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NAPOLITANO Giorgio (Napoli, 1925). Undicesimo presidente della Repubblica, al suo secondo mandato. Nel 1945 ha aderito al Pci, del quale è stato dirigente sino alla costituzione del Pds. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1953, ne ha fatto parte – tranne che nella quarta legislatura – fino al 1996, riconfermato sempre nella circoscrizione di Napoli. Parlamentare europeo (1989-1992). Presidente della Camera (1992-1994). Ministro dell’Interno nel governo Prodi I. Nominato senatore a vita nel 2005. Eletto presidente della Repubblica con 543 voti nel 2006. Rieletto nel 2013 con 738 voti. Sposato con Clio Bittoni, ha due figli, Giovanni e Giulio.

Ha ragione Beppe Grillo: merita l’impeachment. Negli Stati Uniti chiamano così l’incriminazione di un ufficiale civile, compreso il presidente, che si sia reso colpevole di tradimento. E Giorgio Napolitano ha tradito. Magari in punta di diritto riuscirà a sfangarla anche stavolta, ma gli resterà appiccicato addosso per sempre il marchio d’infamia. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Ha tradito la sua funzione. Ha tradito la Costituzione. Ha tradito gli italiani che avevano eletto un presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e se ne sono ritrovati a Palazzo Chigi un altro, Mario Monti, imposto dal capo dello Stato con un vero e proprio golpe. Il complotto fu orchestrato insieme ai poteri forti, in primis banche e giornali, sulla base di un documento segreto di 196 pagine, intitolato “Appunti per un piano di crescita sostenibile per l’Italia”, che l’allora consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, consegnò a Napolitano e Monti, venendo poi cooptato nel nuovo governo che doveva metterlo in pratica (e per fortuna che non ci riuscì, visto che contemplava una tassa patrimoniale del 2 per cento su tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare, esclusa la prima casa: depositi bancari e postali, titoli di Stato, fondi d’investimento, polizze assicurative e previdenziali).

A inchiodare il despota del Quirinale ci sono le testimonianze che Carlo De Benedetti e Romano Prodi hanno reso al giornalista Alan Friedman, riportate nel libro Ammazziamo il gattopardo. Ove non bastassero, è arrivata la conferma in una videoconfessione dello stesso Monti, prima alla Tv del Corriere e poi al Tg1: Napolitano comunicò al Professore con cinque mesi d’anticipo che doveva prepararsi a prendere il posto del Cavaliere alla guida del governo. In quel momento, giugno 2011, Berlusconi era il premier legittimamente eletto. Non aveva subìto alcuna condanna definitiva, né era stato fatto decadere da senatore. Ciononostante a novembre sarebbe stato rimpiazzato dal tecnocrate bocconiano, senza che il Parlamento avesse sfiduciato il governo in carica, solo perché così aveva stabilito sottobanco il capo dello Stato d’intesa con quelli che contano.

Invitato da Napolitano a scaldare i motori e a tenersi pronto per il cambio in corsa, Monti si consultò con Prodi, che lo incoraggiò: «Se te lo offrono, non puoi dire di no» (sottinteso: il governo). Non contento del viatico mortadellesco, due mesi dopo, ad agosto, raggiunse De Benedetti nella sua casa di St. Moritz, in Svizzera. L’editore della Repubblica e dell’Espresso gli consigliò di accettare di gran carriera la proposta di Napolitano.

Ora è tutto maledettamente chiaro. È chiaro che lo spread non sfondò quota 500 perché l’economia andava a rotoli. È chiaro che il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi fu fatto salire artatamente dai 173 punti base di giugno ai 552 di novembre per creare un’emergenza fittizia che facesse digerire il ribaltone agli italiani (prova ne sia che a febbraio 2014, con lo spread tornato poco sopra i valori del giugno 2011, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, dichiarava con le mani nei capelli d’essere ancora addirittura «terrorizzato» dall’andamento dell’economia). È chiaro che il presidente della Repubblica andò ben oltre le sue prerogative, senza che gli elettori ne fossero edotti. È chiaro che un privato cittadino, da italiano diventato svizzero, riesce a pilotare la politica nazionale, purché si chiami De Benedetti e sia proprietario di 28 fra quotidiani e periodici, 5 canali televisivi e 3 radio, dopodiché a distanza di anni gli è pure consentito di vantarsene pubblicamente. È chiaro che in Italia comanda Sua Maestà il re imperatore Giorgio I, non il popolo.

Tanta energia in un nonagenario è stupefacente. Quando Napolitano nel 2005 fu nominato senatore a vita, rimasi di stucco: credevo che fosse già morto. L’ultimo segnale di esistenza lo aveva dato l’anno precedente, incalzato da un giornalista della televisione tedesca Rtl, Boris Weber, il quale aveva scoperto che l’europarlamentare dei Democratici di sinistra era inciampato in un rimborso di 800 euro per un volo Roma-Bruxelles della compagnia Virgin Express che in realtà ne costava appena 87,79, tasse aeroportuali incluse. Nel servizio filmato, che solo i cittadini della Germania ebbero il bene di vedere, Napolitano perdeva le staffe, dava in escandescenze pur senza tradire un inglese quasi perfetto, agitava il dito ammonitore, rimandava l’importuno ai questori, gridava che gli unici a cui doveva rendere conto erano i contribuenti italiani, minacciava di chiamare gli agenti della sicurezza e infine prorompeva nell’idioma nostrano: «Si vergogni!» Una scena miserevole.

L’anno seguente fu eletto presidente della Repubblica dalla maggioranza di centrosinistra che aveva appena vinto le consultazioni politiche grazie a Prodi, e molti, io fra costoro, pensarono che fosse resuscitato. In effetti risultava sparito dalla circolazione, quantomeno dalla scena. Invece era ancora vivo, fors’anche a sua insaputa. Ma nel giro di poche settimane dimostrò che il Quirinale esercita effetti miracolosi sulla salute del corpo e della mente. Napolitano vi entrò con passo incerto, curvo sotto il peso dei suoi 81 anni. Già alla sua prima uscita sembrava reduce da un trattamento con il Gerovital nella clinica della dottoressa Ana Aslan a Bucarest: dritto come un fuso, impettito, pieno di vigore e soprattutto lucidissimo.

Che se la spassasse con la consorte Clio nella reggia di Monte Cavallo, più confortevole della piscina in cui recuperavano la perduta giovinezza Art, Ben e Joe, i tre vecchietti del film Cocoon, a noi ormai ultrasettantenni non poteva che far piacere: è il sogno di tutti prenotare una vacanza a vita, e soprattutto a sbafo, con il culo al caldo. Ma il fatto gli è che un bel giorno, per raccontarla alla maniera di Carlo Collodi in Pinocchio, la sorprendente metamorfosi dell’inquilino del Quirinale ha cominciato a estendersi all’ambito strettamente istituzionale. Da notaio della Repubblica e supremo custode della Costituzione, nonché dell’unità nazionale, il nostro si è erto a leader morale del Paese. Ormai il presidente è visto e considerato come una guida illuminata e la sua parola è ascoltata con tale rispetto che nessuno osa contraddirla. Strano, perché ogniqualvolta un partito accenna all’opportunità di trasformare la repubblica parlamentare in repubblica presidenziale viene zittito quasi che avesse bestemmiato. Insomma, il presidenzialismo è proibito sulla carta, ma può essere esercitato in forma surrettizia da re Giorgio.

Non passa giorno senza una dichiarazione attribuita al Quirinale. Napolitano non si limita a dare un’occhiata alle leggi approvate dal Parlamento, onde verificare che non siano in contrasto con la Costituzione e abbiano la necessaria copertura finanziaria. No, le orienta con avvertimenti preventivi già in fase di stesura. Indirizza, consiglia, ammonisce, recrimina. Forma i governi a propria immagine e somiglianza. Detta il ruolino di marcia e gli obiettivi dei medesimi. Convoca il premier per catechizzarlo e lo tiene – era il caso di Enrico Letta – al riparo dai fulmini. Riceve in continuazione i leader della maggioranza e dell’opposizione per fustigarli o per blandirli. Sollecita provvedimenti legislativi. Si circonda di una corte di reggicoda, i cosiddetti quirinalisti, ai quali con sapienti dosaggi o con grossolane insufflazioni detta temi e suggestioni da sviluppare nei rispettivi giornali, lasciando trapelare i propri disappunti in modo anonimo, trincerato dietro la ridicola formula che segnala un giorno sì e un giorno no «l’irritazione del Colle» per questo o quel provvedimento, per questa o quella polemica, per questa o quella critica. Infine, se un governo non gli va a genio, lo cambia, previa nomina di un senatore a vita (Monti) cui conferire l’incarico.

Uno si chiede: Sua Maestà ha titoli morali e politici per esercitare il regale mandato ad ampio spettro che si è autoattribuito? Analizziamo. Dopo aver definito Lenin «espressione e guida geniale del movimento rivoluzionario», nel 1974, quando Aleksandr Solženicyn fu espulso dall’Unione Sovietica, in un lungo articolo uscito sull’Unità, e ripubblicato pochi giorni dopo da Rinascita, Napolitano scrisse cose che, a rileggerle oggi, fanno ancora accapponare la pelle: imputava allo scrittore reduce dai gulag «aberranti giudizi politici»; gli addebitava «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’ottobre»; lo additava al pubblico disprezzo per le «cospicue somme da lui accumulate, grazie ai diritti d’autore, nelle banche svizzere»; sottolineava come «solo commentatori faziosi e sciocchi» potessero «prescindere dal punto di rottura cui Solženicyn aveva portato la situazione»; sosteneva infine che le «tesi ideologiche» del dissidente avevano «suscitato larghissima riprovazione» nella sua patria e che, pertanto, era giustificabile chi considerava il suo esilio la «soluzione migliore».

Vado avanti. Ha lasciato passare 30 anni esatti prima di riconoscere d’aver sbagliato schierandosi a favore dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Quando i carri armati di Mosca stroncarono la rivolta a Budapest, Napolitano aveva salutato con entusiasmo la brutale repressione volta «a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo».

Da ministro dell’Interno, Napolitano è riuscito nella storica impresa di far rimpiangere Antonio Gava e, sul fronte caldo dell’immigrazione, di rivalutare Roberto Maroni, colui che nel 1994 lasciò passare il famigerato decreto salvaladri e, allorché Umberto Bossi gli chiese spiegazioni, rispose candidamente: ho scorso il testo ma non ne ho afferrato il senso (fu il primo caso di un membro del governo che, pur scrivendo abbastanza bene, non aveva ancora imparato a leggere).

Nel 1991-1992 ha condotto una campagna forsennata per far dimettere il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, per il quale il Pds chiedeva l’impeachment, proprio come il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo – ah, le nemesi! – propone adesso per Napolitano. L’ex comunista accusò il capo dello Stato di tenere «comportamenti inquietanti», di commettere «forzature istituzionali», di minacciare «la serena dialettica tra i poteri democratici». Anni dopo se l’è presa con me perché avevo ricordato tutto questo su Libero. Ha fatto ricorso ai soliti corazzieri della stampa amica per censurare il «repertorio di provocatori giudizi» che avevo pubblicato e mi ha rinfacciato con alterigia di non sapere «nulla del rapporto di amicizia e stima stabilitosi nel corso di oltre 50 anni» fra lui e Cossiga. Io non saprò nulla, però mi è bastato parlare qualche volta con l’ex inquilino democristiano del Colle per comprendere che cosa pensasse davvero del suo successore.

Napolitano ha chiacchierato al telefono dal Quirinale con l’ex ministro Nicola Mancino, indagato per la torbida vicenda della presunta trattativa fra Stato e mafia, e ha cercato di aiutarlo in tutti i modi. Quando ha avuto sentore che quelle conversazioni, intercettate per sbaglio dalla Procura di Palermo, potessero finire in pasto alla stampa o essere portate in un’aula di giustizia, ha sollevato un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale fino a ottenere che venissero distrutte, confermando così implicitamente che non sarebbe stato molto edificante leggerle sui giornali e rinunciando all’unico precetto che la sua coscienza avrebbe dovuto suggerirgli a mo’ di scudo: male non fare, paura non avere.

Oggi siamo al paradosso per cui il primo e unico comunista che sia riuscito a insediarsi nella residenza dei papi e dei re ha deciso – dopo che in precedenza aveva solennemente escluso «nel modo più limpido e netto», con tanto di comunicato ufficiale, «una riproposizione del suo nome per la presidenza» – di rimanervi per un altro settennato, che si concluderà, a Dio piacendo, nel 2020, quando starà per compiere 95 anni. Un caso unico al mondo di statista che non solo supera di slancio la terza e la quarta età, ma sbaraglia anche la quinta. A questo punto non mi sentirei di escluderne una sesta.

Per come s’è comportato nella sua lunga vita, dovrei mettergli un 2 in pagella. Ma ha commutato in una pena pecuniaria di 15.532 euro i 14 mesi di detenzione che il mio amico Sallusti avrebbe dovuto scontare ingiustamente in galera e per questo gesto di clemenza, di cui gli sono grato, merita la sufficienza. Perciò, come i vecchi professori, faccio la media matematica e ci aggiungo un mezzo punto d’incoraggiamento. Alla sua età ne ha bisogno. Voto: 4½

NEGRI Toni all’anagrafe Antonio (Padova, 1933). Filosofo. Di formazione cattolica, docente di dottrina dello Stato all’Università di Padova e leader di Autonomia operaia, è stato arrestato nel 1979 con l’accusa d’essere l’ideologo delle Brigate rosse. Condannato nel 1984 a 30 anni di reclusione (ridotti a 12 in appello). Eletto deputato radicale, scarcerato, a lungo latitante a Parigi. Rientrato in Italia nel 1997, ha scontato altri due anni di prigione. Dal 1993 è pensionato della Camera.

Io l’avrei assolto con formula dubitativa non solo dal reato d’insurrezione armata, come avvenne, ma anche da tutte le altre imputazioni. È stato additato quale “cattivo maestro”. E allora? Non è neppure simpatico, se è per questo. Ma le idee, anche quando sono violente, non si devono processare. Si può essere chiamati a rispondere solo dei reati commessi personalmente e, nel caso di Negri, non parlerei di abbondanza di prove in materia, anzi. È stato un “cattivo maestro” per le sue idee, non c’è dubbio, ma aveva tutto il diritto di esprimerle. Voto: 4

NUTRIZIO Nino all’anagrafe Stefano (Traù, Croazia, 1911 - Bagno a Ripoli, Firenze, 1988). Giornalista. Figlio d’irredentisti dalmati, cresciuto a Trieste, esordì poco più che ventenne nel giornalismo collaborando con Il Giornale di Genova. Nel 1932 entrò nella redazione sportiva del Secolo XIX e successivamente divenne direttore del settimanale Genova Sport. Fu poi assunto al Popolo d’Italia. Nel 1952 fondò a Milano il quotidiano del pomeriggio La Notte, che diresse fino al 1979, inaugurando un nuovo modo di fare giornalismo. Scrisse per Settimana Incom, L’Europeo, Il Tempo, Epoca, Oggi e Candido. Non rinnegò mai l’adesione al fascismo. La sorella Maria Carmen fu una nota stilista con il nome d’arte di Mila Schön.

Era diventato famoso come giornalista sportivo al Popolo d’Italia, il quotidiano fondato da Benito Mussolini. Quando vi fu assunto, il direttore era Vito Mussolini, il quale aveva ereditato il bastone del comando nel 1931, alla morte del padre Arnaldo, fratello minore del Duce. Durante il secondo conflitto mondiale, Nutrizio diventò corrispondente di guerra a bordo dell’incrociatore Pola, che venne affondato il 27 marzo 1941 nella battaglia di Capo Matapan. Recuperato in mare dall’equipaggio di un cacciatorpediniere britannico, il giornalista fu rinchiuso nel campo di prigionia di Yol, in India. Ci rimase fino al 1946. Raccontava, forse per scherzo, che la massima crudeltà dei carcerieri inglesi consisteva nel costringere i prigionieri a incidere un secondo taglietto sul fondo dei chicchi di caffè. In realtà credo che ne avesse passate di ben peggiori, perché aggiungeva: «Fu un esperimento integrale di comunismo. Stessi cibi, stesso reticolato, stesse esigenze, stesse possibilità. Contavano solo le gerarchie a torso nudo, i generali non contavano».

Rientrato in Italia, e non trovandovi più il suo giornale, s’ingegnò come direttore tecnico dell’Inter, a 50.000 lire mensili. A trovargli questo lavoro fu Emilio Colombo, che era stato direttore della Gazzetta dello Sport dal 1921 al 1936 e che morì l’anno dopo. Ma ben presto Nutrizio fu assunto da Filippo Sacchi al Corriere di Milano e poi divenne caposervizio dello sport al Corriere Lombardo diretto da Benso Fini. Fu lì che andò a pescarlo Carlo Pesenti. L’industriale bergamasco del cemento, sollecitato da ambienti politici cattolico-liberali, s’era deciso a varare un giornale di scopo per sostenere Alcide De Gasperi e il nuovo sistema maggioritario con cui il Paese si apprestava a votare alle politiche del 1953, avversato dai socialcomunisti come “legge truffa”. Poi, finita la campagna elettorale, le pubblicazioni sarebbero state sospese. Pesenti chiese a monsignor Ernesto Pisoni, direttore del quotidiano della curia milanese, L’Italia, se avesse qualcuno da suggerirgli per la guida del nuovo giornale e il sacerdote gli fece il nome di Nutrizio.

Così, con appena 20 giornalisti ai suoi ordini, il 6 dicembre 1952 nacque La Notte. Le vendite del primo giorno, un sabato, furono disastrose: un migliaio di copie. Del resto sulla piazza c’erano già tre testate del pomeriggio molto affermate: Corriere d’Informazione, Milano Sera e Corriere Lombardo. Ma in breve tempo Nutrizio seppe trasformare il deludente debutto in un successo sonante e Pesenti si guardò bene dal chiudere un giornale che era arrivato a vendere oltre 200.000 copie e a incorporare lo stesso Corriere Lombardo, intercettando, nonostante la linea conservatrice espressamente dichiarata, un pubblico eterogeneo. Per esempio andava via come il pane a Sesto San Giovanni, benché fosse soprannominata “la Stalingrado d’Italia”.

Il direttore puntò tutto sulla cronaca nera. Inoltre mise in prima pagina le notizie riguardanti la televisione appena nata in Italia, dedicandole titoli a 9 colonne che trasformarono i beniamini del pubblico – il presentatore Mike Bongiorno, la valletta Edy Campagnoli, i concorrenti più fortunati del quiz Lascia o raddoppia? come Gianluigi Marianini e Paola Bolognani – in eroi nazionali. Elevò al rango di notizie del giorno le vittorie, le sconfitte, le beghe interne, le trattative del calcio-mercato di Milan e Inter, che mai prima d’allora, in nessun quotidiano, avevano avuto diritto di cittadinanza in prima pagina.

Perfino la sede della Notte, in piazza Duca d’Aosta, angolo via Vitruvio, di fianco alla stazione Centrale, sprizzava modernità. Era un edificio in vetrocemento e alluminio, che l’editore aveva regalato alla curia – così almeno si sussurrava – in segno di gratitudine per l’impegno profuso durante la guerra dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster nel salvare dalle rappresaglie tedesche i cementifici Pesenti. E infatti nella stessa tipografia si stampava anche L’Italia. Il frastuono delle linotype cominciava all’alba. Tra le 6 e le 9.30 veniva chiusa la prima edizione della Notte. Poco dopo le 14 usciva la seconda con i listini di Borsa aggiornati. Alle 17 arrivava in edicola l’ultima.

Chiunque si presentasse in redazione aveva ragionevoli probabilità di essere reclutato e messo alla prova dal direttore in persona. Lucio Lami, per esempio, che in seguito sarebbe diventato inviato di guerra al Giornale, vi approdò a 24 anni, da sottotenente di cavalleria, dopo aver lasciato alle 4 di notte sul tavolo di cucina un biglietto per i genitori: «Vado a Milano a fare il giornalista». Proveniente da Vicenza, appena sceso dal treno, all’alba, vide l’insegna luminosa della Notte. Salì al terzo piano e chiese di parlare con il direttore. «Ha un appuntamento?», lo interrogò il fattorino. «Certo», rispose Lami. Non era vero. «Attenda». Il commesso tornò poco dopo: «Il direttore la aspetta». Nutrizio, senza manco sapere chi avesse davanti, chiese: «In che cosa posso esservi utile?» Dava del voi a tutti. I capelli all’umberta e l’abbigliamento inappuntabile rafforzavano l’aura da ufficiale austroungarico che Nutrizio promanava. Lami si dichiarò disposto a prestarsi provvisoriamente come addetto alle pulizie della redazione, pur d’intraprendere poi la carriera di giornalista. Il direttore alzò la cornetta del telefono e compose l’interno del capocronista Camillo Brambilla: «C’è qui un altro pazzo. Vedete che cosa sa fare». E Lami fu messo subito a scrivere.

Quando mi presentai io a Nutrizio, nel settembre del 1969, la sede del quotidiano era stata trasferita nel Palazzo dell’Informazione che il Duce trent’anni prima aveva fatto progettare all’architetto Giovanni Muzio per Il Popolo d’Italia, in piazza Cavour. Visto che all’Eco di Bergamo non volevano saperne di assumermi, un collega mi aveva consigliato di provare alla Notte, dove cercavano un corrispondente dalla mia città. Giunto al cospetto di Nutrizio, le gambe non mi reggevano. Mi dedicò pochi minuti. Disse solo: «Se L’Eco di Bergamo, che è il giornale più brutto del mondo, non vi ha ancora assunto, mi viene il sospetto che voi siate cretino. Vi terrò in prova per tre mesi. Se vi dimostrerete all’altezza, e lo ritengo assai improbabile, sarete assunto come praticante. Altrimenti ritornerete a fare il collaboratore dell’Eco, nell’interesse vostro e soprattutto nostro».

A quel punto un inspiegabile moto di masochismo frammisto a onestà mi spinse a dichiarare che ero socialista. «Le vostre idee politiche non m’interessano», replicò gelido Nutrizio. «Sono molto più preoccupato delle vostre capacità. Se non vi hanno ancora assunto nel giornale in cui scrivete da molti anni, un motivo ci sarà. Ma vorrei scoprirlo io».

Presi servizio a Bergamo. L’antivigilia di Natale una prostituta venne sgozzata. Accanto al cadavere fu trovata in lacrime la figlioletta di 2 anni. Ci scrissi un pezzone. Alle 14 mi precipitai in edicola a comprare La Notte: in ultima pagina, quella dedicata alla cronaca locale, manco una riga. Credetti d’impazzire. Dopo qualche ora mi telefonò Nutrizio in persona: «Non siete cretino. Vi assumo». Non capivo. Poi mi accorsi che il mio articolo era in prima pagina, sotto un titolone a caratteri di scatola: «Delitto di Natale». Passato qualche tempo, mi volle nella redazione centrale, a Milano. Per essere sempre puntuale al lavoro, lui aveva scelto di abitare poco distante, in un appartamento nei pressi di piazza Cavour, insieme con Luciana Novaro, ex prima ballerina della Scala, famosa regista e coreografa, che nel cuore del direttore-soldato venne poi rimpiazzata da una seconda moglie, Elsa Rabotti.

La Notte di Nutrizio è stata la più straordinaria fucina di talenti che l’Italia abbia mai espresso. A volte rivedo le loro firme e mi dico: ma non è possibile, vorrei averle avute io! In ordine sparso: Livio Caputo, Guido Gerosa, Vittorio Zucconi, Natalia Aspesi, Salvatore Scarpino, Lino Rizzi, Morando Morandini, Pietro Giorgianni, Ugo Pettenghi, Carlo Rossella, Costantino Muscau, Gualtiero Tramballi, Arnaldo Giuliani, Romano Bracalini, Ettore Botti, Pier Boselli, Sandro Ottolenghi, Stenio Solinas, Fernando Mezzetti, Arrigo Galli, Ignazio Contu, Giancarlo Meloni, Gigi Speroni, Franco Damerini, Elisabetta Rosaspina, Marco Varvello, Giangavino Sulas, Ugo Savoia, Xavier Jacobelli, Roberto Levi, Gigi Garanzini.

Agli inizi c’era persino Enzo Biagi, che scriveva le recensioni dei film e portò in dote il critico teatrale Eugenio Ferdinando Palmieri, uno dei suoi maestri al Resto del Carlino. E Romolo Siena, che poi preferì diventare regista televisivo in Rai. Per non parlare dei vignettisti: Giovannino Guareschi, Benito Jacovitti, Carletto Manzoni, Alberto Fremura. Tutti arruolati senza alcuna campagna acquisti, senza ingaggi faraonici. Giorgio Torelli, che insieme a Luca Goldoni aveva portato a Nutrizio un’inchiesta dattiloscritta con una Olivetti presa a prestito, arrivò da Parma dopo aver ricevuto un telegramma del direttore che recitava: «Ora La Notte emette un fischio / venga Torelli senza rischio». La rima si perdeva in una postilla: «Firmerà contratto domani. Poca grana».

Si devono a Nutrizio alcune invenzioni che hanno radicalmente innovato il linguaggio dei giornali e che resistono tuttora. Si pensi alla pagina Dove andiamo stasera?, in cui trovavano finalmente sistematicità tutte le informazioni sugli spettacoli e sui ritrovi cittadini. O alla rubrica dei cinema, con le trame telegrafiche dei film e i cast, seguiti da asterischi e pallini da 1 a 5 per segnalare il giudizio della critica e il successo di pubblico.

Quella del giornalismo di servizio fu per Nutrizio una vera e propria ossessione. La Notte non doveva essere soltanto scritta in modo chiaro e sintetico: bisognava che fosse innanzitutto utile. Perciò il direttore fece posare sei ragazze per un manifesto che pubblicizzava questa caratteristica del giornale «al servizio dei suoi lettori»: dovevano rappresentare l’incarnazione di sei segretarie virtuali adibite alle pagine speciali, alle rubriche, alle guide. Molti cittadini finirono per crederle realmente esistenti e, siccome erano parecchio avvenenti, presero a tempestare di telefonate la redazione per chiedere d’incontrarle.

A quel tempo giornali e televisione non davano molto spazio, come oggi, alle previsioni meteorologiche. Nutrizio pretese che nella manchette di sinistra della Notte vi fossero sempre lo stato del cielo e la temperatura contrassegnata da una maniacale dicitura, «media dei termometri alla sede del giornale». Con l’andare degli anni comparve un cliché nella manchette di destra che offriva a colpo d’occhio le condizioni del tempo: sole, pioggia, coperto, neve, nebbia.

Ma il merito più grande fu quello di offrire ai lettori quasi tutti i giorni il suo pensiero per 26 lunghi anni, senza interruzione, dal 6 dicembre 1952 al 15 gennaio 1979, con un articolo di fondo che cominciava sulla prima colonna della prima pagina e continuava in seconda, contrassegnato da un grande “1” per impedire che il lettore si perdesse fra i giri. E lì, con linguaggio piano, commentava da par suo gli avvenimenti senza ricorrere a perifrasi e senza mai rinunciare al coraggio delle proprie idee.

Nutrizio era dotato di una prensilità intellettuale inesauribile. Non vi era mezzo, concetto o linguaggio che non sapesse afferrare per la criniera e cavalcare, salendoci in groppa al volo. Il saggio più eclatante della sua bravura lo offrì il 15 giugno 1976 dimostrando la perfetta padronanza del mezzo televisivo, che fino a quel momento era stato considerato una specie di ossario della Grande guerra, nel quale entrare in punta di piedi. Si era alla vigilia delle elezioni e andava in onda una puntata di Tribuna elettorale condotta da Luca Di Schiena, cioè quanto di più paludato la Rai potesse offrire. Ospite in studio l’onorevole Enrico Berlinguer, impegnatissimo a far digerire agli italiani l’idea del compromesso storico fra Pci e Dc. A intervistare il leader comunista, affiancato dal fido portavoce Tonino Tatò, un gruppetto di giornalisti, fra i quali Nino Nutrizio e Giampaolo Pansa. Arriva il turno del direttore della Notte. Invece di porgere la domanda regolamentare al leader politico, il giornalista infila le mani sotto la scrivania, estrae a sorpresa due involucri e li mostra alle telecamere, dicendo: «Io ho qui un pacco di spaghetti e qui un sacchetto di riso. Facciamo conto che gli spaghetti siano la democrazia e che il riso sia il comunismo. Lei propone, proprio agli italiani, di buttarli insieme nella pentola». Berlinguer tramortito. L’indomani nei bar non si parlava d’altro.

Che l’uomo fosse del tutto imprevedibile me lo confermò, pochi anni prima di morire, il mio amico Angelo Rizzoli, rivelandomi che Nino Nutrizio, dopo avermi concesso alla Notte il primo contratto della mia vita, mi fece anche assumere al Corriere della Sera. Non ci potevo credere. «Ogni settimana, il martedì o il giovedì, Nutrizio veniva a pranzo a casa nostra», mi ha raccontato l’ex editore del giornale di via Solferino. «Una tradizione che era stata inaugurata da mio nonno Angelo. Nel 1974, durante uno di questi incontri conviviali con mio padre Andrea, ai quali partecipavo sempre, chiedemmo a Nutrizio se avesse qualche nome di giornalista in gamba da segnalarci. Indro Montanelli aveva infatti annunciato il lancio del Giornale e ci stava portando via quella che Franco Di Bella aveva definito “l’argenteria di famiglia”: Mario Cervi, Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Cesare Zappulli, Gianfranco Piazzesi, Egidio Sterpa. Il direttore della Notte ci pensò un attimo e rispose: “Mi pare che i migliori su piazza ve li abbiano già fregati tutti. Io ne avrei uno piuttosto sveglio da suggerirvi. Lavora da me. Però è un po’ matto”. Mio padre chiese chi fosse. “Si chiama Vittorio Feltri”».

Angelo Rizzoli si appuntò il mio nome e lo girò a Gino Palumbo, direttore del Corriere d’Informazione, il quale poche settimane dopo mi convocò e mi offrì l’assunzione a 800.000 lire al mese, il doppio di quanto guadagnavo alla Notte. Aggiungendo 90.000 lire allo stipendio, potevo comprarmi un Maggiolino Volkswagen.

Completamente ignaro, all’epoca, di quella raccomandazione con cui aveva propiziato il mio ingresso nell’edizione pomeridiana del Corsera, mi presentai da Nutrizio per annunciargli che sarei passato al Corriere d’Informazione, cioè alla concorrenza. Non sapevo come dirglielo, fu una scena patetica. Il direttore ebbe una reazione di sdegno: «Andate, andate pure! Ingrato! Siete anche voi come tutti. Non sapete resistere al richiamo dei quattrini. Vergogna! Mi avete profondamente deluso». Uscii dal suo ufficio con la coda bassa e i lucciconi agli occhi. Ovviamente riferii di quella reprimenda ai colleghi, che ne rimasero colpiti quanto me. Il machiavellico piano studiato dal burbero benefico poteva dirsi compiuto: il direttore s’era messo al riparo dall’accusa d’aver impoverito il giornale e io diventavo agli occhi di tutti un reprobo irriconoscente che aveva tradito le aspettative e la fiducia del suo mentore.

Cinque anni dopo Nutrizio lasciò il giornalismo e si ritirò a vivere a Candeli, sulle colline di Firenze. Nei primi tempi, per non sentirsi inutile, attrezzò nel suo rifugio in via di Rignalla una falegnameria, in cui si dilettava con lavoretti per il giardino e per la casa. Neppure da pensionato era capace di starsene con le mani in mano. Poi i 50 cacciavite cominciarono ad arrugginire. Nove anni dopo era morto. Indro Montanelli lo commemorò così: «Un uomo a caldo in questo mondo di pesci Findus». Surclassata dai telegiornali che offrivano notizie e immagini in tempo reale, La Notte non gli sopravvisse a lungo. Resta, viva e intatta, la grande nostalgia per l’ineguagliabile direttore che seppe illuminarla di sé. Voto: 10 e lode