V

VELTRONI Walter (Roma, 1955). Politico. Ha militato nella Federazione giovanile comunista. Eletto deputato del Pci nel 1987, è stato fra i protagonisti della nascita del Pds (1991), segretario dei Democratici di sinistra (1998-2001), sindaco di Roma (2001-2008) e segretario del Partito democratico (2007-2009). Ha diretto L’Unità. Vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali nel governo Prodi I.

Tipo simpatico. Ha sempre confessato di essersi iscritto da ragazzo al Pci perché si sentiva kennediano, cioè anticomunista. Quando si dice la coerenza. Lo conobbi nel settembre del 1982, alla Festa nazionale dell’Unità di Tirrenia. Allora i festival, e L’Unità, contavano qualcosa, tant’è che il Corriere della Sera ci mandava un inviato. Nel caso di specie, io.

Folla strabocchevole, impressionante. Enrico Berlinguer scortato da Giancarlo Pajetta. Bandiere rosse. Striscioni che inneggiavano alla “terza via” (quale? ci vorrebbe uno stradario, per ricordarsela). Una matitona lunga come la Torre Eiffel piantata su un quadernone che recava scritto, con calligrafia infantile: «La pace prima di tutto». Alessandro Natta in camicia bianca che concionava con le maniche tirate su. Invitati di rango: Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica, fra Giulio Andreotti e Gianni De Michelis. La Buca delle fate e altri chioschi da sagra paesana. Un ristorante russo. Persino uno stand della Pravda, da non credere ai propri occhi. Il “Confronto sui contratti”. Bruno Vespa che moderava Luciano Barca e Claudio Signorile, cane e gatto, in un dibattito chiamato, con dieci anni di ritardo sulla politica inaugurata da Richard Nixon e Mao Tse-tung, “Ping-pong”. Due palline che non vi dico.

Veltroni, responsabile dell’informazione, era il regista della kermesse. Essendo diplomato all’Istituto di Stato per la cinematografia e la televisione, nulla da ridire: se la cavava benissimo. Poi l’escalation: direttore dell’Unità, sindaco di Roma, segretario del Partito democratico, candidato premier contro Silvio Berlusconi alle politiche del 2008. Se perdo, disse in quella tornata elettorale, vado a fare il volontario in Africa e non mi vedrete più. Perse. Ma non traslocò neppure in Sicilia.

A 41 anni era già vicepresidente del Consiglio e ministro, naturalmente dei Beni culturali, cioè quelli a cui in Italia nessuno bada. È stato, ben prima di Matteo Renzi, il più giovane segretario delle Botteghe Oscure. Soltanto Palmiro Togliatti, salito al soglio proletario all’incirca trentenne, riuscì a batterli entrambi. Veltroni succedette a D’Alema come un principe ereditario succede al re, per diritto divino. Segno che il vecchio Pci, assunta la denominazione Democratici di sinistra, aveva davvero subìto una profonda evoluzione: era diventato non solo liberale, ma pure monarchico.

Quando Veltroni stava all’Unità e io dirigevo L’Indipendente, spesso mi telefonava per due chiacchiere sui fatti di giornata. Senza accorgermene, ho rischiato di entrare a far parte di quella camarilla che Piero Ostellino ha denunciato come “pactum sceleris”, patto di scelleratezza, anzi “patto per il delitto”, secondo l’articolo 416 del codice penale. La conferma è venuta da Piero Sansonetti, che all’Unità in quel periodo era condirettore di Uòlter l’americano: «Nel biennio 1992-1993 nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali italiani: Corriere, Stampa, Unità e Repubblica. Il direttore dell’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli». Un pool delle Penne sporche di rincalzo alle Mani pulite. Mieli, che all’epoca dirigeva il Corriere, ha glissato sull’accusa di Sansonetti. Mauro pure. Ma Polito ha confermato: «Le cose funzionavano pressoché come dice Sansonetti».

Adesso, quando osservo Renzi, mi pare sempre di vedere un altro Veltroni, soltanto meno zuccheroso e dotato di più grinta. Non è che ci volesse poi molto per non farci rimpiangere il lombricone delle caricature di Giorgio Forattini. Voto: 5

VERDIGLIONE Armando (Caulonia, Reggio Calabria, 1944). Editore e filosofo italiano. Teorizzatore della cifrematica, scienza della parola intesa come cifra. Ha dato il nome alla Fondazione di cultura internazionale Armando Verdiglione, promotrice dell’Università del Secondo Rinascimento, con sede nella villa San Carlo Borromeo di Senago (Milano).

Com’è possibile che questo cervellone finisca sempre in guai giudiziari? Non avrà per caso sbagliato Paese? La prima volta, negli anni Ottanta, 4 mesi in carcere e 7 agli arresti domiciliari per circonvenzione d’incapace, truffa e tentata estorsione. I Pm sostenevano che aveva influenzato un dentista milanese, costringendolo a investire 54 milioni di lire nella sua impresa culturale. Peccato che nove mesi dopo le azioni dell’odontoiatra fossero state ricomprate per 185 milioni. Che truffa sarebbe? Poi l’accusa d’aver emesso fatture false per 3 miliardi di euro e non versato Iva per 300 milioni. Il comunicato stampa con cui il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Milano annunciò nel 2011 l’indagine per evasione fiscale era intitolato «Operazione “Guru”». Non sarà proprio questo il punto e cioè che l’inquisizione laica ha sempre trattato il fondatore della casa editrice Spirali come un santone meritevole di processo per le sue idee? Ci vedo un retaggio fascista. Di questo passo finiranno per arrestare anche chi predica che bisogna credere in Dio. E con i fedeli come la mettiamo? Li rinchiudiamo in manicomio? Per me Verdiglione pubblica buoni libri. Non mi pare una colpa. Voto: 6

VERONESI Umberto (Milano, 1925). Medico e scrittore. Laureatosi in medicina e chirurgia nel 1950, si è specializzato negli studi di oncologia e nel 1975 è diventato direttore dell’Istituto nazionale dei tumori. È stato presidente dell’Organizzazione europea per le ricerche sui tumori. Ministro della Sanità nel governo Amato II. Dirige l’Istituto europeo di oncologia di Milano.

Anni Ottanta. Sono immerso nella vasca da bagno, l’unico posto dove, in certe mattine fortunate, mi sale al cervello qualche idea (il proposito di lanciare Libero e il nome della testata li ho concepiti in ammollo). La mano che insapona. Un gonfiore sospetto appena sotto lo sterno. E questa pallina che cos’è? Corro dal mio medico, una signora. Palpa, ripalpa. Mi fa capire che sospetta qualcosa. «Sarebbe meglio che si sottoponesse a una visita specialistica».

Adesso da chi vado? Se è un tumore, conviene rivolgersi al migliore: Umberto Veronesi. Prendo subito un appuntamento. Sennonché, nel giorno prenotato, il Corriere mi vuole tenere come inviato al Meeting di Rimini. Al diavolo Comunione e liberazione! Telefono in redazione e avviso: ho un problema di salute, mollo l’incarico per mezza giornata, poi torno subito qua.

Rimini-Milano ai 180 orari. Lo studio di Veronesi è in piazza Duse, dove anni dopo mi sarebbe capitato di trovare casa. La sua prima domanda mi lascia interdetto: «Perché è venuto da me?» Non so che cosa rispondergli. Dovrei dirgli: perché ho una fifa blu e vorrei che mi salvasse la vita. Mi astengo per pudore. Il famoso oncologo mi fa togliere la camicia. Allora pesavo 7-8 chili meno di oggi. Un chiodo. Sento i suoi polpastrelli sul petto. Tocca, schiaccia, sposta. Apprezza quasi assorto la consistenza della pallina. «Si rivesta». Adesso sorride affettuoso: «Non ha niente. È solo una ghiandola infiammata».

Non giurerei che abbia parlato di ghiandola. Magari era cisti e ho capito male, di medicina non so nulla. Chissenefrega. Così parlò Zarathustra. Per me Veronesi è dio. Se lo dice lui che posso star tranquillo, io ci sto. Infatti sono ancora qui a scriverne.

Ma devo confessare che in quel giorno d’estate di trent’anni fa ero preparato a sentirgli emettere un verdetto senza appello. Perché? Perché credevo che fosse un uomo cattivo, vendicativo. So già che starete pensando che io abbia una ghiandola o una cisti anche nel cervello. Lasciate che vi spieghi. C’era un precedente che mi atterriva. Qualche tempo prima di quella visita, avevo scritto sul Corriere una serie di articoli per difendere i fumatori, cioè me stesso. In uno, ebbi la cattiva idea di dare più forza al concetto che le sigarette a mio avviso erano innocue infilando la seguente castroneria: «Fuma anche Veronesi. E beve pure qualche bicchiere di rosso». Il luminare, imbufalito, mi denunciò. Più avanti, sbollita la rabbia, con grande magnanimità ritirò la querela. Ma io pensavo che avesse ancora il dente avvelenato. E che si sarebbe preso una rivincita facendomi credere che il cancro avesse bussato alla mia porta. Un’idea folle, me ne rendo conto. Però quel giorno ero davvero convinto che sarei uscito dall’ambulatorio di piazza Duse con il certificato di morte in tasca.

Due o tre anni dopo ho cominciato a frequentare Veronesi. Abbiamo spesso cenato insieme, presenti Giorgio Forattini e la moglie, suoi grandi amici. E ci siamo trovati, lui, Susanna Tamaro e io, a dare una mano alle campagne animaliste di Michela Vittoria Brambilla. Ogni volta che gli rammento l’episodio della ghiandola, ride a crepapelle. Non solo s’era dimenticato della visita, ma non si ricordava nemmeno più della querela per averlo descritto come un fumatore e uno sbevazzatore.

Era il consiglio di Mark Twain: dimentica e perdona. Soltanto ai grandi la sorte concede di saperlo mettere in pratica. Voto: 10

VESPA Bruno (L’Aquila, 1944). Giornalista, conduttore televisivo e scrittore. Ha cominciato a 16 anni il mestiere di giornalista. A 18 le prime collaborazioni con la Rai, dov’è stato assunto nel 1968 e assegnato al telegiornale. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Conduce Porta a porta su Rai 1. Dal 1993 ha pubblicato tutti gli anni un libro di grande successo su temi legati all’attualità, alla politica e alla storia. Il cuore e la spada, Questo amore, Il palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè i più recenti.

Ancora gli rinfacciano d’aver dichiarato, da direttore del Tg1, che la Dc era il suo «azionista di riferimento» (la pura verità), ma nessuno mai ricorda che è uno dei pochissimi, nel caravanserraglio dei giornalisti partitanti stipendiati dallo Stato, a essere stato assunto in Rai non perché raccomandato da qualche padrino bensì per essersi classificato primo a un concorso nazionale riservato agli aspiranti radiotelecronisti.

Lo bastonano perché ogni anno distilla accortamente le anticipazioni più succulente da quelle mezze Treccani che sono i suoi libri, distribuendole, goccia dopo goccia, a telegiornali, varietà e talk show del servizio pubblico, ma nessuno mai ricorda che senza le notizie esclusive, regalate da Vespa ai colleghi scansafatiche, le redazioni non potrebbero campare di rendita per settimane e settimane, avendo sempre il titolo d’apertura assicurato. È colpa sua se solo lui è capace di aggiornare tomi da 800 e passa pagine fino a 72 ore prima di mandarli in stampa? Imparate, invece di criticarlo.

La verità è che Bruno Vespa è un professionista senza eguali, l’unico capace di strappare dichiarazioni sorprendenti e confidenze sapide ai protagonisti della politica e dell’attualità. Aveva ragione Francesco Cossiga: Porta a porta è dal 1996 il terzo ramo del Parlamento. E non solo. Non s’era mai visto un papa, Giovanni Paolo II, che telefona in diretta – accadde nel 1998 – per complimentarsi con il conduttore.

Quando il potente di turno, grande o piccolo che sia, bussa a quella porta lì, è sicuro di trovare in Vespa un padrone di casa preparato, ospitale, gentile e sa che tutt’al più gli verrà offerto un cucchiaino di miele, mai un bicchiere d’aceto. Chi non si fiderebbe di un tipo così? Ogni puntata del suo talk show, annunciata dalla sigla con la colonna sonora di Via col vento e scandita dal din don che annuncia chissà quale visitatore all’uscio, è un mix perfetto di volti noti, facce inaspettate, gambe tornite. E poi i colpi di scena, accuratamente studiati: Silvio Berlusconi che sigla il contratto con gli italiani su una scrivania di ciliegio, Massimo D’Alema che cucina in diretta il risotto.

Vespa ha conservato il gusto per il particolare che imparò, appena sedicenne, con le prime corrispondenze dall’Abruzzo sul Tempo. L’idea di far costruire il plastico della casa di Cogne in cui fu ammazzato il piccolo Samuele Lorenzi, con il tetto che si scoperchiava per mostrare la scena del delitto, ha invecchiato di un secolo la cronaca nera e le infografiche dei nostri giornali. Da allora i fatti di sangue non ci regalano una sola copia in più. Dovremmo chiedergli i danni (collaterali).

Ogni anno c’è questa manfrina del contratto di Porta a porta che la Rai non si decide a rinnovare e invece poi si rinnova puntualmente come per magia, a maggior gloria del suo titolare. Anziché considerare i milioni di euro che Vespa procaccia alla Tv di Stato sotto forma di pubblicità, i suoi detrattori si stracciano le vesti, gridano allo scandalo, sospettano favoritismi. Allora mi sorge il dubbio che il povero Bruno sia semplicemente vittima, come Oriana Fallaci, di una congiura: quella dell’invidia.

Non ho mai pensato che Vespa sia diventato Vespa perché ha potuto contare su qualche trattamento di riguardo. Il segreto del suo successo è assai più banale. Lo ha rivelato la moglie, Augusta Iannini, magistrato: «Lavora anche mentre mangia». I risultati si vedono. Voto: 10

VIAN Giovanni Maria (Roma, 1952). Storico delle religioni e giornalista. È stato battezzato nella basilica di San Pietro dal futuro Paolo VI, direttore spirituale del padre Nello. Il nonno Agostino era amico di San Pio X: il suo fu l’ultimo matrimonio celebrato dal patriarca Giuseppe Sarto prima di partire da Venezia per il conclave del 1903 dal quale sarebbe uscito pontefice. Professore ordinario (in aspettativa) di filologia patristica all’Università La Sapienza di Roma. Ha redatto varie voci dell’Enciclopedia Treccani e scritto numerosi saggi sulla storia della tradizione cristiana e sul papato contemporaneo. Nominato direttore dell’Osservatore Romano da Benedetto XVI, è in carica dall’ottobre 2007.

Io ero rimasto fermo a Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars. Da pochi mesi direttore dell’Osservatore Romano, il suo quasi omonimo Giovanni Maria Vian mi ha combinato uno scherzetto da prete poco piacevole: s’è portato via da Libero una mia redattrice, Silvia Guidi, una delle migliori. Che così è diventata la prima donna assunta nel quotidiano della Santa Sede.

Fiorentina di nascita, Silvia voleva fare la ricercatrice all’università ma poi ripiegò sul giornalismo, grazie a una borsa di studio intitolata a Mario Formenton. A Libero dalla fondazione, era vicecapo della redazione esteri. Aveva conosciuto Vian a un convegno, lasciandogli il suo curriculum. E lui, che prima di diventare direttore insegnava filologia patristica all’Università La Sapienza di Roma, era rimasto colpito dal fatto che si fosse laureata in letteratura latina medievale con una tesi sui commenti ai salmi del beato Alcuino di York, consigliere di Carlo Magno. Così le aveva offerto di collaborare con il giornale vaticano. La Guidi si era subito distinta portandogli nientemeno che un’intervista con la madre badessa di un convento americano che fu fidanzata di Elvis Presley, il cantante. Dopo una decina di articoli, assunta. Ci restai di sasso, anche perché lo venni a scoprire solo da un cronista del Corriere della Sera, che m’interpellò per avere un mio commento. Sapevo che Silvia era in trattative per un posto di lavoro all’estero, ma in Svizzera, al Giornale del Popolo di Lugano, non in Vaticano. Da Vian non me lo sarei mai aspettato. Ovviamente abbozzai.

Passa poco più di un anno e ricevo una telefonata. È lui. Prima volta che lo sento. Penso che voglia scusarsi per lo scippo. Invece mi dice che ha letto sul Riformista di un mio interessamento all’acquisto del Calcio Como in cordata con Marcello Dell’Utri e Daniela Santanchè. E mi spiega che sua madre, Cesarina Ghioldi, una comasca figlia di formaggiai, orgogliosa d’essere stata battezzata con il rito ambrosiano, cioè a testa in giù, aveva cinque nipoti, di cognome Livio, primi cugini di Vian, dei quali i tre più grandi, Gianfranco, Amos e Pierpaolo, industriali tessili, erano azionisti del Como. Nessun tentativo d’intermediazione: un semplice ragguaglio, da uomo meticoloso qual è. Quasi che fossimo sul punto d’imparentarci nel nome del dio pallone.

Quella fu la prima e anche l’ultima telefonata tra me e Vian. Se lo incontrassi al bar, non sarei neppure in grado di riconoscerlo. Ecco perché il tentativo compiuto da alcuni organi di stampa d’indicarlo come la mia “gola profonda” nella vicenda Boffo è stato un’autentica vigliaccata. Sandro Magister dell’Espresso è arrivato al punto d’inventarsi che io avrei fatto scrivere Vian sul Giornale sotto falso nome. Una panzana asinina che tuttora circola in Rete. Magari l’ex seminarista Magister ambiva al posto di direttore dell’Osservatore Romano. Nel qual caso avrebbe dovuto cercare un modo meno indegno per far trapelare la sua delusione per la mancata nomina.

Povero Vian. Si è tanto dannato l’anima per trasformare con innovazioni coraggiose il bollettino del Papa in un giornale vero, arrivando addirittura a parlare della Barbie in prima pagina, e poi finisce senza colpa alla guida della “macchina del fango”. Mi dispiace per essere stato l’involontaria cagione dell’infondato accostamento che tante amarezze deve avergli procurato. Vorrei rassicurarlo su un punto: il voto che sto per assegnargli in pagella – lo dico al professore, che all’argomento presumo sia molto sensibile – non intende essere una forma d’indennizzo. Semmai posso consolarlo in un altro modo: direttore, tolga quel motto, “non praevalebunt”, dalla testata. Abbiamo insieme appurato che gli imbecilli, almeno nella nostra professione, prevalgono e prevarranno sempre. Voto: 8