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REDOLI Maria Luigia (Torino, 1939). Soprannominata la Circe della Versilia. Sta scontando l’ergastolo per aver convinto il suo amante, Carlo Cappelletti, a uccidere il marito, Luciano Iacopi. Entrambi i condannati si sono sempre proclamati innocenti.

Intorno alle 2 di notte del 17 luglio 1989 i carabinieri ricevono una telefonata da Maria Luigia Redoli, 51 anni, residente a Forte dei Marmi: «Correte, hanno ammazzato mio marito in garage». La vittima è Luciano Iacopi, 69 anni, immobiliarista. Oltre alla moglie, lascia due figli, Tamara e Diego, 18 e 14 anni, e un patrimonio di alcuni miliardi di lire. Il Corriere della Sera mi manda sul posto. Avvicino testimoni che mi descrivono il morto come una iena, un affarista capace di capovolgerti sottosopra per spillarti dalle tasche fino all’ultimo quattrino. L’unica a volergli bene era l’amante, Agata Tuttobene.

Il cadavere risulta trafitto da 17 coltellate. Chi sarà l’assassino? Non la moglie, che ha trascorso la serata in discoteca con il suo innamorato (sì, ce l’ha anche lei), Carlo Cappelletti, un fusto di 24 anni, alto un metro e 90, carabiniere a cavallo originario di Latina. Non i figli, che la Redoli, con riguardo materno, s’è portata in discoteca insieme al suo ganzo. Non l’amante, che appare al di sopra di ogni sospetto, avendo telefonato a Iacopi dal proprio appartamento subito prima del delitto.

Per gli inviati degli altri giornali la moglie del morto, una bionda platinata giunonica e vistosa, ha il physique du rôle per essere additata come colpevole. Mancano le prove, ma fa niente. Per tutti diventa la Circe della Versilia. Si scopre che nel giro di un quarto d’ora l’assassina avrebbe dovuto percorrere in auto 7-8 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, raggiungere casa e cambiarsi l’abito dopo aver ucciso il marito. Insieme a una collega provo il tragitto in auto e lo cronometro: impossibile che in 15 minuti sia riuscita a fare tutte quelle cose. Oltretutto, la Redoli avrebbe dovuto commettere il delitto, aiutata dal suo giovane amante che però aveva un braccio ingessato, mentre i figli se ne stavano seduti tranquilli ad aspettare sul sedile posteriore dell’automobile. Non ci credo neppure se lo vedo.

Dopo il primo pezzo sul Corriere, mi telefonò l’avvocato della Redoli: «Il suo articolo lo terrò come base per la difesa della mia assistita». Che infatti in primo grado fu assolta. Poi, per sua sfortuna, fui nominato direttore dell’Europeo e smisi di occuparmi del giallo. E la Circe della Versilia in appello si beccò l’ergastolo. Voto: 5

RENZI Matteo (Firenze, 1975). Politico. Cresciuto nell’ambiente scout, da studente universitario ha contribuito alla nascita dei Comitati per Prodi, suo primo impegno in politica. Divenuto segretario provinciale del Ppi e coordinatore della Margherita fiorentina, nel 2004 è stato eletto presidente della Provincia di Firenze e nel 2009 sindaco della medesima città. Nel 2012, candidato alle primarie del centrosinistra, ha girato per tre mesi l’Italia in camper per la campagna elettorale, ma ha perso al ballottaggio contro Pier Luigi Bersani. Nel dicembre 2013 ha vinto le primarie ed è stato eletto segretario del Partito democratico con il 68,1 per cento dei voti. Nel febbraio 2014 è diventato presidente del Consiglio.

Francesco Specchia, un bravo e un po’ stralunato giornalista di Libero, figlio di un alto ufficiale dell’Esercito, fu il primo alcuni anni orsono a parlarmi in termini entusiastici di Matteo Renzi. Diceva che era un mago, un progressista diverso da tutti gli altri, un fenomeno degno di essere studiato: non il solito ex comunista battente bandiera rossa nella convinzione che non esista altro Dio all’infuori di Marx (o Lenin). Non credetti a una sola parola di Specchia, del quale mi fidavo e mi fido quanto di me stesso: zero. Però mi rimase dentro una certa curiosità, il desiderio di verificare chi fosse quella specie di Ufo caduto dal cielo e infilatosi nelle schiere del partito che per lustri e lustri si era illuso di aver trovato la formula giusta per realizzare un’utopia assurda: la creazione dell’uomo nuovo e della società perfetta, capace di spartire equamente le ricchezze disponibili sulla terra.

Cosicché, quando Enrico Mentana mi offrì l’opportunità di partecipare a un faccia a faccia con Renzi, organizzato da Matrix su Canale 5 nel marzo 2011, fui ben felice di accettare l’invito. Il democratico (si fa per dire) era in studio, a Roma, mentre io mi trovavo nel mio ufficio a Milano: il classico collegamento esterno, realizzato per non costringere gli ospiti residenti lontano dalla capitale a sobbarcarsi una lunga trasferta. Fin dai primi minuti della trasmissione, mi accorsi che stranamente aveva ragione Specchia: il sindaco di Firenze era un tipo sui generis, completamente dissimile dai compagni. Non si esprimeva in politichese, ma conversava come un qualunque cristiano, badando a spiegare concetti concreti ed evitando di avventurarsi in astruserie ideologiche.

Ricordo che il giovanotto mi fece un’ottima impressione. In particolare, per un motivo: non si era dato arie da profeta, non aveva sferrato i soliti attacchi di maniera a Silvio Berlusconi, non aveva pronunciato discorsi improntati ai luoghi comuni della sinistra, ma – sorridente e persuasivo – si era impegnato a elencare le magagne che affliggono il nostro Paese, senza trascurare di proporre adeguati rimedi. Questo Renzi, pensai, sarà anche un bluff, però farà strada perché comunica con un linguaggio semplice, non si smarrisce in elucubrazioni, va dritto al sodo e le sue battute sono efficaci come quelle degli assidui frequentatori del bar Commercio. Chiacchierare con lui non annoiava. Confesso che provai per il ragazzone fiorentino molta simpatia, forse perché in campo calcistico anch’io sono viola e ho un giglio in fronte. Le relazioni umane sono sempre influenzate da vari fattori, e quelli sportivi incidono parecchio.

Pallone a parte, il mio tifo per Renzi si accentuò quando nel settembre 2012 questi passò dal dire al fare, presentandosi alle primarie del centrosinistra per la scelta del candidato premier. L’avversario da battere era Pier Luigi Bersani, dirigente d’antico pelo, uomo d’apparato, già ministro, sodale di Massimo D’Alema, fiduciario della base del Pd legata alla tradizione comunista e postcomunista. Sconfiggere costui in una competizione partitica era palesemente un’impresa velleitaria per un ragazzotto. E in effetti il giovane perse la partita, ma dimostrò di non essere una comparsa. Pur di farlo fuori, e impedirgli la corsa verso Palazzo Chigi, la nomenclatura del Pd, quella che l’aspirante si riprometteva di rottamare, aveva elaborato regolamenti talmente complicati (tutti favorevoli a Bersani) da rendere impossibile il suo trionfo.

Renzi tuttavia raggranellò parecchi voti, sufficienti a persuadermi che il vincitore morale della competizione fosse lui e a farmi immaginare che, in caso di successivo confronto tra il rappresentante del passato e quello del presente (e del futuro), sarebbe stato il giovin Matteo a prevalere. Così è avvenuto. Alle primarie del 2013 per la segreteria del Pd, ha stracciato ogni concorrente e si è piazzato sul gradino più alto del podio.

La ruota della fortuna ha cominciato a girare presto per Renzi: aveva appena 19 anni quando partecipò al programma di Mike Bongiorno su Canale 5, riscuotendo pure 48 milioni di lire. Adesso però che è diventato presidente del Consiglio e si prefigge nientepopodimeno che di portare a termine «una grande riforma al mese», più che dalla fortuna dovrà farsi assistere dall’Altissimo, non a caso subito invocato sulla sua personcina dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano: «Mi sembra che sia un programma molto impegnativo, ma spero che con l’aiuto di Dio ci riesca», ha commentato il porporato appena 24 ore dopo che l’ex boy scout fiorentino aveva ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano l’incarico di formare il nuovo governo. Come dire: qui ci vuole un miracolo.

Alcuni babbei continuano a sostenere che l’Italia fosse bisognosa di un premier eletto dal popolo e che pertanto il segretario del Pd avrebbe dovuto chiedere il voto anticipato. Immane asinata. La nuova legge elettorale è stata concordata tra Renzi e Berlusconi, ma, poiché ai primi di marzo del 2014 non era ancora stata approvata dal Parlamento, si sarebbe andati alle urne con il proporzionale di memoria andreottiana. S’immagini il risultato: un grande casino, nessuna maggioranza, governabilità zero. Ipotesi da scartare. Rimaneva l’alternativa di licenziare Enrico Letta e di sostituirlo con l’ipercinetico ragazzino, nella speranza che questi, non essendo grullo, fosse in grado d’incantare i serpenti che strisciano tra Montecitorio e Palazzo Madama, imponendo loro – mediante ipnosi e con la fattiva collaborazione del Cavaliere – di riformare la legge elettorale, correggere il titolo V della Costituzione ed eliminare il Senato.

Se l’operazione riuscisse, in un Paese inceppato quale il nostro, per Renzi sarebbe un trionfo. Il nuovo premier avrebbe poi buon gioco a persuadere i suoi, e gli altri, a dargli fiducia anche per la prossima legislatura. Che cos’altro poteva fare? Rimanere congelato nel frigidaire della segreteria piddina a litigare con Gianni Cuperlo e Pippo Civati? Attendere il decesso per cause naturali di Letta? Subire ulteriormente i morsi della crisi economica, tutt’altro che superata, benché l’Istat manifesti ottimismo per qualche decimale con il segno più?

Tra una sicura morte lenta e un tentativo azzardoso di cavalcare la tigre, Matteuccio ha optato per il rischio di essere sbranato dalla belva: o la va o la spacca. Ha fatto bene? Forse no. Ma non poteva agire diversamente. Se il Padreterno lo assisterà, egli avrà l’opportunità di tagliare la spesa folle dello Stato e di ridurre le tasse sulle imprese, incentivando la produzione, i consumi e l’occupazione. Per realizzare un piano simile serve coraggio, ciò che al monellaccio toscano, incosciente quanto ambizioso, non sembra mancare. Se poi andrà male, amen: conciati come siamo, sarebbe sciocco temere di toccare il fondo, dato che lo abbiamo raggiunto da un pezzo. Conviene confidare nell’effetto rimbalzo.

I 16 ministri (di cui la metà donne) che Renzi ha imbarcato con sé nella rocambolesca missione sembrano inferiori di qualche centimetro all’aurea mediocritas. Pier Carlo Padoan (Economia) è un burocrate che ha già lavorato per Giuliano Amato e Massimo D’Alema, gradito alla Ue, alla Bce, all’Ocse e soprattutto ad Angela Merkel, con un unico obiettivo nella vita: aumentare le tasse, meglio ancora se sotto forma di patrimoniale. Beatrice Lorenzin (Salute) è molto ferrata in campo ortodontico: fino a qualche mese fa portava ancora l’apparecchio per i denti. Marianna Madia (Semplificazione) è la pupilla di un orbo, Walter Veltroni; prima della promozione, si occupava «in particolare di precarietà», ma, essendo appunto ipovedente, un giorno che doveva incontrare il ministro del Lavoro andò a cercarlo al ministero dello Sviluppo economico, facendo sbellicare dalle risa tutti i portinai e i pizzardoni della capitale; all’atto del giuramento era all’ottavo mese di gravidanza: andrà in Consiglio dei ministri con il tiralatte. Dario Franceschini (Beni culturali) ha al suo attivo una meritoria iniziativa: s’è fatto crescere la barba per non essere riconosciuto per strada. Roberta Pinotti (Difesa) era una boy scout: monterà le tende nei campi invernali della brigata Julia. Gianluca Galletti (Ambiente) è un commercialista che si potrebbe fare ai ferri e nessuno se ne avrebbe a male, a parte Pier Ferdinando Casini, il quale lo considera un proprio prolungamento. Maria Elena Boschi (Riforme e Rapporti con il Parlamento) è una gnocca da urlo, l’unica al mondo le cui labbra, quando sono socchiuse, formino al centro un piccolo spiraglio a forma di cuoricino: neanche la Barbie ci riesce.

Un discorso a parte merita il solo ministro che conti davvero qualcosa nel governo, non per nulla Renzi ha tenuto nascosto il suo nominativo fino all’ultimo e lo ha estratto dal cappello a cilindro a consultazioni concluse. Giuliano Poletti (Lavoro) è un comunista vecchio stampo che è stato assessore del Pci al Comune di Imola e consigliere del Pds alla Provincia di Bologna. Dal 2002 è presidente della Legacoop, la più grande azienda italiana, una macchina da soldi che grazie alle scandalose agevolazioni fiscali di cui gode è arrivata a contare oltre 15.000 imprese e quasi mezzo milione di dipendenti, il doppio della Fiat, e a fatturare circa 80 miliardi di euro l’anno, 20 volte più di Mediaset. Con tanti saluti al conflitto d’interessi.

Quando l’Unipol tentò la scalata alla Bnl, e Piero Fassino fu beccato al telefono dalla Guardia di finanza mentre chiedeva al manager Giovanni Consorte: «E allora siamo padroni di una banca?», Poletti dichiarò imperturbabile alla Repubblica: «Un’operazione legittima e in linea con le esigenze di crescita del mondo cooperativo», aggiungendo che l’intercettazione era da considerarsi «un fatto del tutto normale». Dopo 15 mesi fu ricevuto in pompa magna al Quirinale dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Lo stesso nelle cui mani ha prestato giuramento come ministro il 22 febbraio 2014.

Mi meraviglia che nessun commentatore abbia rilevato, alla nascita del nuovo governo, questa drittata fotonica di Renzi. Che è l’unica, vera, straordinaria novità politica dell’ultimo mezzo secolo: il premier è riuscito a strappare la cassa dei compagni dalle mani dei vari D’Alema e Bersani annettendosi il cassiere.

Attenzione: Poletti non è solo l’uomo che attraverso Legacoop comanda sulle nove sorelle della grande distribuzione (Coop Estense, Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno, Coop Adriatica, Coop Liguria e via cooperando), su Conad, su Unipol-Sai, su Granarolo, sulle vincitrici degli appalti per la costruzione di grandi opere pubbliche (Ccc di Bologna, Cmc di Ravenna, Coopsette), su Camst e Cir food (colossi della ristorazione collettiva), sulla Centrale del latte di Milano, perfino sugli yogurt Yomo e sulle mozzarelle Pettinicchio. Dal 2013 presiede anche l’Alleanza delle cooperative italiane, che raggruppa 43.000 imprese, con 12 milioni di soci, 1,2 milioni di occupati, 140 miliardi di euro di fatturato aggregato. Stiamo parlando dell’8 per cento del nostro Pil. Senza contare la raccolta delle banche di credito cooperativo, che ammonta a 157 miliardi. L’Alleanza di Poletti rappresenta il 34 per cento della distribuzione e del consumo al dettaglio, il 13,4 per cento degli sportelli bancari del Paese, 35 miliardi di produzione agroalimentare, oltre il 90 per cento della cooperazione impegnata nel welfare (con 355.000 dipendenti che prestano servizi sociosanitari a 7 milioni di italiani).

Per il resto, Poletti a parte, rimango convinto che gli uomini e le donne di cui si avvale il presidente del Consiglio non siano granché importanti. Conta solo il manico. Si tratta di verificare se Renzi sia un manico o un manichino. Nelle prime settimane s’è distinto soprattutto per le ciance. Brutto indizio. Non è alla mia portata fare una previsione: ci vorrebbe Nostradamus. L’Italia è un Paese bislacco. Benito Mussolini diceva che governarlo non è difficile, ma inutile. Non aveva torto perché, indipendentemente dalle qualità di chi ne prende il timone, imporre alla nazione di osservare certe regole è arduo. Per vari motivi. Il più rilevante è che mancano gli strumenti per superare gli ostacoli burocratici che impediscono di varare qualsiasi riforma e, soprattutto, di tradurla in fatti. Il nostro sistema antiquato sembra architettato apposta per mantenere in eterno lo statu quo. Basta riflettere su quanto è accaduto a cavallo fra i due secoli: qualsiasi partito (o coalizione di partiti) abbia avuto responsabilità di governo si è scontrato con una selva di veti incrociati, di lobby ostili a ogni novità, di interessi tutelati da poteri più o meno forti.

A tutto si aggiungono le trappole che i mandarini dello Stato – grand commis, consiglieri giuridici, capi di gabinetto – riescono a tendere anche al presidente del Consiglio più esperto (e l’attuale non lo è) allo scopo di imbozzolarlo, depotenziando ogni suo slancio riformatore che segnerebbe la fine del loro illimitato potere. L’immobilismo è diventato una religione praticata con successo dalle corporazioni nostrane, tra le più potenti al mondo, e Renzi ne ha avuto un assaggio fin dalla prima settimana da premier incaricato, quando la sua marcia trionfale è stata subito rallentata da logoranti minuetti con il capo dello Stato, i presidenti di Camera e Senato, il governatore di Bankitalia. Non è andata meglio con i partiti: alla prima prova dei fatti, ha subito calato le braghe, rimangiandosi metà dell’accordo sulla legge elettorale che aveva raggiunto con Berlusconi: l’Italicum va bene, ma solo alla Camera.

Riuscirà dunque il nostro ad abbattere la muraglia che separa i suoi buoni propositi dalla loro realizzazione? Questo è il punto. La politica spesso è stata una sorta di fiera delle vanità e ha prodotto follie. Anche statisti strutturati e solidi si sono rivelati più bassi delle loro ambizioni. Basterà un giovane di belle speranze, per quanto sveglio, a dare la scossa a una Repubblica anchilosata dai propri vizi congeniti? La mia indole pessimistica mi rende dubbioso. D’altronde, l’esperienza ci ha riservato troppe delusioni. Come si fa a consegnare le chiavi dello Stato a un signorino che predica bene, ma che non sappiamo se razzolerà in modo coerente o se si rassegnerà presto a specializzarsi nell’arte di tirare a campare?

Prima che sindaco di Firenze, Renzi è stato presidente della Provincia e poi, con un doppio salto mortale carpiato, nell’arco di appena due mesi è salito al vertice del Pd e alla guida del governo. Molti sospettano che tiri a destra più di Berlusconi e che quindi, in caso di elezioni, ruberà voti al leader di Forza Italia. Improbabile, ma non impossibile. Essendo i due molto simili, si spartiranno la torta. E a noi resteranno le briciole. Mi auguro di sbagliare, come sempre. Voto: 5

RIMINI Cesare (Mantova, 1932). Avvocato. Specialista in diritto di famiglia. Ha assistito Marta Vacondio nel divorzio dal conte Umberto Marzotto.

Ha l’ufficio a 200 metri dal Palazzo di giustizia di Milano e sulla porta d’ingresso, così come sulla carta intestata, ha mantenuto l’antica denominazione – studio legale Orvieto – in memoria del suo maestro, Arturo Orvieto, primo cugino del padre e figlio di Alberto Avraham Orvieto, il rabbino di Bologna morto ad Auschwitz. Esordì andando al bar a comprargli i tramezzini al tonno per la pausa pranzo di mezzogiorno.

Poi, una mattina che nel vicino tribunale si trattava una causa per la tutela dei cruciverba della Settimana Enigmistica, il giovane Rimini si ritrovò da solo in aula. Orvieto era rimasto in studio, convinto che la discussione, secondo prassi, non si sarebbe svolta in apertura. Toccò al giovanotto difendere il settimanale fondato dal cavaliere del lavoro grand’ufficiale dottor ingegner Giorgio Sisini di Sorso, già conte di Sant’Andrea, come recitava la gerenza. E vinse al posto di Orvieto, confermando così la massima che il grande Francesco Carnelutti applicava agli avvocati esordienti: «Quando poi diventano famosi, costano di più e valgono di meno».

Oggi i Vip vanno da Rimini per divorziare. Invece io, memore del fatto che assisteva Enzo Biagi nelle faccende di soldi, mi rivolsi al matrimonialista mentre dall’Europeo mi accingevo a traslocare all’Indipendente. Mi fece ottenere un contratto eccellente, con tutte le virgole al posto giusto. Richiesi la sua consulenza anche nel passaggio dall’Indipendente al Giornale. Idem. Al contrario non lo chiamai quando l’editore Andrea Riffeser Monti mi trasformò in un mostro con tre teste: direttore del Quotidiano Nazionale, direttore del Giorno e direttore editoriale di tutto il gruppo Monrif, comprendente anche Il Resto del Carlino e La Nazione. Ed è stato uno dei più grandi errori della mia vita. Rimini mi avrebbe di sicuro fatto prendere tre stipendi, anziché uno solo. Voto: 8

RIZZOLI Angelo (Como, 1943 - Roma, 2013). Produttore cinematografico. Dal padre Andrea (1914-1983) ereditò nel 1978 la casa editrice fondata nel 1927 dal nonno Angelo (1889-1970), il quale aveva imparato il mestiere di tipografo in orfanotrofio e a soli 30 anni s’era ritrovato a essere uno degli editori più importanti d’Europa. Nel 1983, travolto dallo scandalo della loggia P2, dalle difficoltà finanziarie dell’azienda e dal crac del Banco ambrosiano, fu arrestato. Ne uscì prosciolto prim’ancora del processo. Ma nel frattempo la moglie, l’attrice Eleonora Giorgi, dalla quale aveva avuto un figlio, se n’era andata di casa e la Rizzoli era passata di mano. Risposatosi con Melania De Nichilo, medico e poi parlamentare del Pdl, che gli diede due figli, cominciò a produrre fiction televisive per Mediaset e per la Rai. Sulle orme del nonno, che aveva fondato la Cineriz, nel 2008 tornò anche al cinema producendo il film Si può fare interpretato da Claudio Bisio. Il 14 febbraio 2013 fu arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale per un crac da 30 milioni di euro e sottoposto a una lunga detenzione che aggravò irreparabilmente le sue già precarie condizioni di salute.

L’hanno condannato a morte. Non c’è altro modo per descrivere l’orribile fine di Angelo Rizzoli, nipote del fondatore della grande casa editrice milanese. Lo chiamavamo Angelone o Angelo junior per distinguerlo dal nonno, Angelo senior. Il quale, cresciuto da orfano nel collegio milanese dei Martinitt, aveva stampato la prima edizione dell’Enciclopedia Treccani, creato la più importante impresa editoriale d’Italia, seconda d’Europa per dimensioni, con una quota di mercato del 25 per cento, un fatturato di 1.000 miliardi di lire, 10.000 dipendenti, 8 quotidiani, 25 periodici fra settimanali e mensili, la divisione libri, le cartiere e la Cineriz, la casa cinematografica che produsse la saga di don Camillo e Peppone ma anche La dolce vita di Federico Fellini e i film di Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Pietro Germi, Vittorio De Sica, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini. La Rizzoli aveva rilevato nel 1974 la proprietà del Corriere della Sera, fonte di tutti i guai, non soltanto finanziari, della famiglia.

La storia tribolata di Angelone è stata raccontata mille volte e a rileggerla vengono i brividi. Ma ancora più raggelante è l’epilogo. Quest’uomo è stato letteralmente ammazzato da una giustizia che agirà legalmente, forse, ma si dimostra cieca, sorda e insensibile a tutto tranne che alle luci della ribalta. Quando si tratta di farsi pubblicità, si scatena e non si ferma più.

Tre anni prima di morire, richiesto di tracciare la sua biografia come se dovesse essere inserita nella Garzantina, si definì così: «Editore, proprietario del gruppo Rcs, arrestato ingiustamente il 18 febbraio 1983 e ingiustamente privato di tutti i suoi averi dalla spregiudicatezza e dall’avidità dei poteri finanziari italiani, che hanno completato il disegno criminoso della P2: estromettere Rizzoli dalla Rizzoli». Null’altro.

Un curriculum stringato che si riverberava nelle sue carni: trascinava la gamba destra aiutandosi con il bastone; una mano, semiparalizzata, pendeva inerte lungo il fianco. L’avevano maciullato, eppure non erano riusciti a distruggerlo. «Su questo, contavano: che morissi durante i 407 giorni passati in galera», diceva dopo la prima interminabile detenzione. «Hanno fatto male i conti. Mai sottovalutare i cromosomi di famiglia. Mio bisnonno, ciabattino, era di Cavalese, Val di Fiemme, allora Austria. Montanari di grande tempra, teste dure».

L’orgoglio era il suo peggior difetto e la sua migliore qualità. Aveva rinunciato a patteggiamenti, indulti, prescrizioni e altre scorciatoie perché pretendeva giustizia piena. Tenne duro per 26 anni, fino a quando la Cassazione non gli restituì la sua dignità. Affrontò 6 processi. Uno dopo l’altro, fu sempre assolto con formula piena e con la medesima motivazione: «Il reato non sussiste». Al casellario giudiziale risultava una sola annotazione a suo carico: «Nulla». Incensurato. Innocente per sentenza definitiva della Repubblica italiana.

Però la giustizia non si era ancora data per vinta e Rizzoli fu nuovamente arrestato il 14 febbraio 2013 – un’altra volta di febbraio, maledetto febbraio – per bancarotta fraudolenta. Il provvedimento adottato dalla Procura di Roma recava un nome gentile: custodia cautelare. Ma si trattava di una porcheria, specialmente in questo caso, poiché il detenuto era già praticamente semiparalizzato e impossibilitato a fuggire. Quella mattina le forze dell’ordine irruppero nella sua casa romana di via Pietro Paolo Rubens, ai Parioli, e gli notificarono la privazione della libertà: in galera. Gli tolsero persino il bastone di sostegno, senza il quale non era in grado di camminare. Dinanzi all’evidenza, bontà loro, le autorità – dopo averlo tenuto una giornata tra color che son sospesi – lo fecero tradurre all’ospedale Sandro Pertini. Che non è una prigione, peggio: tanto per capirci, è la deliziosa struttura dotata di reparto detentivo in cui morì il giovane Stefano Cucchi nella maniera che tutti sanno.

Da notare che il presunto criminale, oltre ad avere 70 anni, era portatore di qualsiasi malattia, esclusi l’alluce valgo e il ginocchio della lavandaia: diabete, insufficienza renale, disturbi cardiaci, ipertensione. La sclerosi multipla lo martoriava dal 1963, pregiudicando le sue facoltà motorie. Non bastasse questo quadro patologico, Rizzoli fu visitato dal medico e il referto certificò la compatibilità del detenuto con la vita carceraria. Da restare basiti. A occhio nudo, anche un infermiere alle prime armi avrebbe capito che quel paziente non era debilitato bensì distrutto e bisognoso di continua assistenza, incapace com’era persino di recarsi in bagno se non con l’aiuto di qualcuno.

Niente da fare. La burocrazia giudiziaria e il suo apparato cinico sentenziarono che di arresti domiciliari neanche parlarne. Questo perché la moglie, Melania De Nichilo, pur non avendo da medico e da parlamentare (ovviamente del Pdl) mai messo becco nelle aziende del marito, era stata coinvolta quale correa – poi prosciolta – nell’inchiesta. Cosicché i due coniugi non erano autorizzati a convivere sotto lo stesso tetto: c’era il sospetto che ordissero chissà quali altri piani criminosi. Una situazione surreale, che impedì alla signora per settimane di avere un colloquio con il coniuge infermo. Il quale per quattro mesi e mezzo rimase inchiodato nel letto. Gli era vietato fare qualsiasi cosa che non fosse dormire.

Durante l’intero periodo di detenzione al Pertini, Rizzoli fu interrogato in una sola circostanza e per 20 minuti. Se qualcuno mi spiega il senso di un simile trattamento crudele nei confronti di una persona accusata – non colpevole – di un reato finanziario, gli offro un premio in denaro, da quantificarsi.

Quando finalmente nel giugno 2013 il disgraziato ottenne la “grazia” degli arresti domiciliari, era l’ombra di sé stesso, un ectoplasma che trascorreva le giornate passando dal materasso alla poltrona e viceversa. Le sue forze, già ridotte al lumicino, diminuirono ulteriormente. Naturale: un fisico già oltremodo debilitato, se obbligato all’immobilità, perde via via anche le energie residuali. In estate (inoltrata), il miracolo: libertà provvisoria. Talmente provvisoria che Rizzoli, ormai inabile alla deambulazione, non poté godersela. Raramente i familiari lo convincevano la domenica a recarsi con vari sostegni in trattoria, affinché non si sentisse isolato del tutto dal consorzio civile.

Conciato com’era, con i valori delle analisi ematochimiche sballati, le sue aspettative di vita si avvicinarono allo zero. Probabilmente, lui se ne rendeva conto, ma era sorretto ancora una volta dalla volontà di dimostrare la propria innocenza. Non smise mai di lottare, sempre alle prese con avvocati e commercialisti. Per distruggerlo non soltanto fisicamente, ma anche moralmente, le toghe gli avevano sequestrato ogni bene, inclusi la casa d’abitazione, i mobili di pregio, i tappeti, i quadri, l’argenteria, i depositi bancari. Se questa non fosse la descrizione fedele di una vicenda vera ma la sceneggiatura di un brutto film, mi sembrerebbe indegna di essere trasformata in pellicola. Quando si dice che la realtà supera la fantasia non si sbaglia. Qua ci sono le prove.

Nonostante il temperamento d’acciaio, alla fine Rizzoli crollò: un dolore lancinante alla gola e al petto; subito il ricovero d’urgenza al Policlinico Gemelli. Sarebbe stato indispensabile ricorrere ai bypass perché le coronarie erano otturate. Ma come si poteva operare un individuo con il diabete, dializzato a causa dell’insufficienza renale, affetto dalla solita polmonite che di norma sopraggiunge nei cardiopatici e per soprammercato intubato per compensare la respirazione difficoltosa? Ignoro se, per chi soffre, la morte sia un sollievo. Ma so che Angelo Rizzoli non era in condizione di sopportare altre torture in aggiunta a quelle inflittegli dalla cosiddetta giustizia.

La sfortuna, e non soltanto quella, si è accanita su quest’uomo con una ferocia senza pari. La famiglia Rizzoli in 40 anni è stata asfaltata, saccheggiata, perseguitata. A differenza di tanti imprenditori che ne hanno combinate di tutti i colori, cavandosela sempre con pene miti o nessuna pena, e soprattutto conservando il patrimonio e la pelle, i discendenti dell’ex martinitt sono stati massacrati. È proprio vero che se il destino ha deciso di pugnalarti alla schiena, il vento ti solleva il mantello per agevolare il fendente finale.

La morte di Angelo Rizzoli non avrà pesato, però, sulla coscienza di coloro che l’hanno provocata. Dubito che ce l’abbiano, una coscienza. Voto: 8

ROL Gustavo Adolfo (Torino, 1903-1994). Sensitivo. Di famiglia agiata, dopo la laurea in giurisprudenza trovò impiego nella Banca commerciale italiana, per la quale lavorò in varie filiali d’Europa. Nel 1927 fu colto da una crisi mistica che lo portò per un periodo a ritirarsi in convento. Partecipò alla seconda guerra mondiale come capitano degli alpini. Nel frattempo, a partire dagli anni Trenta, nei salotti torinesi s’era diffusa la convinzione che Rol fosse dotato di particolari poteri (chiaroveggenza, telepatia, bilocazione, levitazione, telecinesi, smaterializzazione di oggetti), di cui dava saggio a nuclei ristretti di ospiti. Fra i suoi ammiratori vi furono Albert Einstein, Enrico Fermi, Gabriele D’Annunzio, Benito Mussolini, Charles De Gaulle, Luigi Einaudi, Ronald Reagan, Jean Cocteau, Salvador Dalí, Franco Zeffirelli, Gianni Agnelli. Un servizio su Epoca nel 1951 e un articolo dello scrittore Dino Buzzati sul Corriere della Sera nel 1965 contribuirono a farlo conoscere al grande pubblico. Condusse sino alla fine una vita molto appartata. Le sue presunte facoltà soprannaturali furono contestate soprattutto dal giornalista Piero Angela e dallo scienziato Tullio Regge, fondatori del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale).

Devo fare una premessa affinché si sappia subito da quale pulpito viene la predica: fatico a credere in Dio, figuriamoci al paranormale. Tutto ciò che attiene al mondo invisibile non suscita in me un grande interesse. Parapsicologia, spiritismo, metempsicosi e perfino astrologia sono materie molto frequentate da cialtroni con tanto di certificato, e ciò non invita a prenderle sul serio, anche se confesso che talora la curiosità mi spinge a dare un’occhiata all’oroscopo. Non solo. Mi è capitato in passato di avere atteggiamenti superstiziosi. Insomma, sono incline a credere che la sfiga esista e non mi do arie da uomo al di sopra di queste materie.

Negli anni Ottanta svolsi per il Corriere della Sera un’inchiesta sul paranormale. Non trovai nessun chiaroveggente che mi convincesse. Andai in visita anche da Gustavo Adolfo Rol, famosissimo per i suoi poteri, le cui azioni sembravano violare in modo sconcertante le leggi della fisica. Secondo il mio amico Roberto Gervaso, suo grande estimatore, egli era capace di predire il futuro, scrivere a distanza, leggere i libri senza aprirli, disintegrare gli oggetti con uno sguardo o trasferirli da un luogo all’altro senza toccarli. Per lui non sembravano esistere barriere di spazio e di tempo, nonostante abbia negato ripetutamente fino all’ultimo tutte le qualifiche – sensitivo, veggente, medium, taumaturgo – che gli furono affibbiate, limitandosi a sostenere d’essersi accorto fin da ragazzo di possedere solo «doti di un’intuizione profonda e istintiva».

A Cesare Romiti fece mettere nella tasca della giacca un foglio bianco. Poi gli ordinò di estrarlo: risultava pieno di buoni consigli scritti a mano da Vittorio Valletta, che era stato direttore generale della Fiat dal 1921 e presidente dal 1946. Romiti conosceva bene la calligrafia di Valletta. «Era proprio la sua», assicura ancor oggi. Rol era dotato di facoltà incredibili anche a giudizio di Guido Ceronetti.

A insistere perché lo incontrassi fu Antonio Terzi, vicedirettore del Corriere della Sera, il quale da direttore di Gente e della Domenica del Corriere aveva contribuito a rendere popolarissimo il sensitivo, pubblicando numerosi servizi sul suo conto. Terzi, bergamasco come me, laureato in filosofia, era un credente granitico. Nessuno riusciva a schiodarlo dalle sue certezze in materia di fede. Ovvio perciò che fosse soggiogato dal fascino di Rol, come del resto Vittorio Messori, il più famoso scrittore cattolico, l’unico ad aver goduto della piena fiducia di due pontefici – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – che si sono lasciati intervistare da lui in altrettanti libri.

Nel 2000 pranzai con Messori a Sirmione. Volevo convincerlo a lasciare il Corriere della Sera per venire a Libero come vaticanista, ma non ci riuscii. In quella circostanza mi confidò: «Tra le persone a cui rivolgo una preghiera d’intercessione quando mi trovo in difficoltà, c’è anche Rol. In effetti, checché si sia detto di lui, l’uomo che io ho conosciuto era da messa quotidiana, da volontariato al Cottolengo, da carità nascoste, da pellegrinaggi in incognito a Lourdes, da difesa esplicita non tanto del cristianesimo quanto del cattolicesimo, e il più ortodosso». Da cronista di Stampa Sera e poi da redattore di Tuttolibri, settimanale culturale della Stampa, Messori fece parte del ristrettissimo cenacolo ammesso a frequentare, seppure di rado, l’enigmatica casa affacciata sul parco del Valentino.

Terzi chiese di accompagnarmi nella trasferta a Torino. Rol ci ricevette in quella specie di sacrario che era l’abitazione di via Silvio Pellico, il cui arredamento, tutto in rigoroso Primo Impero, alla sua morte sarebbe finito all’asta da Sotheby’s a Londra, spuntando cifre sorprendenti, dopo essere stato inventariato in un lussuoso, filologico catalogo. Il sensitivo ruppe il ghiaccio stappando una bottiglia di champagne. Poi mi mostrò alcuni quadri, dipinti, a suo dire, da pennelli che non erano stati maneggiati né da lui né da altri, ovvero mossi da una forza misteriosa. Dall’espressione perplessa del mio volto dovette intuire che non ero un tipo facilmente suggestionabile. E infatti si astenne dall’esibirsi in qualcuna delle mille prodezze che Terzi mi aveva tanto decantato. La conversazione finì ben presto per languire.

Rientrato a Milano, non riuscii a ricavarci neppure un pezzo per il Corriere, con grande disappunto del vicedirettore. Tutto previsto, peraltro, da una dedica che Jean Cocteau fece al controverso personaggio: «All’incredibile Rol, che sarà credibile solamente dopodomani». Io sono rimasto fermo a ieri e, da incredulo paralizzato sulla soglia del mistero, non riesco a esprimere nessuna valutazione. Voto: s.v.