. Valeva la pena smontare un organismo che funzionava solo perché un ingranaggio poteva essersi arrugginito? Non credo. Sarebbe stato meglio sostituire la rotella guasta con una integra.

Così Bertolaso ha preferito andarsene in pensione e, dato che è medico, ora si preoccupa di salvare vite all’ospedale di Yrol, nel Sudan meridionale. Intanto l’Italia affoga in due dita d’acqua ogni volta che c’è un temporale e rischia di finire seppellita sotto uno smottamento che comincerà a Vipiteno per fermarsi soltanto a Melito Porto Salvo. Sopravviveranno Sicilia e Sardegna, abituate da sempre a galleggiare. Voto: 7

BEVILACQUA Alberto (Parma, 1934 - Roma, 2013). Scrittore, regista, sceneggiatore, poeta e giornalista. Tra i suoi romanzi più noti, La califfa (1964) e Questa specie d’amore (1966, premio Campiello), da cui trasse due film di successo.

Se penso che fu additato come il mostro di Firenze! Ma vi rendete conto? Accadde nel 1995. Colpa di un’intervista pubblicata su un giornaletto, L’Altra Repubblica, in cui una poetessa di Genova, tale Anna Maria Ragni, intervistata da Gabriella Pasquali Carlizzi, gettava sullo scrittore l’incredibile sospetto, questo sì mostruoso. Entrambe le signore furono indagate per calunnia. Nel frattempo Bevilacqua ne ebbe la vita rovinata. Credo che l’espressione perennemente afflitta del suo volto, aggravata dalle sopracciglia aggrottate e dalle borse sotto gli occhi, derivasse da quella surreale disavventura.

Al Corriere della Sera teneva la rubrica della critica televisiva. A presentarmelo fu il caporedattore Lorenzo Pilogallo, con il quale avevo un ottimo rapporto. Mi era piaciuto molto La califfa, sapevo tutto di lui. Era stato giornalista sul campo, come me. Lo aveva scoperto Leonardo Sciascia, che un giorno del 1955 s’era presentato di persona – essendo Bevilacqua sprovvisto di telefono – nella sua modestissima casa di Parma. «C’è alla porta un tizio vestito di nero come un becchino che vuol parlare con te», gli disse la madre. Tramite un amico parmigiano, lo scrittore siciliano aveva avuto occasione di leggere il primo romanzo del giovanotto, La polvere sull’erba, che però sarebbe uscito soltanto 45 anni dopo. Gli era venuta voglia di conoscerlo. Credo che Sciascia sia stato uno dei pochi, se non l’unico, a dimostrargli simpatia. Per il resto Bevilacqua era detestato dalla casta dei sopracciò della cultura, che, invidiosi del suo successo, lo trattavano come un romanziere da collana Harmony.

Ho molto riflettuto sulla leggenda metropolitana che gli avvelenò l’esistenza. Credo che a favorirla sia stata la marcata predilezione di Bevilacqua per i temi scabrosi. Un imprinting che si portava appresso dall’età di 6 anni e mezzo, quando, come ha rievocato in Lui che ti tradiva, fu violentato da una donna apparsa dal nulla, un’orchessa scortata da due cani minacciosi, la quale lo obbligò a sottostare alle sue voglie mentre, tutto nudo, prendeva il sole sulle rive del Po.

Ebbi conferma di questa propensione il giorno in cui ci stringemmo la mano per la prima volta nell’ufficio di Pilogallo. Non capisco per quale motivo Bevilacqua volesse convincermi d’essere frocio. O forse l’ho capito benissimo dopo aver letto il resoconto dell’incontro che ha avuto un anno prima di morire con un altro corrierista, Aldo Cazzullo, al quale ha raccontato che a Parma la sodomia era di casa e che la città arrivò ad accusare di zooerastia la propria sovrana, la duchessa Maria Luigia, imperatrice dei francesi, per i suoi accoppiamenti con Alexandre, che non era Dumas bensì il suo cavallo. Ma la cosa più divertente, nel mio caso, fu che Bevilacqua insistette perché diventassi a mia volta gay, magnificandomi le godurie paradisiache delle pratiche omosessuali. Ovviamente scherzava e la sceneggiata finì con grosse risate. Ma confesso d’essere rimasto in dubbio fino all’ultimo e d’aver sudato freddo. Voto: 8

BIAGI Enzo (Pianaccio, Bologna, 1920 - Milano, 2007). Giornalista, scrittore e conduttore televisivo. A 17 anni cominciò a collaborare all’Avvenire d’Italia con un articolo sul poeta Marino Moretti. Nel 1939 fu assunto al Carlino Sera, edizione del pomeriggio del Resto del Carlino. Militante nel Partito d’azione, agli inizi del 1944 combatté per 14 mesi come partigiano sull’Appennino tosco-emiliano con Giustizia e libertà. Fu direttore di Epoca (1952-1960), del Telegiornale della Rai (1960-1962) e del Resto del Carlino (1970-1971) e inviato speciale della Stampa e del Corriere della Sera, del quale restò collaboratore fino alla morte. Scrisse anche per La Repubblica, Panorama e L’Espresso. Per la Rai realizzò programmi di grande ascolto, come Terza B: facciamo l’appello, Dicono di lei, Film dossier, Linea diretta, Il caso, I dieci comandamenti all’italiana e Il fatto. Ha lasciato un centinaio di libri.

Ha scritto più libri di quanti ne abbia letti. In televisione faceva il parroco di campagna. Ma in redazione, se qualcosa andava storto, smadonnava come un camallo – giaculatorie che avrebbero tramortito il suo amico cardinale Ersilio Tonini – soprattutto quando qualche imbecille rischiava di rovinargli il lavoro, e dunque la vita, dal momento che Biagi non sapeva distinguere l’uno dall’altra.

Vederlo affrontare una cofana di tagliatelle al ragù dopo una giornata passata negli studi Rai di corso Sempione a Milano era uno spettacolo che avrebbe meritato il pagamento del biglietto. A dispetto dei sei bypass aortocoronarici con cui alla fine fu seppellito, si concentrava sul piatto, alla maniera di Renato Farina, e non staccava l’occhio finché non l’aveva completamente prosciugato. Poi si puliva la bazza con il tovagliolo, si lisciava la camicia che gli tirava sulla pancia come una membrana e imprecava: «Boia d’un mànnd lèder, non riesco a capire perché continuo a ingrassare!»

È questo il primo Enzo Biagi che ricordo, anno 1982. Il conduttore di Film dossier. Mi reclutò nella compagnia di giro che allestiva la trasmissione per la Rai e mi fece rinnovare il contratto anche per Linea diretta. Con me c’erano, fra gli altri, Giampaolo Rossetti, inviato di Oggi, detto Manette per le sue intense frequentazioni con carabinieri e affini, che poi avrei ritrovato all’Europeo; Romano Cantore, “pistarolo” di Panorama che in fatto di terrorismo e bombe non era da meno; il promettente Lamberto Sposini; Sandro Vannucci, che dieci anni dopo sarebbe arrivato alla conduzione di Linea verde.

Vi chiederete perché il grande Biagi fosse venuto a cercare proprio un manovale orobico. È presto detto. Prima che lasciasse il Corriere della Sera acciaccato dallo scandalo della P2 e si trasferisse alla Repubblica, ero io l’incaricato a ripassare i suoi pezzi che arrivavano in via Solferino. Siccome li scriveva a mano sul blocnotes, e poi li consegnava alla fedele segretaria Pierangela Bozzi per la battitura a macchina, era inevitabile che ci scappasse qualche refuso o che insorgessero dubbi interpretativi. Allora gli telefonavo per avere lumi e talvolta gli chiedevo il permesso per apportare qualche variazione semantica o sintattica tesa a rendere più fluido il discorso. Lui acconsentiva e ringraziava.

Una volta gli parai il culo da non mi ricordo più quale strafalcione. Pochi giorni dopo venne in redazione e volle conoscermi. Nella circostanza si complimentò per un pezzo che avevo scritto e che era molto piaciuto anche al suo amico Sandro Bolchi, regista del film Disonora il padre tratto dall’omonimo romanzo di Biagi. Ne nacque un bel rapporto. Cominciò a dire in giro che Feltri era il miglior fico del bigoncio di via Solferino, e confesso che dovetti cercare sullo Zingarelli il significato della parola “bigoncio”. A Natale non mancava mai di mandarmi i volumi della sua Storia d’Italia a fumetti per i miei figli, all’epoca poco più che bambini.

L’intesa s’incrinò nel momento in cui passai a dirigere L’Europeo. Mi sarei aspettato che mi facesse gli auguri. Invece non disse nulla. Gli scocciava che avessi preso il posto di Lanfranco Vaccari, messo lì da Lamberto Sechi, direttore editoriale dei periodici Rizzoli, sodale e quasi coetaneo di Biagi. Per una volta tanto, Sechi non era riuscito a esercitare il diritto di veto politico sulla nomina, visto che a scegliermi era stato l’amministratore delegato della Rcs in persona, Giorgio Fattori. Il fatto poi che fossi sopravvissuto a uno sciopero preventivo di due mesi, forse il più lungo nella storia del giornalismo, scatenatomi contro da una redazione di sinistra che m’impedì persino l’accesso fisico al mio ufficio, lo disturbava parecchio, anche perché fra gli ammutinati più accaniti c’era Stefano Jesurum, marito di Carla, una delle sue tre figlie.

Quando assunsi la direzione dell’Indipendente, l’ostilità sotterranea trovò il modo di affiorare. A scatenarla bastò una scemenza. Biagi aveva commentato l’omelia di fine anno del presidente della Repubblica con un articolo, uscito sulla prima pagina del Corriere il 2 gennaio 1993, che cominciava così: «Ascoltavo Oscar Luigi Scalfaro e pensavo: “Questo è un Paese che, ogni tanto, ha bisogno di riconoscersi in un galantuomo: re o presidente, non importa”. Lo osservavo: forse quella cravatta a righe blu e oro gliel’ha scelta la figlia; forse è a lei, così discreta, che chiede consiglio». A me questa faccenda del capo dello Stato che si consulta davanti allo specchio con la Marianna per decidere come deve agghindarsi prima di andare in onda a reti unificate dalla sala del caminetto, «cara, metto la cravatta regimental? o è meglio quella blu scuro con punta a spillo bianco? non mi farà troppo Berlusconi?», parve di una comicità irresistibile. Nell’incipit del pezzo, poi. Per cui lo presi un po’ per il culo con qualche innocente frecciatina. Il Biagi giornalista al posto mio avrebbe fatto lo stesso. Ma il Biagi senatore del Regno se la prese a morte: avevo peccato di lesa maestà.

Con il mio passaggio al Giornale, l’ostilità si trasformò in odio, o giù di lì. Come avevo potuto mettermi al servizio della famiglia Berlusconi? Non gli andò a genio nemmeno la campagna di stampa su Affittopoli, che pure in altri tempi avrebbe firmato volentieri, se solo si fosse fatto venire il coraggio di scavare più a fondo nei conti di quello Stato che, attraverso la Rai, gli versava poco meno di 1 miliardo di lire l’anno per 5 minuti di trasmissione serale. Ne diceva in giro peste e corna: che razza d’inchiesta è? come si può fare d’ogni erba un fascio? è questo il modo di guadagnare le copie? Lo giustifico: chi esce dal gruppo, va in testa, comincia una lunga fuga solitaria e vince la tappa del Giro d’Italia, diventa subito antipatico ai compagni di squadra. E poi è tipico dei vecchi lagnarsi di tutto, parlo per esperienza personale.

Durante le feste natalizie del 1993 andai a trovarlo al centro cardiologico Italo Monzino di Milano, dov’era stato ricoverato dopo l’ennesimo accidente cardiovascolare. Ormai circolava la voce che avrei sostituito Indro Montanelli al Giornale. Nonostante gli avessero appena applicato altri due bypass alle coronarie, trovò la forza di cazziarmi: «Perché hai fatto questo dispetto a Indro? Rubargli la direzione!»

Quell’infartazzo fu nulla a confronto con il colpo al cuore che gli procurò nove anni dopo il cosiddetto “editto bulgaro”, quando il premier Silvio Berlusconi, in visita a Sofia, si lasciò andare a un’esternazione contro «l’uso criminoso» che Biagi, insieme a Michele Santoro e al comico Daniele Luttazzi, a suo avviso stava facendo «della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti». Non sto a sindacare chi avesse torto e chi ragione. Dico solo che una persona provveduta come Fenomeno Biagi, per usare il soprannome affibbiatogli da Sergio Saviane, avrebbe dovuto aspettarsi una vendettina del Cavaliere. Mica per altro: lo attaccava in Tv una sera sì e una no. Non c’era vigilia di elezioni politiche in cui egli mancasse di tirare la volata al candidato del centrosinistra, intervistando Roberto Benigni per sbertucciare il leader del centrodestra, la cui «discesa in campo» fu persino paragonata alla cagata che il padre contadino del comico toscano andava a farsi ogni sera en plein air nell’orto dietro casa. Per Biagi questa era satira. Sarà. Sta di fatto che mai una volta lo si udì motteggiare sulle pisciate fuori dal vaso del suo amico Romano Prodi.

Quella sera stessa, era il 18 aprile 2002, il conduttore del Fatto decise di replicare a Berlusconi a botta calda, in diretta, con un’autodifesa dai toni francamente sopra le righe. «Quale sarebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento alla delinquenza, falso e diffamazione? Denunci», sfidò il premier. «Signor presidente Berlusconi, dia disposizione di procedere, perché la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri». La buttò sul melodrammatico, scomodando gli Alti Ideali: «Sono ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spazio per la libertà di stampa». Tirò in ballo «il principio della democrazia» e la Costituzione. Si atteggiò a martire, affermando: «Lavoro qui dal 1961 ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto», sorvolando sul fatto che proprio nel 1961 era stato costretto a sloggiare dalla direzione del Telegiornale, accusato di faziosità dal ministro di Grazia e Giustizia, il democristiano Guido Gonella; non proprio uno qualunque: si trattava di colui che 24 mesi più tardi avrebbe licenziato la legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, il giurista-collega che fissò i diritti e i doveri tuttora vigenti per la salvaguardia della libera informazione.

Infine Biagi ci mise il carico da undici: «L’idea poi di cacciare il comico Luttazzi è più da impresario, quale lei è del resto, che da statista». Un’insolenza irritante. Scritta sul Corriere avrebbe anche potuto starci. Ma in quel momento Berlusconi era il capo del governo in carica e Biagi fingeva di dimenticare che il proprietario della Rai resta pur sempre, con il 99,56 per cento delle azioni, il ministero dell’Economia e delle Finanze. Coglionare il titolare dell’esecutivo non pareva il modo migliore per metterci una pezza.

Anche sulle modalità con cui si pervenne all’esecuzione dell’“editto bulgaro” ci sarebbe molto da dire. Il leghista Davide Caparini, che all’epoca era vicepresidente della commissione di vigilanza sulla Rai, ha smentito la vulgata che viene tuttora propalata dalla stampa di regime. Si deve sapere che Il fatto di Biagi accusava un calo di ascolti per colpa di Striscia la notizia e i vertici della Rai non potevano permettersi di perdere nemmeno un telespettatore, perché altrimenti sarebbero stati accusati di favorire Mediaset. La Tv di Stato propose allora al giornalista 10 prime serate e 10 seconde serate per due anni. Biagi non accettò. Così come rifiutò lo spostamento del Fatto su Rai 3, preferendo togliere il disturbo con una buonuscita di 1,5 milioni di euro.

La cosa più incredibile, passata del tutto sotto silenzio, è che fu lo stesso perseguitato a smentire la persecuzione in un dispaccio che l’Ansa diramò alle 20.13 dell’8 gennaio 2003, nel quale egli precisava di non essere stato «buttato fuori dalla Rai: al contrario». Nella nota scritta di suo pugno sottolineava: «Con la stessa ho raggiunto, di mia iniziativa, un accordo per me pienamente soddisfacente che gratifica, sotto tutti i profili, morali e materiali, i miei 41 anni dedicati alla Rai». Il titolo di una notizia così dirompente avrebbe dovuto essere come minimo «Biagi: nessuno mi ha cacciato». L’Ansa invece se la cavò con un anodino «Tv: ascolti; Biagi, Fatto era buon concorrente Striscia».

La verità, se proprio vogliamo dirla tutta, è che dopo aver lavorato per anni in accoppiata con Luciano Arancio, un regista di grande cultura, negli ultimi tempi Biagi s’era legato mani e piedi a Loris Mazzetti, un pasdaran fra i più politicizzati che esistano in Rai, passato dalla regia dei Mondiali di calcio Under 17 a Che tempo che fa, sospeso per 10 giorni dal lavoro per le critiche rivolte all’azienda che gli paga lo stipendio, rea, a suo avviso, di rispettare la par condicio evitando la messa in onda di Ballarò e Annozero in campagna elettorale. Questo Mazzetti stava a Biagi come Federico Orlando o Vittorio Corona stavano al Montanelli della Voce; tipi specializzati nell’assecondare, se non nel propiziare, gli sbandamenti senili di maestri famosi, sulle cui spalle si appollaiano per lucrare un po’ di celebrità, impancandosi poi a esegeti del defunto quando restano senza trespolo, come ha ben evidenziato Pierluigi Battista su Twitter: «Perché le figlie di Enzo Biagi consentono a uno sfaccendato come Loris Mazzetti di sfruttare così il lavoro del loro padre?» La severa critica dell’ex vicedirettore del Corriere nasceva dal modo in cui il poco illustre sconosciuto ancor oggi utilizza sul Fatto Quotidiano le più celebri interviste del grande giornalista, riuscendo a condirle con dotte rivisitazioni, come quando ha trasformato La montagna incantata di Thomas Mann in La città incantata.

Sia come sia, Biagi cominciò a morire il giorno stesso in cui non ebbe più a disposizione il pulpito televisivo per la sua predica serale dopo il tiggì. Da quel momento l’età e le insufficienze idrauliche della pompa cardiaca cominciarono a farsi sentire in modo drammatico. Non si ha idea di quanto la popolarità allunghi la vita. Finché si è sulla cresta dell’onda, baciati dal successo, tutto funziona a meraviglia, non ci si ammala mai. Ma non appena il personaggio di potere è condannato all’anonimato, anche la sua salute perde colpi, le difese immunitarie vanno a farsi benedire. Ho ancora davanti agli occhi l’esempio desolante di Giovanni Spadolini. Nel 1994 doveva essere confermato alla presidenza del Senato. Invece fu sconfitto per un solo voto da Carlo Scognamiglio. Questo accadeva ad aprile. Spadolini ci rimase da cani. Meno di quattro mesi dopo era già morto: di tumore.

Dopo un lustro di assenza dal video, con un Biagi fiaccato nello spirito dalla scomparsa della consorte Lucia Ghetti nel 2002 e dalla morte prematura, l’anno successivo, dell’ultimogenita Anna, vi fu un penoso tentativo di rianimazione che si tramutò nel canto del cigno. Il suo appartamento milanese di via Vigoni venne addirittura trasformato da Rai 3 in un set per consentire all’anziano giornalista di andare in onda con le pantofole ai piedi. Quelle che la moglie chiamava «le camere delle bambine», dov’erano cresciute le figlie Bice, Carla e Anna, furono attrezzate una a studio televisivo, con telecamere e controsoffitti per le luci, e l’altra a cabina di regia, con monitor e consolle. Così, accampato per due mesi fra matasse di cavi, in mezzo a un andirivieni di tecnici e cameraman, Biagi poté registrare sette puntate di RT Rotocalco televisivo, una strampalata riedizione di quello che lui stesso aveva lanciato, novità assoluta nella storia della Rai, 45 anni prima. L’ultima trasmissione andò in onda a giugno. Ai primi di novembre il conduttore morì.

Nonostante i frequenti contrasti, con Biagi ho mantenuto rapporti civili sino alla fine. Soddisfatto perché mi ero allontanato dall’orbita berlusconiana, quando stavo a Libero insisteva perché ritornassi al Corriere come editorialista: «Ci metto una buona parola io, se vuoi».

Non era un analista politico. Le sue intuizioni gli venivano dettate più dal sentimento che dalla razionalità. Ma è stato un raccontatore e un intervistatore di straordinaria abilità, che ha saputo come pochi parlare al cuore della gente. Anche tacendo. Voto: 9+

BIGNARDI Daria (Ferrara, 1961). Conduttrice televisiva. È stata per quattro anni account executive dell’agenzia pubblicitaria Tbwa. Giornalista professionista dal 1992, dopo il praticantato a Chorus. Ha collaborato con Panorama e Anna e ha fatto parte della redazione di Milano Italia, programma di Rai 3, sia con Gad Lerner che con Gianni Riotta. Ha presentato le prime due edizioni del Grande Fratello su Canale 5 e diretto il mensile Donna. Conduce Le invasioni barbariche su La7. È sposata con Luca Sofri, figlio di Adriano.

Mi dispiace di averla strapazzata in una puntata delle sue Invasioni barbariche. E non solo perché la considero quasi una di famiglia, essendo la zia di Annalena Benini, moglie di mio figlio Mattia, ragazza arguta, carina, che scrive benissimo e che stimo molto. Ma bisogna tener conto dei precedenti. Fra me e la Bignardi c’era già stata una polemica dopo che nel suo talk show su La7 aveva massacrato il mio amico Luciano Moggi, trattando l’ex manager della Juve come se fosse la controfigura del suo quasi omonimo Lucky Luciano. Lo tempestava di obiezioni e poi, quando l’altro stava per rispondere, gli dava sulla voce, gl’impediva di parlare.

Lei disse che l’avevo insultata (a me non pare: credo di essere stato un po’ acido, ma non offensivo). Per cui, quando m’invitò nel suo salottino tv, mi guardai bene dall’accettare: non sono mica nato stamattina presto. Allora che fece la Bignardi? Mise di mezzo il maritino della nipote. Mattia telefonò alla Enoe, sua madre e mia moglie, affinché intercedesse: «Sai, è una puntata di alto valore sociale, dedicata alla depressione...»

Vi starete chiedendo che cosa c’entri io con la depressione. C’entro. Ne ho sofferto negli anni Novanta. La prima a diagnosticarmela fu Fiorella Minervino, che lavorava con me al Corriere della Sera. Dieci giorni di ricovero alla casa di cura Le Betulle, a Milano. In sei mesi imparai a controllarla, a mascherarla, finché dopo un anno sparì. Adesso sono diventato un esperto di me stesso. Appena mi sembra di cogliere qualche sintomo, corro a farmi vedere.

Alla fine cedetti alle richieste di Mattia e di mia moglie. Salvo scoprire che alle Invasioni barbariche, più che parlare della depressione, la Bignardi voleva sfruculiarmi su Gianfranco Fini e sulla casa di Montecarlo. Non che fossi impreparato sull’argomento. Era lei semmai a ignorare totalmente lo svolgimento dei fatti, ponendomi domande evidentemente preparate da altri e muovendomi obiezioni cervellotiche. Prese a rompermi i coglioni su tutto: su Emma Marcegaglia, sul caso Boffo, sulla “macchina del fango”, su Berlusconi, persino sulla foto di Ciccio, il gatto che mi ha tenuto compagnia per 16 anni, conservata come ricordo sul display del telefonino. «Cioè la foto del gatto mortooo?», ha squittito lei scandalizzata. Pensava che avessi come salvaschermo un’immagine della carcassa di Ciccio. Serve una bella fantasia.

Comunque non è che per questo odi Daria Bignardi. Faccio fatica a voler bene, figuriamoci a voler male: troppo dispendio di energie. Sono tornato da lei nel marzo 2013 per un’intervista in coppia con Pippo Civati, candidato alla segreteria del Pd, e quella volta lì mi sono trovato benissimo. Mi ha regalato il suo ultimo romanzo, L’acustica perfetta. L’ho persino letto. Voto: 6

BISCARDI Aldo (Larino, Campobasso, 1930). Conduttore televisivo. Esordio alla Gazzetta dello Sport. Dal 1951 collaboratore fisso di Paese Sera, dove nel 1956 è stato promosso capo dello sport. Assunto in Rai nel 1979, nel 1983 ha ideato per la terza rete Il processo del lunedì, poi divenuto Il processo di Biscardi. In seguito l’ha portato su varie emittenti (Tele+, Telemontecarlo, La7, 7 Gold, T9), fino alla 34ª edizione nella stagione calcistica 2013-2014. Nel 2006 si è dimesso dall’Ordine dei giornalisti per protesta contro una sospensione che gli era stata inflitta per alcune telefonate compromettenti con Luciano Moggi emerse durante l’inchiesta su Calciopoli, prive di rilevanza penale.

Pensate quello che volete, ma nel suo genere è un asso. E non lo dico per essere stato ospite un’intera stagione alla moviola del suo Processo. Siccome è nato a Larino, lo sfottono per l’accento molisano. Sarà che da piccolo in estate venivo impacchettato e mandato in vacanza da una mia zia a Guardialfiera (Campobasso), nella valle del Biferno, non capisco questa forma di razzismo linguistico. Come prenderlo in giro per la capigliatura color carota: ma che razza di argomento sarebbe?

Anche certe espressioni estemporanee di Biscardi, deplorate come balordaggini, a me sembrano semplicemente deliziose, tipo «abbiamo uno sgoop», «non ci sarà più un duello a due», «hai messo la piaga nel dito», «non parlate tutti insieme, al massimo due o tre alla volta», «cerchiamo di non provocare scintille polemiche, altrimenti si sollevano polveroni che intorbidano le acque». Sospetto che le pronunci a bella posta, che le inventi sul momento per far parlare di sé e consegnarsi alla leggenda. Oppure è un dadaista a sua insaputa.

Quando un giornalista riesce a mettere in piedi un baracchino così particolare, capace di assicurare un’audience pazzesca, andrebbe soltanto elogiato. Soprattutto da quelli, e sono un’infinità, che cercano d’imitarlo senza successo dopo averlo criticato per anni. Voto: 6

BISIGNANI Luigi (Milano, 1953). Ex giornalista e scrittore. Ha passato i primi dieci anni della sua vita in Argentina, dove il padre era direttore della Pirelli per il Sudamerica. È stato redattore dell’Ansa, occupandosi di terrorismo, servizi segreti, massoneria e Vaticano, e collaboratore di Panorama, L’Espresso e Tempo Illustrato. Ha pubblicato due spy story per le quali il Corriere della Sera lo ha definito «il Ken Follett italiano». Durante la Prima Repubblica è stato capo ufficio stampa dei ministeri del Tesoro, dei Lavori pubblici e del Commercio con l’estero. Nel 1991 ha lasciato l’attività giornalistica per passare al gruppo Ferruzzi. Ha ricoperto l’incarico di consigliere di amministrazione dell’agenzia Ansa e della Fieg (Federazione italiana editori giornali). Nel 1998 ha avuto una condanna a 2 anni e 6 mesi nel processo Enimont e nel 2011 ha patteggiato 1 anno e 7 mesi per la vicenda P4. Il suo nome figurava negli elenchi della P2. Ha sempre smentito l’appartenenza alla massoneria. Radiato dall’Ordine dei giornalisti del Lazio nel 2000.

So poco o nulla delle sue vicende processuali, quindi mi astengo dall’esprimere pareri in proposito. Ci ho parlato insieme solo qualche volta, l’ultima nell’autunno 2013 al ristorante dell’hotel Westin Palace di Milano, dov’è arrivato in compagnia del comune amico Paolo Cirino Pomicino. E ogni volta ho pensato fra me e me: ci siamo persi per strada un uomo che avrebbe potuto benissimo ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio. Per la conoscenza che ha della macchina statale e del suo funzionamento, per l’abilità nel disegnare scenari politici e nell’intessere rapporti trasversali, per le doti diplomatiche, per le relazioni ad alto livello che vanta sia in Italia sia all’estero, per le capacità dialettiche e, non ultima, per la signorilità nel comportamento, credo che Giulio Andreotti, accanto al quale Bisignani ha trascorso 40 anni della propria vita, non avrebbe potuto affidarsi a braccio destro migliore.

Dicono che sia, o che fosse, fra gli uomini più potenti d’Italia, se non il più potente. Lui ha sempre preferito un’altra definizione, «stimolatore d’intelligenze». A darla, fu un cardinale. Poiché il potere vero è per sua natura ascoso (occulto, per usare un aggettivo caro ai dietrologi), gli italiani si sono accorti dell’esistenza di Bisignani, detto Bisi, soltanto nel 2013, dopo l’uscita del libro-intervista L’uomo che sussurra ai potenti, scritto con Paolo Madron, che ha subito scalato le classifiche e lo ha costretto a esibirsi in televisione e nelle piazze. A procurargli tanta indesiderata notorietà sono state le intercettazioni – 19.000 pagine di bla bla telefonico – tra lui e mezzo mondo politico, economico, finanziario e giornalistico, bella gente e gente così così, finite nel fascicolo dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 condotta dai pubblici ministeri napoletani Francesco Curcio e Henry John Woodcock. I contenuti del chiacchiericcio erano deludenti. Nulla di piccante, sesso zero, gossip ermetico. Frasi sospese a metà, allusioni, richieste e concessioni di favori, esclamazioni. L’unica certezza che si ricavava da quell’accozzaglia di ciarle era la totale futilità che ispira chiunque confabuli al cellulare. Il telefonino ci ha resi pressoché analfabeti, incapaci d’iniziare e concludere un discorso sensato e comprensibile. Sarà che si sta diffondendo la sindrome dello spionaggio, ma ormai la gente si mantiene sulle generali persino quando chiama a casa per dire alla moglie di buttare la pasta. La prudenza non è mai troppa. Un mio amico fu intercettato dal brigadiere di turno mentre diceva al suo fornitore di piastrelle: «Allora, cosa aspetti a portarmi la roba?» La mattina seguente lo arrestarono. Gli inquirenti avevano erroneamente creduto che «la roba» fosse cocaina. Dieci giorni in galera. Non scherzo. Si chiamava Giorgio Giangolini, geometra, incensurato. Gestiva un’impresa edile a Bergamo. Passata una decina d’anni dalla brutta esperienza, all’udire una sirena gli partiva la tachicardia: era sicuro che stessero arrivando ad ammanettarlo di nuovo.

Scorrendo i nomi illustri con cui aveva a che fare Bisignani, sono caduto preda di due sentimenti contrapposti: da un lato di sollievo per non essere finito nei guai a causa di qualche telefonata di dubbia interpretazione, dall’altro di abbattimento per non essere mai stato blandito dall’eminenza grigia dei palazzi romani. Nelle 19.000 cartelle depositate dai magistrati, manco una conversazione fra di noi. Al che ti tocca concludere amaramente: si vede proprio che non conto un cazzo. E ciò nuoce molto alla preservazione del proprio livello di autostima.

Eppure almeno una volta anch’io gli avevo parlato al telefono per una questione che mi stava a cuore. Accadde quando una signora, che non citerei nemmeno sotto tortura, mi riferì che Bisignani aveva sofferto per anni di diverticolosi, ma, grazie a una cura miracolosa, aveva debellato per sempre il disturbo. Poiché fra chi è affetto dalla stessa malattia s’instaura una sorta di complicità, mi azzardai a comporre il numero del Bisi. Fu di una premura deliziosa. Mi prescrisse Normix, Reuterin e Psyllogel, dettagliandomi la posologia. In cambio non chiese nulla, neppure una breve sul Giornale. O era Libero? Non ricordo l’epoca con precisione. Da allora, grazie alla terapia del dottor Bisignani, non soffro più di diverticolite. Il mio legame con il presunto Grande Maestro della P4 è tutto qui: di origine intestinale. Devo vantarmene?

Rilevo una contraddizione stridente. Nei giorni in cui il Bisi, impropriamente definito “faccendiere” con l’intento di sminuirlo, era sotto inchiesta della magistratura, i giornali gli dedicarono pagine e pagine, titoli e titoli, spiegando quanto questo personaggio fosse influente nel complicato mondo romano, dove la politica s’intreccia con gli affari dando vita a battaglie sotterranee per la conquista di poltrone e poltroncine. Stando alla vulgata, era capace di promuovere o stroncare carriere e di tirare i fili di mille burattini, accontentando quanti, sovente in ginocchio, talvolta sdraiati (o sdraiate), imploravano il suo aiuto. Un deus ex machina in grado di arrivare lassù. Nessuno dubitava delle capacità del “faccendiere”, tant’è vero che centinaia di persone affollavano la sua anticamera, brigavano per avere un appuntamento con lui. Poi, finito in disgrazia, la sua corte (dei miracolati) si è squagliata. Vabbè, succede: la gratitudine è il sentimento della vigilia, mentre la vigliaccheria è l’inossidabile denominatore comune dell’umanità. Ma c’è un limite anche alla codardia. Nella circostanza è stato superato ampiamente. Prim’ancora che le sue memorie fossero giunte in libreria, un sacco di gente – compresa quella beneficiata dall’abile stratega – ha preso le distanze dal proprio benefattore. La Repubblica, che pure si giovò delle sue confidenze, ha affidato il memoriale del Bisi alla penna acuminata di Alberto Statera, che lo ha liquidato parlando di «tanta piccola spazzatura, qualche veleno e molte vendette personali», come se esistesse una spazzatura di alto lignaggio. Ridicolo.

Per quanto mi riguarda, posso testimoniare che Bisignani nel suo libro ha dimostrato di conoscermi a fondo. Mi ha descritto così: «È insofferente a tutto, sempre alla ricerca di nuove sfide. Anche quando appare in collegamento in televisione, dopo un po’ si annoia. Sotto il tavolo ha sempre un bicchierino di whisky e una sigaretta accesa». La pura verità. Mica male per uno che non ha mai messo piede nel mio ufficio.

Ora non ho ben capito quale sia la sua professione. Di sicuro non può più fare il braccio destro di Andreotti, e neppure quello sinistro. Però potrebbe diventare l’arto sostitutivo del premier. Pochi conoscono la pubblica amministrazione come Bisignani e molti dei politici sciamannati che abbiamo avuto in sorte dovrebbero andare a ripetizione da lui. Mi ha detto che ha finito di scrivere un altro libro. S’intitola Il direttore. Pare che il pettinato protagonista, uno stimato collega milanese che l’autore ha conosciuto molto bene, lavori dalle parti di Brera. Attendo con trepidazione di leggerlo. Voto: 7

BOCCA Giorgio (Cuneo, 1920 - Milano, 2011). Giornalista e saggista. Prese parte alla Resistenza come partigiano. Esordì alla Gazzetta del Popolo. Fu inviato dell’Europeo e del Giorno e tra i fondatori della Repubblica. Collaborò con L’Espresso. Negli anni Ottanta curò parecchie trasmissioni sulle reti televisive di Silvio Berlusconi.

Era una grandissima carogna. Però bravo. A Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa, confidò: «Di Feltri non penso niente, perché mi fa paura». Concetto ripetuto poi anche in televisione. Siccome a quel tempo abitavamo entrambi in via Giovannino De Grassi, a Milano, e le nostre abitazioni confinavano, Vanity Fair s’inventò che ci eravamo tacitamente accordati per uscire lui dal cancello est e io dal cancello ovest, in modo da evitare brutti incontri.

Bocca mi aveva intervistato quand’ero direttore dell’Indipendente e gli scappò pure di esprimere lusinghieri giudizi sul collega che aveva raccattato un foglio agonizzante, ridandogli vita. «Ma ora le cose sono cambiate», dichiarò dopo il mio passaggio al Giornale. «Quella forma di bravura professionale non m’interessa più. Non ammiro chi è bravo, se è bravo soltanto a fare le camere a gas». Non male, come bestialità, pronunciata da uno che, quando lavorava all’Europeo, nei corridoi si sentì redarguire dall’editore Angelo Rizzoli in questi termini: «Il direttore del Corriere, Mario Missiroli, mi ha parlato di lei. Mi ha detto: “Ha le mani lorde di sangue”».

Bocca nel 1942 vergava editoriali contro gli ebrei sulla Provincia Grande, foglio d’ordini settimanale della Federazione dei fasci di combattimento di Cuneo. Il 5 gennaio 1943 – stando alle carte in possesso del collega Massimo Fini – denunciò alla polizia fascista l’industriale Paolo Berardi perché sul treno Cuneo-Torino costui s’era lasciato andare con alcuni alpini reduci dal fronte russo e dalla Francia, sostenendo che la guerra di Mussolini e Hitler era ormai perduta. Il giornalista avrebbe pure rifilato una sberla al loquace viaggiatore, che fu arrestato e condannato a 2 anni di confino.

Ma Bocca non merita di essere trattato come un tizio qualsiasi, perché nel bene e nel male ha rappresentato un’epoca e un popolo. Per anni ha tenuto sul settimanale L’Espresso una rubrica intitolata L’antitaliano. Credo che il titolo lo avesse scelto lui, in buona fede. Era davvero convinto di essere un antitaliano. In realtà era più italiano degli italiani. Per capirlo, basta scorrere i dati salienti della sua biografia, piuttosto nota ma tenacemente ignorata dagli addetti ai lavori onde non rovinare la digestione all’incazzoso maestro piemontese.

Cresciuto con Benito Mussolini al potere, come la maggioranza dei compatrioti di quel periodo fu fascista. Con un’aggravante. Non si limitò a un’adesione conformistica al regime. Avendo già un temperamento passionale, egli ne divenne un discepolo divorato dal sacro fuoco squadristico. Al punto da scrivere vigorosi articoli in difesa della razza, ovviamente ariana. Intendiamoci, non è il caso di scandalizzarsi troppo per il fatto che una giovane camicia nera mettesse su carta teorie allora condivise o quantomeno tollerate, nonostante fossero aberranti. Però non si può neppure sorvolare su simili particolari.

Dopo l’8 settembre 1943, a Duce bell’e fritto e a guerra ormai persa, Bocca aderisce alla lotta partigiana. In questo tempismo sospetto rivela la propria italianità genuina, cioè la capacità di prevedere il peggio e di salvarsi le chiappe correndo in soccorso del probabile vincitore. Ma anche qui non c’è da stupirsi: la stessa operazione accomunò milioni di connazionali voltagabbana. Difatti, a Liberazione avvenuta, il fascismo, che aveva avuto oceanico consenso nel Paese, si trovò d’un colpo non solo senza capo, ma anche senza coda, essendo spariti d’incanto tutti i suoi sostenitori, passati in blocco sull’altra sponda. Alla cimice del Pnf, che per un ventennio aveva contraddistinto i baveri di tutta Italia, subentrarono le spillette del Pci e dell’Azione cattolica.

La necessità aguzza l’ingegno. E Bocca era di sicuro ingegnoso. Tant’è che la professione di antifascista, sia pure della penultima ora, gli consentì di campare di rendita per il resto della vita. Insisto: nessuna meraviglia e nessuna deplorazione. Molti altri intellettuali e giornalisti famosi seguirono un percorso in parte analogo a quello di Bocca, da Eugenio Scalfari a Giovanni Spadolini, per citare due protagonisti giustamente celebrati in virtù delle loro qualità. Ma perché non dire la verità, perché coprirla con uno strato imbarazzante d’ipocrisia?

Pur con tutte le contraddizioni che umanizzano anche la gente di valore, Bocca è stato un grande nel nostro mestiere. Sempre pronto a incassare e più ancora ad attaccare, a esporsi in maniera spericolatamente anticonvenzionale, come quando scrisse che «la gente del Sud è orrenda», che «Napoli è un cimiciaio», che «il modo di vivere di quelle parti è il terrore, è il cancro»; e disse fuori dai denti che Pier Paolo Pasolini se l’era cercata, che ci aveva rimesso la ghirba «perché era di una violenza spaventosa nei confronti dei suoi amici puttaneschi»; e ammise a testa alta «un po’ di omofobia, che poi è una cosa militare: il mio concetto piemontese è che gli uomini veri vanno a fare il soldato». Tutti giudizi che, se li ripetesse oggi, lo porterebbero dritto in prigione oppure al rogo.

Dove c’erano discussioni, polemiche e risse, Bocca si precipitava a menar fendenti contro nemici e amici, senza distinzioni, direi con una certa onestà che sarebbe delittuoso negargli. La sua prosa assomigliava a un torrente di montagna in piena. Chi iniziava a leggere un articolo firmato da lui, arrivava di sicuro fino in fondo.

Di Bocca apprezzavo soprattutto le inchieste, alcune poi ampliate e pubblicate in libri non sempre venduti in quantità pari alle attese dell’autore. Ma ha dato il meglio, a mio trascurabile giudizio, nei duelli con la penna: commenti sferzanti, a volte violenti, mai banali, spesso spiazzanti come i suoi mutamenti di umore e di posizione ideologica.

Irrequieto e spigoloso, ha avuto simpatie e antipatie per Bettino Craxi e Umberto Bossi. Fu tra i primi a interessarsi al movimento leghista, cogliendone la forza innovativa e comprendendone le potenzialità elettorali, quando il Carroccio era considerato all’unanimità un fenomeno da bettola alpina. Le sue eccellenti doti di osservatore politico cedevano il passo alla noia che ben presto gli suscitavano i partiti cui aveva dedicato le proprie attenzioni. Invecchiando, s’era incupito, salvo accendersi, ma sempre più di rado, per demolire qualcuno o qualcosa. Odiava il presente e rimpiangeva il passato, come tutti quelli che hanno una memoria selettiva e ricordano volentieri i bei tempi andati, forse perché legati alla nostalgia della giovinezza perduta.

Era di un’antipatia travolgente, malmostoso, incline all’invettiva. Ultimamente non gli piaceva nulla e criticava tutto senza requie: giornali, colleghi, sinistra, destra, televisione, governi, istituzioni, imprenditori, banche. Il mio timore è che avesse ragione.

Bocca mi detestava. Se però pubblicavo la recensione di un suo libro, lesto mi telefonava per ringraziare. Non dico che fosse cordiale, ma bene educato sì. Giancarlo Aneri, patron del premio È giornalismo, da me ribattezzato premio Stalin per il settarismo dei giurati, mi ha raccontato di quando stava per essere messa ai voti la mia candidatura. Allora nel sinedrio di questa specie di Pulitzer de noantri sedevano Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Il primo dissimulò neutralità, il secondo rimase gelido, il terzo eruppe: «Sì, bisognerebbe darlo a Feltri, ma non si può perché è un fascista di merda». Non è che mi fidi al 100 per cento di quello che dice Aneri, ma l’uscita mi pare verosimile. E comunque nessuno dei quattro poteva sapere che il loro premio del menga l’avrei rifiutato.

Lo dico in tutta sincerità: Bocca l’ho sempre ammirato. Mi manca per la sua incoerenza, nella quale trovava conforto la mia. Poiché non ho molti amici, l’assenza di un nemico della sua levatura mi addolora e mi fa sentire più solo. Voto: 9

BOCCHINO Italo (Napoli, 1967). Politico e giornalista. Dopo aver militato nel Msi, è entrato in An. È stato deputato per quattro legislature con il Pdl. Dal 2010 al 2013 capogruppo parlamentare di Futuro e libertà per l’Italia, partito nato dalla rottura dell’alleanza fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Nel 2011 s’è separato dalla moglie Gabriella Buontempo a causa di una relazione sentimentale con l’ex ministro Mara Carfagna.

Credo che sia stato l’unico politico ad annunciare di volermi denunciare per stalking. L’ho appreso da Novella 2000. Per un attimo mi sono sentito Glenn Close in Attrazione fatale. Elettrizzante. Solo che Bocchino, per quanto bellino, non è Michael Douglas e io non gli ho mai messo in pentola il coniglio da compagnia della figlia. Al massimo ho fatto fare la fine del topo a lui e al suo mentore Gianfranco Fini, nonché al loro partitello. Comunque la querela non è mai arrivata. Forse perché era stato costretto a smentire sul Corriere della Sera «di aver accusato segni di ansia o di dimagrimento come effetto della campagna» che, a suo dire, Il Giornale gli avrebbe scatenato contro. Non si vede a che servisse una campagna, considerato che i due fuoriusciti di Futuro e libertà non erano stati neppure capaci di recintare il loro orticello, già rinsecchito prim’ancora di germogliare.

Mi dava del manganellatore, che, detto da un ex fascista, equivale a un complimento. È stato mollato, povera anima, dalla moglie, dall’amante e persino dagli elettori, i quali alle politiche del 2013 hanno preferito evitare di rimandarlo in Parlamento. Chissà perché. Voto: 4

BOFFO Dino (Asolo, Treviso, 1952). Giornalista. Ha esordito nel settimanale diocesano di Treviso, La Vita del Popolo, del quale è stato vicedirettore e direttore. Ha ricoperto vari incarichi nell’Azione cattolica. Ha diretto dal 1994 al 2009 il quotidiano Avvenire, dal quale si è dimesso dopo che Il Giornale aveva dato notizia di una condanna a suo carico per molestie, emessa dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Terni nel 2004. Tale notizia, anche se vera, era però corredata da indiscrezioni circa una presunta informativa della polizia sul conto di Boffo, rivelatasi inesistente. Ciò ha comportato la sospensione di tre mesi dall’Ordine dei giornalisti per il direttore del Giornale, Vittorio Feltri. Dal 2010 ha diretto Tv2000, emittente televisiva di proprietà, come Avvenire, della Conferenza episcopale italiana, che nel 2014 ha risolto unilateralmente il contratto.

Si è parlato così tanto, spesso a sproposito, della vicenda Boffo, che alla sola idea di scriverne ancora mi viene l’orticaria. Credo che verrà anche a lui un certo prurito quando leggerà queste righe, se le leggerà. Ogni parola che si aggiunge alla maledetta storia minaccia di aumentare la confusione e gli equivoci, soprattutto dopo il recente inaspettato licenziamento deciso anche dalla televisione dei vescovi. La verità, per quel che mi riguarda, è che l’ex direttore dell’Avvenire è un bravo giornalista e avrebbe potuto rimanere alla guida del quotidiano della Cei nonostante l’incidente da me provocato: la pubblicazione sul Giornale, nel 2009, di alcuni articoli su un inciampo giudiziario di Boffo. Una faccenda di telefonate sulla quale ho promesso al diretto interessato di non tornare più e che, peraltro, non merita alcuna chiosa. D’altronde, dopo che ci eravamo incontrati nella trattoria milanese Da Berti per un chiarimento, mi sono scusato con lui in una nota apparsa in prima pagina sul Giornale. La partita è chiusa per entrambi.

Rilevo soltanto un particolare: la storpiatura dei fatti nelle narrazioni romanzate apparse su tutta la stampa ha dato luogo a code odiose, al punto che l’espressione “metodo Boffo” oggi è usata per definire qualsiasi massacro mediatico. Dal che si evince che se la mia redazione, al tempo, non fu abbastanza scrupolosa nel controllo delle carte, altre redazioni continuano imperterrite a non esserlo e intingono ancora la penna nel veleno, procurando alla vittima sofferenze aggiuntive che non merita. Nella circostanza, il più corretto si è dimostrato lui, Boffo. Ecco perché gli assegno un punteggio alto. Voto: 7

BOLDRINI Laura (Macerata, 1961). Politico. Presidente della Camera. Nel 1989 ha iniziato la carriera come funzionario dell’Onu. È stata capolista di Sinistra ecologia libertà.

Non è bello dirlo, però nei suoi riguardi devo confessare un’idiosincrasia di tipo lombrosiano: mi sta sui marroni solo a guardarla. Che posso farci? La sua affettazione nel modo di porgersi, di parlare, di gesticolare, ondeggiando flessuosamente la chioma corvina, è così esagerata da farmeli girare. Anche se non arriverei mai agli eccessi di odio che Beppe Grillo e il Movimento 5 stelle hanno dimostrato nei suoi confronti.

Non appena la vedo, invariabilmente impettita e affranta (addirittura in gramaglie all’acme dell’aggressione pentastellata del febbraio 2014), odo Pergolesi in sottofondo: stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa. Dovrò parlarne con il mio amico Paolo Isotta per sapere se gli fa lo stesso effetto. E poi quel cava e metti con gli occhialini mentre celebra compunta sull’altar maggiore di Montecitorio. Si decida: o ci vede o non ci vede. Nel dubbio, lenti a contatto.

Oddio, da una che nella sua biografia ufficiale ricorda d’aver lavorato per l’Onu dall’Afghanistan al Ruanda, in mezzo a guerre e carestie, ma poi ci tiene anche a sottolineare d’aver vinto «il riconoscimento speciale “Italiana dell’anno” del settimanale Famiglia Cristiana», c’è da aspettarsi di tutto e di peggio. Anche che le venga assegnato – come puntualmente registra il sito della Camera – «il premio Consorte del presidente della Repubblica», che, perdonerete la mia ignoranza, non so se sia intitolato alla signora Clio oppure a Gianni, l’ex boss dell’Unipol, ma in ogni caso suona ridicolmente allusivo.

E fin qui siamo all’estetica. Ho cominciato a dubitare di lei in modo serio quando, eletta per sbaglio alla presidenza della Camera da appena un mese, ha chiesto e ottenuto il siluramento di dirigenti e funzionari della polizia di Stato che sovrintendevano alla sicurezza interna di Montecitorio. Li ha ritenuti colpevoli di non aver vigilato sul sacro rispetto che è dovuto alla sua augusta persona. Che cos’avevano mai combinato? Non s’erano accorti che su Facebook e dintorni qualche buontempone aveva cominciato a fantasticare circa presunte immagini in cui la Boldrinova metteva in mostra su una spiaggia le sue grazie più riposte. Vulgo, le tette. Una leggenda metropolitana o uno scherzo di cattivo gusto. Ma l’idea che si potesse anche lontanamente supporre che sotto i suoi completi da signorina Rottenmeier vi fosse una persona in carne (molto in carne) e ossa è bastata a mandarla fuori di testa. Per quale cacchio di motivo i poliziotti avrebbero dovuto accorgersi che in Rete alcuni imbecilli stavano malignando sulla madamina, e quindi porsi all’inseguimento telematico dei medesimi per prontamente assicurarli alla giustizia, è un mistero gaudioso accessibile solo a Nostra Signora dei Dolori e che nessuno finora ha mai dipanato. Fino a prova contraria, si presume che i poliziotti adibiti alla sua sicurezza avessero ben altro da fare che trastullarsi con Internet. Ma tant’è. Decapitati.

I tapini comandati dal Viminale avevano colpevolmente sottovalutato l’importanza che la domatrice di deputati assegna al Web. Gli sarebbe bastato dare un’occhiata, come ho fatto io, alla sezione video del sito ufficiale della Camera, pomposamente ribattezzata Web tv, dove con frequenza settimanale la Boldrini registra un fervorino che comincia con un ottocentesco «bentrovati», come se i cittadini fossero botoli abbandonati per strada, e poi fa il punto sullo scibile umano, dalla crisi di governo ai roghi nella Terra dei fuochi, dalla morte di Nelson Mandela al gasdotto transadriatico che collegherà il Mar Caspio con la dilettissima Puglia del suo santo patrono Nichi Vendola. E bisogna vederla come sgrana gli occhioni, sbatte le ciglia e gesticola con le mani in modo da apparire più persuasiva. Dev’essere andata a scuola di recitazione dal figlio di Piero Angela.

Quest’emula della Iotti, che mai potrà raggiungere lo spessore umano e la longevità politica (tre legislature ai vertici di Montecitorio) della vera Nilde Iotti, più che rappresentare la Camera simboleggia le smodate ambizioni della nuova sinistra, nel suo caso Sinistra ecologia libertà, o Sel che dir si voglia. I compagnucci della parrocchietta amano il popolo solo a distanza. A loro fa schifo viaggiare in metropolitana perché sopra ci trovano la gente. Semmai preferiscono – è il caso della signora – far salire i loro fidanzati sugli aerei di Stato per aviotrasportarli in giro per il mondo. Erano partiti predicando i diritti civili, la rivoluzione sessuale, il libero amore, la coppia aperta e ora inorridiscono per un’immagine osé che nemmeno li riguarda, come ha potuto sperimentare sulla propria pelle Antonio Mattia, un giornalista di Fondi (Latina) iscritto nel registro degli indagati per aver postato su Facebook la foto goliardica di una nudista spagnola spacciata per la Boldrini.

È destino dei libertari trasformarsi in bacchettoni conservatori non appena conquistano il potere. Solo allora svelano la loro vera natura autoritaria. Si credono intoccabili. Si sentono l’Istituzione. Abbassi le maiuscole, presidentessa. In cambio, io le alzo la quotazione di un punto, ma solo perché ho letto che ha adottato, sfidando la superstizione, un gattone nero trovatello. Voto: 3

BONDI Sandro (Fivizzano, Massa e Carrara, 1959). Politico. Senatore della Repubblica. Ha iniziato la carriera nel Pci. È stato coordinatore nazionale di Forza Italia (2005-2008) e del Pdl (2009-2011) e ministro dei Beni culturali nel governo Berlusconi IV.

Quando nel 1998 cominciò a rivedermi le bucce sul Giornale che avevo diretto fino a pochi mesi prima, pensavo che questo Sandro Bondi fosse un nom de plume di Silvio Berlusconi. Le iniziali corrispondevano. Invece era proprio lui a scrivere: faceva il segretario del Cavaliere a Villa San Martino. I due si erano conosciuti nel 1992. Bondi allora militava nel Pci ed era sindaco del suo paese d’origine, Fivizzano, dove aveva casa lo scultore Pietro Cascella, l’ex comunista che stava erigendo nel parco della magione di Arcore il mausoleo assiro-milanese in cui il Cavaliere vorrebbe tumulare i propri cari (ovviamente il monumento funebre comprende un sarcofago per lui e anche 32 loculi nel cosiddetto Cerchio dell’Amicizia, fra cui uno destinato a Indro Montanelli, che rifiutò l’offerta con un «Domine non sum dignus», e uno per Emilio Fede, che però dovrà andare a farsi seppellire da un’altra parte, temo). Galeotta fu la tomba. Un giorno Cascella portò l’amico sindaco dal sire della Brianza. Fu amore a prima vista. «Come può una persona intelligente come lei essere comunista?», chiese Berlusconi a Bondi. E “il prete” – al suo paese lo chiamavano così per la silhouette badiale e la condotta di vita ascetica – cadde folgorato sulla via di Arcore come San Paolo su quella di Damasco.

Dopo tante punzecchiature, e altrettante mie repliche, alla fine Bondi mi ha telefonato. È stata una bella scoperta: un tipo provveduto e suadente, un poeta, fra le persone più educate che io conosca. Non disturba mai. È cattolico e ha una fede profonda, il che lo aiuta. Si è laureato in filosofia con una tesi su frate Leonardo Valazzana da Fivizzano, un predicatore agostiniano passato alla storia come colui che diede lettura della bolla che scomunicava Girolamo Savonarola, il domenicano impiccato e arrostito in piazza della Signoria. È gradevole trovarsi a cena con Bondi. Dimostra una cultura solida, non imparaticcia, in tono con il suo passato di ricercatore presso l’Università di Firenze.

L’ultima volta che l’ho visto in azione è stato il 2 ottobre 2013, durante il voto in Parlamento che avrebbe dovuto togliere la fiducia a Enrico Letta dopo l’uscita del Pdl dal governo delle larghe intese. In Senato ha pronunciato un discorso veemente, di elevato livello, rimproverando all’esecutivo d’aver fallito sulla pacificazione nazionale e sulle misure economiche. Era uno spettacolo vederlo puntare l’indice contro Letta, colpevole d’essersi volutamente dimenticato di menzionare il nome di colui che l’aveva aiutato a diventare presidente del Consiglio: Berlusconi. «Ma lei vuole prendere in giro il Parlamento?», gli ha chiesto Bondi, dandogli dell’ipocrita e del falso. «Su quale pianeta vive, onorevole Letta? Gliel’hanno detto che il debito pubblico è peggiorato? Gliel’hanno detto che la disoccupazione è aumentata? Voi fallirete, voi avete dato vita a un governicchio, voi avete ottenuto un unico risultato sulla pelle del Paese: quello di spaccare il Popolo della libertà. Ma noi non assisteremo a questa umiliazione del nostro partito, di Berlusconi e dell’Italia». E il Cavaliere seduto lì, ad ascoltarlo e ad applaudirlo. È fatta, mi sono detto. Governo finito.

Passa neanche un’oretta. Sono a pranzo con Paolo Mieli e Marcello Sorgi. Teniamo il televisore acceso per ascoltare la sentenza di morte annunciata. Dico per scherzo ai due colleghi: state a vedere che Berlusconi ha già cambiato idea. In quella stessa aula in cui ancora rimbombava l’eco della reprimenda bondiana, si alza lui, il Cavaliere, e dopo un discorso della durata record di 2 minuti e 50 secondi conclude: «Abbiamo deciso, non senza interno travaglio, di esprimere un voto di fiducia a questo governo». Travaglio c’entra sempre, dev’essere il suo tarlo. Sembrava una barzelletta raccontata male.

Ma perché tutti spernacchiano Bondi? È l’unico che ci mette sempre la faccia, che sacrifica la propria indole mansueta per combattere all’ultimo sangue ma sempre rispettando le regole della cavalleria, che fa scudo con il proprio corpo a Berlusconi. L’unico che non ha mai dissentito. L’unico coerente con le idee del capo anche dopo che il titolare le ha cambiate, rinnegate, capovolte. L’unico che darebbe la vita per lui. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Sta scritto nel Vangelo. Bondi ci crede. Giù il cappello. Voto: 7

BONIFACI Domenico (Villa San Sebastiano, L’Aquila, 1937). Imprenditore edile, editore del Tempo, quotidiano romano fondato nel 1944 da Renato Angiolillo.

In 18 anni ha fatto fuori 14 direttori. In media gli durano meno di un anno e mezzo a testa. Uno, Maurizio Belpietro, appena 5 mesi. Un altro, Mauro Trizzino, 29 settimane. Per lui sono come gli pneumatici dell’auto: ai primi freddi toglie le gomme normali e monta le winter.

Sul finire degli anni Novanta offrì la direzione del Tempo persino a me. Si vede che era proprio alla frutta. Ci teneva molto che accettassi, per cui chiese ai miei amici Vittoria e Roberto Gervaso di combinare un pranzo nella loro casa romana. Ci sedemmo a tavola noi quattro. Non mi andava di dire in faccia a Bonifaci che del Tempo non m’importava nulla e che non avevo nessuna voglia di trasferirmi a vivere nella capitale. Mi rafforzai in questo convincimento quando furono serviti gli spaghetti: l’editore afferrò il tovagliolo, lo dispiegò ben bene per l’intera lunghezza e se lo ficcò dentro il colletto della camicia come se si trovasse dal barbiere. Da sotto il manto gli spuntavano solo le mani.

Passato qualche giorno, gli comunicai che declinavo la sua offerta. Penso d’aver fatto bene a rifiutare. Nel suo ufficio al giornale di solito si toglie le scarpe e indossa le babbucce. Già gli editori sono dei posapiano per loro natura, immaginatevi di quali corse sono capaci quelli con le pianelle ai piedi. A Bonifaci va riconosciuto il merito di essersi fatto tutto da solo, e si vede, sgobbando come un cane. S’è anche beccato un soggiorno nelle patrie galere (per la vicenda della maxitangente Enimont), sopportato con stoica rassegnazione. Il suo demerito principale è quello di aver licenziato in tronco Belpietro. L’allontanamento del quale avvenne all’insegna della comicità, proprio come l’ingaggio.

La storia dell’uomo merita di essere ricostruita. Bonifaci nasce in una famiglia abruzzese che gli consente a malapena di conquistare la licenza elementare e poi lo manda a lavorare con cazzuola e mattoni, secondo gli usi locali. Nelle opere murarie si rivela imbattibile. Scopre l’impiastro giusto: l’intonaco a gesso scagliola. Che in poco tempo gli fa guadagnare 20 milioni di lire, una fortuna negli anni Cinquanta.

Le successive tappe della prodigiosa scalata lo consacrano palazzinaro di spicco nella capitale. Passato dagli ovili della Maiella ai dintorni della Camera, il nostro si prodiga per conoscere e frequentare la gente che conta. Incontra il socialista Vincenzo Balzamo, il democristiano Severino Citaristi e il manager Sergio Cusani, grande elemosiniere dei partiti per conto di Raul Gardini, imprenditore bramoso di celebrare in fretta il matrimonio tra i due poli italiani della chimica, l’Eni, di proprietà pubblica, e la Montedison, di proprietà dello stesso Gardini che ne ha il controllo attraverso il gruppo Ferruzzi. Ma le nozze stentano ad andare in porto. Urge ungere le ruote del carro frenato. I tre summenzionati compagni di cocktail trascinano Bonifaci in Tangentopoli e poi dritto dritto davanti al pubblico ministero Antonio Di Pietro. È il sòr Domenico l’artefice della cosiddetta “provvista”: 156 miliardi di lire girati dalla Ferruzzi ai politici. E il business per il mazziere sale a 1.000 miliardi. Scusate se è poco.

Il patteggiamento con i giudici costa all’aquilano di Roma la bellezza di 54 miliardi, peraltro scuciti con una disinvoltura che conferma l’enormità dell’affare. Tant’è che poco più tardi l’ex manovale sborsa, sempre con disinvoltura, altri 70 miliardazzi per acquistare Il Tempo, ignorando però che l’editoria sta per ricevere l’estrema unzione. È ben vero che si tratta della storica testata fondata da Renato Angiolillo, ma con il contributo decisivo dei successori il quotidiano di riferimento del generone romano è stato trasformato da macchina per far soldi in rottame tritadenaro.

A questo punto Bonifaci crede di risolvere il problema soffiando Belpietro al Giornale e piazzandolo al posto di Giovanni Mottola (tutt’altro che un incapace: è l’autore della letterina con cui Silvio Berlusconi, a Servizio pubblico, ha infilzato un terreo Marco Travaglio, già dipendente del Cavaliere al Giornale: «La sua carriera, anzi la sua intera vita professionale, e lei lo sa bene, è legata indissolubilmente a me, potrei dire che io sono il suo core business»). Felice e orgoglioso, il costruttore esibisce il neoacquisto di qua e di là del Tevere, nei salotti e sulle terrazze. Ma alla prima occasione Belpietro spara un titolone contro il presidente Oscar Luigi Scalfaro, la persona alla quale il palazzinaro tiene di più dopo suo padre, quel mite vecchietto che egli espone con la papalina in testa alle colazioni domenicali. Il direttore riferisce di un dopocena in cui l’ex presidente della Corte costituzionale, Antonio Baldassarre, in presenza dello stesso Belpietro e di due testimoni, ha incautamente rivelato che il referendum sulla smilitarizzazione della Guardia di finanza è stato trombato dalla Consulta per diretto e illegittimo intervento del capo dello Stato.

Il mondo politico va in fibrillazione e Bonifaci comincia a temere per i suoi appartamenti invenduti (tanti). Il praticante editore ha la sensazione che il bidone di carta, comprato a prezzo salato per spianare il suo lavoro di piazzista del mattone, possa diventare la tomba del suo successo. Convoca quel matto del direttore. Gli spiega che, se ha a cuore il seggiolone, la deve smettere di fare il Pierino. Belpietro esce dalla stanza barcollando: al momento del contratto, il miliardario pantofolaio gli aveva raccomandato di fare un giornale per la borghesia destrorsa e ora gli rimproverava di avergli ubbidito.

Tornato in redazione con il proposito di risalire la china, il direttore pubblica a tutta pagina la notizia che Massimo D’Alema è indagato. Spera di ricevere una telefonata entusiastica del padrone. Quando in effetti l’apparecchio trilla, ha una sorpresa: Bonifaci è fuori dai gangheri perché è amico anche del segretario pidiessino. Belpietro cade nello sconforto: non capisce più se sta dirigendo Il Tempo, Il Popolo, L’Unità o il manicomio. E, mentre va in cerca dell’identità perduta, gli consegnano una lettera che lo aiuta a recuperarla: si consideri licenziato all’istante, senza corresponsione della liquidazione e senza il pagamento dei tre anni di stipendio previsti dal contratto.

Dopo aver sbagliato molti direttori (o, meglio, dopo che molti direttori hanno sbagliato editore), ora Bonifaci ne ha finalmente azzeccato uno bravissimo, Gian Marco Chiocci, che era il mio lagotto al Giornale. Aveva ragione il maestro Alberto Manzi: non è mai troppo tardi. Voto: 5+

BONINO Emma (Bra, Cuneo, 1948). Politico. Dal 1975 iscritta al Partito radicale. Eletta più volte al Parlamento italiano ed europeo. Commissario europeo (1995-1999). È stata senatrice e vicepresidente del Senato (2008-2013). Ministro del Commercio internazionale e delle Politiche europee nel governo Prodi II. Ministro degli Esteri del governo Letta.

Avevo molta simpatia per lei. Prometteva bene. Negli anni Settanta, quando dirigevo una televisione lombarda che si chiamava Video Delta e che poi si trasformò in Rete 4, la invitai negli studi per intervistarla. Ora mi è diventata una borghesuccia qualunque. Una poltronista. Intendiamoci, che avesse un debole per i damaschi s’era intuito fin dall’inizio. Ci è incollata da quasi 40 anni, da quando, nel 1976, venne eletta per la prima volta alla Camera con i radicali di Marco Pannella. L’archaeopteryx è ancora lì che svolazza senza posa da una seggiola all’altra. Matteo Renzi l’ha momentaneamente atterrata, ma vedrete che riprenderà il volo non appena si sarà tolta i pallini dalle ali.

Prima di diventare ministro degli Esteri nel governo Letta, è stata tutto: parlamentare europea, commissario europeo, ministro del Commercio internazionale e delle Politiche europee, vicepresidente del Senato, presidente della Commissione per le pari opportunità, promotrice della Corte penale internazionale, delegata dell’Italia all’Onu, presidente del Partito radicale transnazionale, segretario del Partito radicale. L’hanno candidata a tutto: dalla presidenza della Repubblica alla Regione Lazio. Ha frequentato tutti: dal gruppo Bilderberg a Mario Monti, fino al finanziere George Soros, che te lo raccomando. Ha raccontato Danilo Quinto, ex tesoriere dei radicali, che la sola campagna Emma for president varata nel 1999 per tentare di spianarle la strada verso il Quirinale costò al partito 1,5 miliardi di lire. Soldi buttati. Non ce la fece allora e non ce l’ha fatta nel 2013. Un motivo ci sarà.

Alla Farnesina s’è rivelata una sciureta, tutta forma e niente sostanza. Sembrava che il giorno dopo l’insediamento dovesse riuscire là dove aveva miseramente fallito il suo predecessore Giulio Terzi di Sant’Agata, cioè riportare a casa Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i sottufficiali di Marina arrestati in India con l’accusa di omicidio. Invece, trascorsi due anni, i due sventurati marò sono ancora trattenuti dalle autorità del Kerala.

Non ho mai capito come faccia ad andare d’accordo con il mio amico Renato Farina, che si nutre di ostie e beve solo vino da messa, o acqua santa quando vuole mantenersi sobrio. A dar retta ai racconti di Renatino, pare che la Bonino, in uno dei rari periodi in cui fu costretta per quattro anni a starsene su uno sgabello al Cairo a studiare l’arabo, guardasse Farina addirittura con intenzione, il che deporrebbe a favore di una tendenza latente alla perversione. Io me la ricordo in una foto uscita su Oggi nell’anno in cui fu eletta deputata, che la ritraeva con una leggiadra tunica etnica mentre rovistava nelle viscere di una donna a gambe divaricate. Una delle tante interruzioni di gravidanza praticate in clandestinità, che lei raccontava così a Neera Fallaci, sorella di Oriana: «Gli aborti vengono fatti con una pompa di bicicletta, un dilatatore di plastica e un vaso dentro cui si fa il vuoto e in cui finisce il contenuto dell’utero. Io uso un barattolo da un chilo che aveva contenuto della marmellata. Alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari, anzi è un buon motivo per farsi quattro risate». Che cosa ci sarà stato di tanto divertente in quel macabro scempio? Forse Farina, che presumo sia contrario all’aborto quanto me, un giorno me lo spiegherà. A me sembra ripugnante. Voto: 4

BORRELLI Francesco Saverio (Napoli, 1930). Magistrato a riposo. È stato capo della Procura di Milano nel periodo della cosiddetta Tangentopoli e ha chiuso la carriera come procuratore generale presso la Corte d’appello, sempre a Milano.

La sua vicenda è paradigmatica delle distorsioni che la fregola di visibilità mediatica diffusasi fra i magistrati ha introdotto nella vita politica di questo Paese. Di tanto sbando porto anch’io una parte di responsabilità. Nel caso di Borrelli, la mia colpa si limita ad aver pubblicato in prima pagina sull’Indipendente, sotto forma di editoriale, una lettera in cui il procuratore capo di Milano consigliava prudenza nell’affrontare il verminaio di Tangentopoli. Ma poi l’inchiesta Mani pulite sfuggì anche dalle sue, di mani, e fu il patatrac.

Fino al 1992-1993 nessuno in Italia sapeva chi fosse Borrelli, forse nemmeno lui. Un oscuro travet della giustizia, sia pure insediato in un ufficio che misurava qualche metro quadrato in più rispetto a quelli dei suoi sottoposti. All’improvviso si è scoperto principe degli accusatori, capo dei giustizieri che stavano matando i partiti fra gli applausi della folla assetata di onorevole sangue. Il gladiatore che menava fendenti con maggior foga era Tonino Di Pietro, che fu acclamato eroe di Mani pulite dal circo della carta stampata. Ma alla folla dei tifosi piaceva immaginare che dietro i bicipiti del molisano da masseria vi fosse un cervello fino, un tipo con tanto di occhialini dorati, il quale pensava di notte ciò che i muscolari alle sue dipendenze facevano di giorno. E lo identificò in Borrelli, che ne aveva tutte le caratteristiche, persino fisiche, a cominciare da quelle aristocratiche dita affusolate con cui la sera eseguiva sul pianoforte di casa le composizioni dell’amato Richard Wagner.

Per amore della verità storica, è giusto osservare che Borrelli e i vari Davigo, Colombo, Greco e Boccassini non diedero alcuna copertura a Di Pietro. Anzi, sottovalutarono la portata della sua inchiesta, la sopportarono con malcelato fastidio. Normali invidie da Palazzo di giustizia. Quando capirono che poteva diventare il caso del secolo, ci si buttarono anche loro a capofitto per non rimanere tagliati fuori. E nacque il famoso pool.

Il procuratore divenne presto un divo nazional-popolare come Pippo Baudo, per di più a cavallo, quadrupede che notoriamente conferisce a chi lo monta un’aria di nobile distacco dai volgari pedoni. Un trionfo. Anche se – va ricordato – il servizio fotografico al maneggio, in cui posò per un settimanale accanto al suo destriero addobbato con la gualdrappa, fece «cascare le braccia» a Leonardo Leone De Castris, il pubblico ministero di Brindisi che indagava sul tragico affondamento della motovedetta albanese nel Canale d’Otranto. E non solo a lui.

Quando al portone di Palazzo Chigi, sloggiato Silvio Berlusconi, fu appeso il cartello «Cercasi candidato presidente del Consiglio», Francesco Saverio, con lo spirito missionario che gli deriva dall’impegnativo nome di battesimo, si dichiarò disponibile al grande sacrificio: «Se mi chiamano, sono pronto». Non lo chiamarono, ma il fatto stesso che avesse valutato come normale l’eventualità la dice lunga sulla personalità di Borrelli, il quale fra tanti difetti ha una virtù appariscente: la modestia.

Il festival delle toghe euforiche volgeva ormai al termine e l’altezzoso procuratore espresse il desiderio di concludere la carriera in Corte d’appello. Pensava che quel posto gli spettasse per diritto dinastico: lo ebbe prima di lui anche suo padre Manlio al limitare della pensione. E fu appunto in quella veste, ça va sans dire, che il 12 gennaio 2002 concluse la sua luminosa carriera, arringando per l’ultima volta le truppe all’inaugurazione dell’anno giudiziario con il celebre appello: «Resistere, resistere, resistere». Sottinteso: alle riforme di Berlusconi, nel frattempo tornato al governo, in particolar modo a quella della giustizia. Che difatti non vide mai la luce. Grazie, dottor Borrelli. Voto: 4

BOSSI Umberto (Cassano Magnago, Varese, 1941). Politico. Fondatore della Lega lombarda nel 1984, nelle cui liste è diventato senatore nel 1987. Nel 1994 si è alleato con Forza Italia. Ministro delle Riforme istituzionali nel governo Berlusconi II. Europarlamentare dal 2004 con la Lega Nord per l’indipendenza della Padania, denominazione adottata dal partito fin dal 1997. Attualmente deputato. Nel 2012, in seguito a un’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto la sua famiglia, ha lasciato la segreteria ed è stato nominato presidente onorario della Lega.

Non ho mai nascosto le mie simpatie per lui e per la Lega, che risalgono agli anni Ottanta, quando l’entrata in scena del Carroccio suscitò negli italiani, in particolare nei sedicenti intellettuali, un sentimento oscillante fra disprezzo e compatimento.

L’avventura cominciò alle elezioni politiche del 1987. Democrazia cristiana ancora granitica, ma con qualche crepa sottovalutata dai capicorrente. Socialisti eccitati dalle buone prove fornite dal governo Craxi. Pentapartito in salute. Il Pci, lungi dal prevedere la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’impero sovietico, non accennava ad abbassare la cresta e agitava la “questione morale” che, un decennio dopo, avrebbe riguardato anche i suoi spaesati eredi. Lo spoglio delle schede riservò una sorpresa che incuriosì senza tuttavia allarmare: una piccola, quasi insignificante, percentuale era andata a uno strano movimento, allora sconosciuto ai più, denominato Lega lombarda e avente per simbolo Alberto da Giussano. Due seggi: uno alla Camera, uno al Senato. All’epoca lavoravo al Corriere e un vicedirettore mi convocò: c’è questo partitino che sul piano nazionale conta l’1 virgola qualcosa, ma dalle tue parti, le valli bergamasche, ha preso un sacco di voti, in alcuni Comuni è arrivato all’8 per cento. Cerca d’intervistarne il capo, un certo Bossi.

Di malavoglia mi misi al lavoro. Dopo una faticosa ricerca, recuperai il numero di telefono del leader leghista. Conversazione striminzita, ma profetica. Nel commentare quell’8 per cento in Val Brembana, Bossi mi disse: «Noi siamo il futuro, lo capirà alle prossime elezioni». Ci scrissi un articoletto che finì nelle pagine interne, ben nascosto.

Passano tre anni e arrivano le elezioni regionali: Lega al 19 per cento in Lombardia. Secondo partito dopo la Dc. Con 11.434 voti di distacco dal terzo, il Pci. Un terremoto. Stupore, sconcerto. Un fenomeno incomprensibile al ceto politico professionale e ai sofisticati commentatori abituati da sempre ad analizzare con un impegno degno di miglior causa l’esito scontato delle urne e gli spostamenti dell’1 o 2 per cento. Tutti spiazzati dalla vendemmia leghista. Gli editoriali della grande stampa grondavano indignazione per l’affermazione sorprendente dei buzzurri nordisti, liquidati come razzisti da osteria, gentaglia egoista con la velleità di spaccare l’Italia in due. Si diceva: una risata li seppellirà. Bossi era trattato con disprezzo, dileggiato, schivato.

Alla seconda tornata elettorale, 1992, infuria Mani pulite. Il pentapartito è in crisi, c’è un clima da rivoluzione. La gente vuole il nuovo e lo identifica nel leader paesano in canottiera, che arringa folle straripanti sul prato di Pontida e appoggia apertamente il pool di Mani pulite. La caduta della Prima Repubblica è anche merito, o demerito, suo. Memorabile un faccia a faccia televisivo con Ciriaco De Mita. Il ras irpino pontifica ininterrottamente per un quarto d’ora, sfoggiando un eloquio arzigogolato, ostico. Il Senatùr ascolta in silenzio, non batte ciglio, non tradisce alcun sentimento. Quando il microfono passa a lui, esordisce con questa frase, rivolta all’interlocutore sussiegoso: «Ma tàches al tram», attaccati al tram. Mai nessuno era riuscito a smontare con un solo verbo e un solo sostantivo il grandiloquente intellettuale della Magna Grecia. Da scompisciarsi.

Il Fenomeno da baraccone guadagna una quantità impressionante di voti: oltre 6 milioni. Elegge 80 fra deputati e senatori. L’ascesa è irresistibile. Due anni dopo si allea con Silvio Berlusconi e raddoppia il numero dei parlamentari: 177. La Lega entra nel governo con cinque ministri. Irene Pivetti conquista la presidenza della Camera. Non passano neanche sette mesi e Bossi rompe tutto. Invita Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione nel suo pied-à-terre alla periferia di Roma e, dopo una cena fredda con pan carré e sardine in scatola, decide di sfanculare il Cavaliere. È il cosiddetto ribaltone, che, con la complicità del presidente Oscar Luigi Scalfaro, sovverte il voto popolare e consegna il potere a un governo tecnico presieduto da Lamberto Dini.

Ma il tradimento non paga. Alle politiche del 1996 la Lega vede ridursi della metà il numero dei suoi parlamentari: 83. È l’inizio del crepuscolo. Nel 2001 quasi un altro dimezzamento: 47. Tre anni dopo, Bossi è colpito da un infarto, che lui definisce preinfarto, dandosi arie da medico, quale in effetti stava per diventare: nel 1976 era già al sesto anno di medicina quando chiese al professor Aris Zonta, direttore del dipartimento di chirurgia dell’Università di Pavia, di assisterlo nella tesi di laurea, buttata all’aria sei mesi dopo per inseguire il sogno della politica.

Il 5 aprile 2012, proprio nel giorno che segna il ventennale del primo trionfo elettorale, una nemesi terribile si abbatte sul Senatùr, costretto a rassegnare le dimissioni da segretario della Lega Nord per uno scandalo inaudito: distrazione di fondi del partito. Sono coinvolti moglie, figli e il “cerchio magico” capeggiato da Rosi Mauro, che gli faceva da badante dopo la malattia. Si scopre che la famiglia del condottiero ha attinto, con la complicità del tesoriere Francesco Belsito, milioni di euro dal forziere della Lega per rendersi la vita meno agra.

Alla Fiera di Bergamo, sotto la regia di Roberto Maroni, fra un tripudio di camicie verdi ma soprattutto di ramazze dello stesso colore, va in scena uno spettacolo ben diverso dai riti nibelungici sulle rive del Po o alle sorgenti sul Monviso, ai quali il padre di Renzo detto il Trota, Roberto Libertà ed Eridano Sirio ci aveva abituato. È uno psicodramma che non ha alcunché di evocativo, ma appare invece piattamente terreno, intitolato “L’è ùra de netà fo’ ol polér”, è ora di pulire il pollaio. Un Bossi in lacrime viene giubilato con la nomina a presidente onorario, carica fino a quel giorno inesistente nell’organigramma padano. Un contentino. I suoi non se la sono sentita di uccidere il padre, si sono accontentati di toglierselo dai piedi, issandolo su un altare davanti al quale nessuno pregherà più per ricevere la grazia di un posto.

Quello della Lega è stato un suicidio in piena regola. Per un po’ la si può dare a bere a tutti, ma a lungo andare i pochi che continuano a berla poi la sputano in faccia a chi gliel’ha versata. Venticinque anni di prediche contro «Roma ladrona», proclami d’indipendenza padana, secessioni annunciate, federalismo inconcludente: alla fine non è successo nulla. Anzi, è successo qualcosa: in tre o quattro mosse i vertici delle camicie verdi sono riusciti a sputtanarsi. Bossi, fiaccato dalla malattia, ha perso la trebisonda e un patrimonio di voti accumulato con tanta fatica da lui stesso e dai militanti, sempre disposti a sacrificarsi per l’idea. Quale idea? Quella di un partito diverso dagli altri, formato da brava gente, onesta, laboriosa e desiderosa di difendere il campanile, l’orto, la piazza del paese, le tradizioni, i dialetti. I leghisti credevano in tutto ciò, magari peccando d’ingenuità. Sta di fatto che una brutta mattina si sono accorti di essere stati presi per il naso: soldi riscossi dallo Stato (rimborsi elettorali di notevole entità) investiti in Tanzania, a Cipro, in Norvegia e in lingotti d’oro e diamanti; il primogenito del capo, il delfino spregiativamente trasformato da Bossi stesso nel Trota, che faceva la bella vita con il denaro del partito; case ristrutturate attingendo sempre al finanziamento pubblico. La diversità del Carroccio si è rivelata una bufala. E la reazione degli elettori, dopo il disgusto, è stata una fuga precipitosa. Chi ama intensamente e viene tradito non prova soltanto dolore, ma anche rancore e rabbia. Cosicché le elezioni del 2013 sono state una disfatta per il movimento nordista: 18 deputati e 18 senatori.

L’ultima umiliazione il 7 dicembre dello stesso anno, quando il presidente onorario, con una decisione incomprensibile, si è candidato alle primarie per la segreteria contro l’uomo sostenuto da Maroni e dal nuovo corso: Matteo Salvini. Ne è uscito con un misero 18 per cento di voti, contro l’82 per cento del giovane avversario. Da seppellirsi. Fino al giorno prima Bossi era addirittura convinto di poterla spuntare contro Salvini, me l’ha confidato Roberto Ortelli, direttore di Radio Padania. È il segno di una lucidità ormai smarrita per sempre.

Eppure il malandato Senatùr ha mille attenuanti, la più importante delle quali è l’invalidante malattia che lo ha dimezzato, reso vulnerabile, bisognoso di assistenza e incline ad appoggiarsi a chi gli sta vicino: “cerchio magico” e famiglia. Lo stato di necessità è risultato fatale al Fondatore acciaccato. Si è dovuto fidare delle persone a lui care, che non gli hanno reso un buon servizio. È stato sopraffatto, pessimamente consigliato, spinto allo sbaraglio.

Questa è la gloria del mondo: sali in alto, voli, t’illudi di essere un’aquila, poi un pistola qualunque ti abbatte con la fionda come se fossi un piccione. Voglio pensare che il capo del Carroccio non abbia ingannato le camicie verdi, ma sia stato fuorviato dagli affetti. E sia quindi perdonabile. Un leader malato è per definizione debole.

Resta incancellabile un fatto: senza i furti, nessuno avrebbe osato disarcionare Bossi. La Lega, però, sarebbe tramontata ugualmente: fallita la secessione, svilito il federalismo, quali altri argomenti dialettici avrebbe potuto escogitare per arringare le folle? Forse la rivolta contro l’Unione europea e la moneta unica. Ma è un argomento spuntato, già usato in passato e, per di più, oggi cavalcato anche da Grillo e Berlusconi. La gente non ne ha più voglia. Non ci crede. È andata così. Fine. Voto: 7

BRAMBILLA Michela Vittoria (Lecco, 1967). Imprenditrice e giornalista. Dal 2008 al 2013 è stata deputata del Pdl. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ministro del Turismo nel governo Berlusconi IV.

Il quotidiano britannico The Guardian ha scritto di lei: «È senza dubbio ambiziosa, probabilmente spietata, ma anche sorprendentemente naturale». Vive in un edificio storico sulla collina di Calolziocorte, con vista su «quel ramo del lago di Como». Conobbe Silvio Berlusconi nel 2001, dopo essere stata per quattro anni sua giornalista a Videonews. Partecipava a una cena elettorale a pagamento organizzata nel palazzo dei conti Brivio Sforza a Milano per aiutare Forza Italia a raccogliere fondi. Era lì come rappresentante delle tre aziende di famiglia: le Trafilerie Brambilla, fondate dal bisnonno, il gruppo Sal e la Sotra coast international. Il giorno dopo dispose un bonifico di 50 milioni di lire a favore del Cavaliere e del suo movimento.

Ad aprile 2003 fu eletta presidente dei giovani della Confcommercio per la provincia di Lecco. A novembre era già presidente nazionale di categoria. Il leader dei commercianti, Sergio Billè, si era appena dimesso e nell’interregno toccò a lei andare a Porta a porta e a Ballarò. Si fece subito notare per il cervello, e anche per le gambe messe in risalto dalle autoreggenti malandrine. Nel 2009 fu premiata da Berlusconi con la nomina a ministro del Turismo. Ma non era il suo posto, soprattutto in quel governo pasticcione.

Secondo me la Brambilla ha saputo esprimere il meglio di sé nelle battaglie animaliste, per le quali la ammiro molto. È fondatrice della Lega italiana per la difesa degli animali, vive circondata da 15 cani, 27 gatti randagi raccolti per strada, alcuni orbi di un occhio, 5 cavalli, 7 capre, 5 galline e 200 colombi. Ha anche una coppia di asini. Il maschio si chiama Ugo. Glielo regalai io quand’ero direttore di Libero. Stavano per farne stracotto a una Festa dell’Unità in provincia di Pavia. Lo acquistai e glielo feci recapitare a casa con un fiocco azzurro attorno al collo. È sopravvissuto a due tumori, poverino, uno dei quali lo aveva colpito a un organo che questi perissodattili esibiscono soprattutto a maggio. Gli hanno fatto una plastica ricostruttiva. Ugo è convinto che la Brambilla sia la sua fidanzata. Lei ricambia baciandolo sulla bocca.

Il merito principale della rossa salmonata, come l’ha ribattezzata Dagospia, è quello d’aver convertito Berlusconi alla causa animalista. Si tratta di un’operazione politica astuta e di grande rilievo, che parte da una considerazione: il 55 per cento degli italiani possiede un animale d’affezione. Una categoria trasversale. Un politico che ama gli amici domestici finisce per risultare simpatico, o almeno non antipatico, anche al più irriducibile dei suoi avversari.

Così il Cavaliere, inzigato dalla Brambilla, ha lanciato in grande stile l’operazione Forza Dudù, che prende il nome dal barboncino regalato dall’ex premier alla sua fidanzata Francesca Pascale e presentato addirittura al presidente russo Vladimir Putin, che ha potuto giocarci insieme nei corridoi di Palazzo Grazioli durante l’ultima visita a Roma. «È come un bimbo, gli manca solo la parola», dice Berlusconi del cagnolino. «Dobbiamo inventarci qualcosa per i cuccioli che non hanno le stesse fortune di Dudù», è stato il grido di battaglia del capo di Forza Italia. Detto fatto. Sono stati creati un sito e un profilo Facebook intitolati alla bestiola e uno spot tv ha lanciato una raccolta di fondi a favore dei cani abbandonati.

Il Cavaliere, si sa, non lascia nulla al caso. Ha commissionato un sondaggio demoscopico che gli ha svelato come il 30 per cento dei proprietari faccia dormire cani e gatti nel proprio letto e il 16 per cento addirittura sotto le coperte. L’animalismo militante potrebbe perciò tradursi in qualche punto percentuale in più alle elezioni. Da qui l’idea di trasformare i club di Forza Italia in consultori per gli animali bisognosi di assistenza.

La Brambilla ha convertito l’ex presidente del Consiglio a sostenere anche la campagna contro l’industria della pelliccia, «un regalo che non farei mai a una donna», ha fatto sapere Berlusconi. Perderà il voto di qualche sciura, e forse molte inserzioni pubblicitarie sui periodici della Mondadori, ma rischia di fare il pieno di ecologisti nelle urne. Voto: 7

BRERA Gianni (San Zenone Po, Pavia, 1919 - Codogno, Lodi, 1992). Giornalista e scrittore. Corrispondente da Parigi della Gazzetta dello Sport dal 1945, ne divenne poi direttore (1949-1954). Fu inviato del Giorno e direttore del Guerin Sportivo. Passò alla Repubblica nel 1982. Morì in un incidente stradale. Fra i suoi romanzi più famosi, Il corpo della ragassa (1969) e Naso bugiardo (1977).

Era fra i miei giornalisti preferiti. Adoravo le sue invenzioni semantiche, che abbondavano sul Guerin Sportivo, tipo discùlo, il contrario di culo. Sarà perché si usava a Bergamo: perdere una partita per discùlo.

La nostra amicizia nacque dopo una feroce inimicizia. Nel 1988 mi trovavo a Seul per il Corriere della Sera a seguire le Olimpiadi. Non mi occupavo delle cronache sportive, bensì del costume, del contorno, con una rubrichetta quotidiana. Mi chiamano da via Solferino e mi dicono che in città è sorto un comitato per candidare Milano a sede delle Olimpiadi del 2000. Ne fanno parte il sindaco Paolo Pillitteri, Massimo Moratti e Gianni Brera. Non credo alle mie orecchie. Ma di che parlano? Il palazzo dello sport è stato abbattuto dalla grande nevicata del 1985, l’Arena civica per le gare di atletica risale al 1807, in città non c’è neppure una piscina che abbia le misure olimpiche, cioè 50 metri per 25. Contrario al bizzarro progetto, vergo un articoletto che fa incazzare tutti, in particolare Brera, il quale dalle pagine della Repubblica me ne dice di tutti i colori. Io rispondo per le rime, con una stoccata crudele: ha toccato il fondo della bottiglia.

Tornato a Milano, ricevo un invito da Pillitteri per verificare di persona l’inizio dei lavori in vista della candidatura. Vado a Palazzo Marino il giorno convenuto, ma la segretaria mi dice che il sindaco non c’è, ha avuto un impegno improvviso, e mi fissa un appuntamento per la settimana successiva. Torno. Pillitteri è di nuovo assente. Mi presento dopo qualche giorno: stessa menata. Alla fine decido di andarmene a visitare i cantieri da solo. Comincio dalla piscina: trovo solo un nastro biancorosso che perimetra l’area. Nient’altro, neanche una pala. Rientro al giornale e stendo un pezzo che sputtana la giunta comunale socialista e i suoi velleitari propositi. Brera, che non è cieco, comincia a capire che non ho tutti i torti.

Trascorre qualche anno. Divento direttore dell’Indipendente. Un giorno mi reco a pranzo al ristorante Da Roberto, in corso Sempione. A un certo punto si avvicina il cameriere e mi dice che Gianni Brera vorrebbe avermi al suo tavolo per offrirmi un bicchiere di Barbera. Imbarazzato, mi alzo e vado. Lui, gentilissimo, mi fa accomodare e attacca a parlare. Racconti fantastici, ricchi di dettagli storici così strabilianti da sembrare inventati sul momento. In breve, diventiamo amici. Torno in ufficio e mi viene voglia di controllare alcune delle cose su cui Brera mi ha intrattenuto. Consulto la Treccani: tutto vero, neanche una data fuori posto. Da restare allibiti.

Passa un po’ di tempo e Brera mi offre una serie di suoi racconti di soggetto sportivo che teneva sul fondo di qualche cassetto. Merce di prim’ordine. Decido di trasformarli in una decina d’inserti, con uscita settimanale. Ci faccio anche la locandina. Risultato: L’Indipendente aumenta le vendite di 7.000 copie. Più perse. Particolare non trascurabile: i racconti erano regalati, non volle una lira. Lo fece per amore di testata, perché gli piaceva quel mio tentativo garibaldino di rompere gli schemi con pochi mezzi e assistito solo da un manipolo di valorosi.

Questo era, anzi resta, Gioânn Brera fu Carlo. Un uomo immenso, generoso, piacevole, dalla cultura sterminata, anche se dovette piegarla, o almeno adattarla, all’arte pedatoria. Quando morì, provai una strozza indicibile, come raramente m’è capitato in vita mia. Avevo perso un amico. Me l’ha fatto capire lui che cos’è l’amicizia: un sentimento che resiste all’usura del tempo, meglio dell’amore, che invece è un bene divisibile e prima o poi svanisce. Ma quando fra due persone che sono state innamorate si stabilisce un legame forte di amicizia, come quello che ho con mia moglie, per esempio, alla sola idea che l’altro possa morire diventi pazzo. Che interesse aveva Brera ad aiutarmi? Nessuno. Eppure mi aiutò. Solo gli amici veri lo fanno. Voto: 9

BRUNETTA Renato (Venezia, 1950). Economista, politico e docente universitario. Consigliere economico dei premier Bettino Craxi, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. Poi parlamentare europeo eletto nelle liste di Forza Italia. Deputato del Pdl dal 2008, è stato ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione del governo Berlusconi IV. Attualmente capogruppo di Forza Italia alla Camera. Autore della legge di riforma della pubblica amministrazione che porta il suo nome.

Tipetto peperino, incline ad accendersi come uno zolfanello. Ma pochi riescono a tenergli testa nella sua materia, e non solo in quella. Abbiamo fatto insieme una dozzina di allegati a Libero, su Romano Prodi, su Walter Veltroni, sui compagni al caviale, sulle tasse. Alcuni di grandissimo successo.

Sul piano personale il rapporto è rimasto ottimo. Solo che quando m’incontra pretende l’abbraccio con il bacio, e il giorno dopo mi si acuisce il mal di schiena. M’è capitato di scrivere qualche battutaccia sul suo conto, la più cattiva quando si candidò a sindaco della sua città, Venezia: glielo sconsigliai, ricordandogli che l’acqua alta per lui poteva rivelarsi fatale. Credo che non ci sia rimasto troppo male, avendo fatto ormai il callo a ironie ben più pesanti sulla sua statura. Però mi dispiace lo stesso e qui ne approfitto per chiedergli scusa. Voto: 7½

BUSCAROLI Piero (Imola, 1930). Giornalista, musicologo e critico musicale. Ha studiato organo, armonia e contrappunto con Ireneo Fuser e insegnato nei Conservatori di Torino, Venezia e Bologna. Dal 1955 al 1977 ha scritto per Il Borghese di Leo Longanesi, seguendo la rivolta d’Ungheria e la guerra nel Vietnam. È stato collaboratore del Giornale e direttore del quotidiano Roma di Napoli (1972-1975).

Esordì sul Giornale come critico musicale quando Paolo Isotta abbandonò la testata per trasferirsi al Corriere della Sera, come fecero anche Anthony Burgess e Danilo Mainardi, «per denaro», disse Indro Montanelli, e nel caso del mio amico Isotta era certamente vero, visto il principesco contratto. Lo stesso Montanelli costrinse Buscaroli a firmarsi con uno pseudonimo, per aggirare il veto che un potente, di cui mai rivelò il nome, aveva posto all’assunzione. Paolo Granzotto, che all’epoca era il braccio destro di Indro, sostiene invece che si trattò semplicemente di uno scrupolo per non offrire alla canea di sinistra un’occasione in più per lapidare Il Giornale.

Buscaroli scelse di firmarsi Piero Santerno. Il nom de plume merita una spiega. Pochi giorni dopo l’8 settembre 1943, al tredicenne Buscaroli vennero incontro, nei pressi di un ponte in Emilia, due soldati tedeschi su una moto con il sidecar. La gente del luogo fuggì terrorizzata. Solo lui gli andò incontro. Lasciò cadere la sua bici e fece il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose allo stesso modo. Il musicologo ricorda che fu la sua prima decisione da uomo: in quell’istante diventò ciò che è ancor oggi. Non un nazista, come hanno sostenuto Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, ai quali Buscaroli intentò causa, vincendola. Semplicemente un italiano. Si era schierato dalla parte dei perdenti. «Nach Ficarolo?», chiese l’uomo in divisa. Aveva smarrito la rotta, cercava la strada per Ficarolo. Quell’episodio avvenne sul fiume Santerno.

Dopo qualche tempo, Piero Santerno cedette il posto alla sua vera identità. Quando arrivai al Giornale, Buscaroli era in lite con l’amministrazione per una faccenda di soldi, nella quale non potevo mettere becco, visto che c’era in ballo un contratto fattogli da Montanelli. Finì con un divorzio. Forse lui si aspettava un mio intervento risolutore, pensava che un direttore avesse ancora poteri dittatoriali anche sull’ufficio cassa. Ma i tempi erano cambiati.

Mi dispiacque molto perderlo. Pochi uomini al mondo possono vantare l’orecchio assoluto e la cultura enciclopedica di Buscaroli. Ho fatto collaborare al Giornale la figlia Beatrice, docente universitaria che ha ereditato le doti migliori del padre applicandole all’arte, tanto che fu la curatrice del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2009.

Buscaroli ha un caratteraccio. Talvolta mi fa paura: in salotto tiene una foto di Osama Bin Laden dentro una cornice d’argento. Ma è un motore a 8 cilindri. Non si limita a scrivere di musica: la sa anche eseguire su un pianoforte Érard del 1856 che appartenne a Johannes Brahms. Bisognerebbe solo capire perché a un genio del genere fu impedito di lavorare con il proprio nome solo per il fatto d’essere stato fascista mentre a Giorgio Napolitano, che per 30 anni ha giustificato l’invasione sovietica dell’Ungheria, è toccato due volte l’onore di presiedere la Repubblica democratica dopo essere stato comunista. Voto: 8