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Effetti umani
«Capitano, abbiamo un messaggio di azione per l’emergenza in frequenza 616
molto bassa.»
«Cosa?» disse Ricks, allontanandosi dal tavolo.
«Un messaggio di azione per l’emergenza, capitano.» L’ufficiale alle comunicazioni gli consegnò un breve messaggio in codice.
«Proprio il momento peggiore per un’esercitazione.» Ricks scosse la testa e ordinò: «Ai posti di combattimento».
Un sottufficiale attivò immediatamente l‘1-MC e diede l’annuncio. «Tutti gli uomini ai posti di combattimento». Poi seguì un allarme elettronico a mettere fine a qualsiasi sogno.
«Signor Pitney» disse Ricks al di sopra del rumore. «Profondità di antenna.»
«Sì, capitano, profondità uno-otto metri.»
«Profondità uno-otto. Dieci gradi barra dritta sopra i piani di carenatura.»
«Dieci gradi barra dritta sui piani di carenatura.» Il giovane uomo dell’equipaggio ― di solito il timone viene affidato a uomini molto giovani ― si tirò indietro dal timone che era simile al volante di un aereo. «Signore, i miei piani sono sopra dieci gradi.»
«Molto bene.»
Avevano appena terminato che gli uomini si riversarono nella sala di controllo. Il comandante del Maine prese il suo posto, davanti al pannello per l’alimentazione dell’aria. Il tenente Claggett entrò nella cabina di pilotaggio per fiancheggiare il capitano. Pitney, il navigatore del sommergibile, era già al suo posto, alla guida. Diversi soldati semplici si posizionarono alla consolle delle armi. A poppa, ufficiali e uomini si disposero nel CCM, centro di controllo missili, che monitorava lo stato dei ventiquattro missili Trident di cui disponeva il Maine, e nella sala delle attrezzature ausiliarie, adibita essenzialmente alla sorveglianza del motore di riserva della nave.
Nella sala di controllo, l’uomo di guardia alle comunicazioni interne richiamò gli uomini dei compartimenti.
«Che succede?» chiese Claggett a Ricks.
Il capitano gli consegnò il breve messaggio di azione per l’emergenza.
«È un’esercitazione?»
«Immagino di sì. Perché non dovrebbe esserlo?» chiese Ricks. «È domenica, no?»
Il Maine incominciò a rollare. Il calibro di profondità indicava ottantotto metri e il massiccio sottomarino virò all’improvviso di dieci gradi a dritta. In tutto il sommergibile, gli uomini alzarono gli occhi al cielo e brontolarono.
Quello era il modo migliore per farli sentire male. Senza alcun riferimento esterno — i sottomarini sono a corto di finestrini e oblò ― gli occhi vedevano qualcosa che non si muoveva, mentre le orecchie percepivano quel movimento.
La stessa cosa che avevano provato gli astronauti dell’Apollo, incominciarono a provarla quegli uomini. Inconsapevolmente scossero la testa, come per allontanare un insetto fastidioso. Sperarono tutti che qualunque cosa si stesse 617
verificando ― nessuno, da Ricks ai suoi subalterni, sapeva che quella non era un’esercitazione ― fossero poi in grado di tornare da dove erano venuti, ossia a centoventidue metri, dove il movimento del sottomarino è impercettibile.
«Livello uno-otto metri, signore.» «Molto bene» rispose Pitney.
«Sala di pilotaggio, sonar, perso contatto con Sierra-16. Il rumore in superficie è opprimente.»
«Qual è l’ultima posizione?» chiese Ricks. «L’ultimo rilevamento era due-sette-zero, rilevamento radio quattro-nove mila metri» rispose il guardiamarina Shaw.
«Okay. Alza l’antenna UHF. Su il periscopio» ordinò ai quartiermastri di guardia. Ora il Maine stava rollando di venti gradi e Ricks voleva capire il perché. I quartiermastri girarono la ruota di controllo rossa e bianca e il cilindro oliato sibilò sulla pompa idraulica.
«Ehi!» esclamò il capitano mentre impugnava i manici. Riusciva a percepire la potenza del mare contro la superficie superiore esposta dello strumento. Si chinò per guardare.
«Arriva un segnale UHF, signore» riferì l’ufficiale alle comunicazioni.
«Bene» commentò Ricks. Dopotutto doveva essere un’esercitazione.
«Com’è il cielo?» chiese Claggett.
«Nuvoloso, non ci sono stelle.» Ricks si fece indietro e afferrò i manici.
«Abbassa il periscopio.» Poi, rivolto a Claggett: «Secondo ufficiale, vogliamo seguire il nostro amico, per quanto possibile».
«Sì, capitano.»
Ricks stava per prendere il telefono e chiamare il centro di controllo missili.
Voleva dire all’equipaggio che si occupava del controllo missilistico che sperava che quell’esercitazione finisse il più presto possibile. L’ufficiale alle comunicazioni arrivò nel compartimento prima che potesse farlo.
«Capitano, questa non è un’esercitazione.»
«Che significa?» Ricks notò che il tenente non aveva un’espressione tranquilla.
«DEFCON-DUE, signore.» Gli consegnò il messaggio.
«Cosa?» Ricks lo rilesse. «Che diavolo sta succedendo?» Lo passò a Claggett.
«DEFCON-DUE? Non siamo mai arrivati a DEFCON-DUE, da quando io sono…
mi ricordo DEFCON-TRE, una volta, ma allora ero un allievo del primo corso…»
Nel compartimento, gli uomini si scambiarono un’occhiata. I militari americani hanno cinque livelli di allerta, che vanno da cinque a uno.
DEFCON-CINQUE indicava le normali operazioni in tempo di pace. Il QUATTRO
prevedeva una concentrazione maggiore di uomini in determinate postazioni, e consisteva nel tenere soprattutto piloti e soldati pronti su aerei e carri armati.
DEFCON-TRE era per una situazione più grave e, in quel caso, le unità venivano completamente equipaggiate per le operazioni. Con DEFCON-DUE si incominciavano a spiegare le forze e quel livello si usava in caso di minaccia di 618
guerra. DEFCON-UNO era il livello a cui le forze americane non erano mai state chiamate. In quel caso, la guerra era qualcosa di più che una minaccia. Le armi venivano caricate in anticipo in attesa che giungesse l’ordine di sparare.
Ma tutto il sistema DEFCON era più casuale di quanto si sarebbe immaginato.
In genere, i sottomarini si tenevano in uno stato di allerta superiore al normale. I sottomarini lanciamissili, pronti a sganciare i missili in pochi minuti, erano praticamente sempre in DEFCON-DUE. Il messaggio portato dall’ufficiale alle comunicazioni lo aveva reso solo ufficiale e un po’ più minaccioso.
«È tutto?» gli chiese Ricks.
«Sì, signore.»
«Nessun’altra notizia o segnale di minaccia?»
«Signore, fino a ieri abbiamo ricevuto le solite notizie. Non c’era niente di nuovo e niente di ufficiale su nessuna crisi.»
«E allora che diavolo sta succedendo?» chiese Ricks enfatico. «Be’, ha poca importanza, no?»
«Capitano» disse Claggett «credo che dovremmo staccarci dal nostro amico a due-sette-zero.»
«Già. Portalo a nord-est.»
Claggett guardò la mappa, per osservare Sa profondità del mare in quel punto.
Era profondo, infatti si trovavano di traverso nella rotta da Seattle al Giappone.
Al comando, il Matn«virò per tornare in porto. Una svolta a destra sarebbe stata semplice, ma in questo modo avrebbero rischiato di farsi scoprire dall’Akula che stavano seguendo da parecchi giorni. In qualche minuto, il sottomarino si mise sul fianco, a rollare di nove metri.
«Scendiamo un po’, capitano?» chiese Claggett.
«Tra pochi minuti. Voglio vedere se c’è qualche altra comunicazione sul canale via satellite.»
Quelli che un tempo erano stati nell’Oregon tre bellissimi tronchi di sempreverde si trovavano nel Pacifico da diverse settimane. I tronchi erano ancora verdi e pesanti quando erano caduti dalla George McReady. Erano pieni d’acqua, e la catena di pesante acciaio che li teneva uniti faceva sì che la debole spinta di galleggiamento positiva diventasse neutra. I tronchi non potevano salire in superficie, almeno non in quelle condizioni meteorologiche. L’azione incessante del mare vinceva ogni tentativo di farli risalire alla luce del sole ―
che al momento non c’era ― ed essi volteggiavano come dirigibili flosci, girando lentamente mentre il mare tentava di spezzare la catena.
Un addetto sonar a bordo del Maine percepì qualcosa, a zero-quattro-uno.
Era un suono strano, pensò, metallico come un tintinnio, ma più profondo. Non era una nave. Si era quasi perso al rumore della superficie.
«Merda!» Prese il microfono. «Cabina di pilotaggio, sonar ― contatto sonar vicino bordo!»
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«Cosa?» Ricks si precipitò al sonar.
«Non so cos’è, ma è vicino, signore!»
«Dove?»
«Non lo posso dire, ai due lati della prua… non è una nave, non so che diavolo sia, signore!» L’ufficiale controllò il segnale sullo schermo mentre tentava di identificare quel suono. «Non è una sorgente puntiforme ― è VICINO, signore!»
«Ma…» Ricks si fermò e si voltò. «Immersione immediata!» Ma sapeva che era troppo tardi.
Il Maine rimbombò come un tamburo per l’intera lunghezza, quando uno dei tronchi colpì la cupola di fibra di vetro sopra il sistema sonar della prua.
I tre tronchi si separarono. Il primo andò a sbattere contro il bordo della cupola del sonar, causando un danno lieve perché il sottomarino procedeva lentamente; ma il rumore fu abbastanza forte. Fu allontanato lateralmente, ma ce n’erano altri due e quello centrale colpì la carena proprio sul punto esterno corrispondente alla sala di controllo.
Il timoniere obbedì immediatamente all’ordine del capitano, premendo la barra di controllo per bloccare il sottomarino; la poppa si sollevò immediatamente. Il Maine aveva una poppa cruciforme. C’era un timone, sia sopra che sotto l’albero portaelica. A sinistra e a destra, i piani di poppa funzionavano come gli stabilizatori di un aereo. Sulla superficie esterna di ciascuno di essi c’era una struttura verticale che sembrava un timone ausiliare, ma in realtà era un accessorio per sensori sonar. La catena che teneva uniti i tronchi si incagliò su quella. Due tronchi erano fuoribordo, uno entrobordo.
Quest’ultimo, abbastanza lungo, raggiunse l’elica. Il rumore che seguì fu il peggiore che si fosse mai udito. L’elica a sette pale era fatta di una lega bronzo-manganese che si era conservata nella sua configurazione quasi perfetta per un periodo di sette mesi. Era estremamente forte, ma non a sufficienza. Le sue lame, a forma di scimitarra, tagliarono i tronchi uno dopo l’altro, come una lenta sega inefficiente. Ogni impatto ne ammaccava i bordi esterni. L’ufficiale della sala manovra, a poppa, aveva già deciso di bloccare l’albero portaelica prima che arrivasse quell’ordine. All’esterno della carena, udì lo stridere del metallo, mentre l’accessorio del sonar si era già distorto come pure l’accessorio aggiuntivo che teneva agganciato il sistema sonar al sottomarino. A quel punto, i tronchi caddero nella scia del sottomarino, e il rumore cessò.
«Che cazzo era?» gridò Ricks.
«La coda signore» disse l’addetto sonar. «Il sistema laterale destro è danneggiato, signore.» Ricks era già fuori della sala.
«Sala di pilotaggio, sala di manovra» stava dicendo un altoparlante.
«Qualcosa ha appena colpito l’elica. Ora sto controllando i danni all’albero.»
«I piani di poppa sono danneggiati, signore. I controlli sono molto lenti» disse il timoniere. Il comandante della nave lo spinse da parte e prese il suo posto.
Con molta lentezza e attenzione maneggiò la ruota dei controlli.
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«Sembra che i sistemi idraulici siano danneggiati. I correttori di assetto di immersione…» ― erano alimentati elettricamente ― «… sembrano a posto.»
Provò a girare il timone a sinistra e a destra. «Il timone è a posto, signore.»
«Dieci gradi sopra i piani di carenatura.» L’ordine fu dato dall’ufficiale esecutivo.
«Sì, signore.»
«E allora, cos’era?» chiese Dubinin.
«Una cosa metallica, un enorme segnale di picco meccanico, rilevamento zero-cinque-uno.» L’ufficiale indicò il segnale lampeggiante sullo schermo.
«Bassa frequenza, come vede, come quella di un tamburo… ma questo rumore ha un’intensità molto più alta. Lo sento, assomiglia a un mitragliatore. Aspetti un attimo…» disse il tenente Rjskov, pensando velocemente. «La frequenza ―
voglio dire l’intervallo degli impulsi ― era di una pala, un’elica… l’unica cosa possibile…»
«E ora?» chiese il capitano.
«Completamente scomparso.»
«Voglio tutto l’equipaggio in stato di allerta.» Il capitano Dubinin tornò ai controlli. «Nuovo corso zero-quattro-zero. Velocità dieci.»
Procurarsi un autocarro dell’Esercito sovietico era stato semplicissimo: lo avevano rubato. A Berlino era poco dopo mezzanotte e, poiché era domenica, le strade erano vuote. Berlino è una città molto viva, più di qualsiasi altra, ma il lunedì è una giornata lavorativa e il lavoro è una cosa che i tedeschi prendono molto sul serio. Lo scarso traffico era costituito da coloro che uscivano dalla Gasthaus o forse dai pochi lavoratori che facevano turni di ventiquattr’ore. La cosa importante era che non ci fossero ingorghi a impedire loro di arrivare in tempo a destinazione.
Un tempo c’era il muro, pensò Günther Bock. Da un lato c’era il distaccamento di Berlino e dall’altro quello sovietico, ciascuno con un’area per le esercitazioni, adiacente alle baracche. Ora il muro non c’era più, e tra le due forze meccanizzate c’era solo erba. Arrivarono davanti al cancello sovietico. La sentinella era un sergente di vent’anni, i foruncoli sul viso e l’uniforme in disordine. Dilatò leggermente gli occhi quando vide le tre stellette sulle spalline di Keitel.
«Sull’attenti!» ruggì Keitel in perfetto russo. Il giovane obbedì all’istante.
«Vengo dal comando dell’Esercito per compiere un’ispezione non preannunciata.
Non dovrai comunicare a nessuno il nostro arrivo. È chiaro?»
«Sì, colonnello!»
«Andiamo… e mettiti in ordine quell’uniforme prima che sia di ritorno, o ti troverai sbattuto al confine cinese! Forza!» ordinò Keitel a Bock, che sedeva al posto di guida.
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« Zu Befehl, Herr Oberst» rispose Bock, una volta che fu partito. Era proprio divertente. C’erano pochi aspetti divertenti in quella situazione, molto pochi. Ma era necessario conservare il giusto senso dell’umorismo.
Il quartier generale del reggimento era situato in un vecchio edificio usato un tempo dalia Wehrmacht di Hitler, che i russi avevano utilizzato molto.
All’esterno c’era il solito giardino, e in estate una doppia fila di fiori abbelliva il sentiero. Si trattava del reggimento carristi, un reggimento che i soldati tenevano in scarsa considerazione, a giudicare dal comportamento della sentinella al cancello. Bock diresse l’auto all’entrata. Keitel e gli altri scesero dai veicoli e si avviarono alla porta.
«Chi è l’ufficiale in servizio in questo bordello?» sbottò Keitel. Un caporale fece un cenno. I caporali non replicano agli ordini degli ufficiali di grado superiore. L’ufficiale in servizio, scoprirono, era un maggiore sulla trentina.
«Cosa c’è?» chiese il giovane ufficiale.
«Sono il colonnello Ivanenko dell’ispettorato. Questa è un’ispezione non preannunciata per verificare la prontezza di intervento. Dia l’allarme!» Il maggiore avanzò di due passi e premette un tasto che mise in funzione tutte le sirene del campo.
«Ora vada a chiamare il comandante di reggimento e lo faccia venire subito qui! È questa la sua prontezza, maggiore?» sbraitò Keitel, senza dare all’uomo la possibilità di fiatare. L’ufficiale si fermò a metà strada dal telefono, non sapendo quale ordine eseguire per primo. « E allora? »
«La nostra prontezza di intervento ha regole precise, colonnello Ivanenko.»
«Ha l’occasione di dimostrarlo.» Keitel si voltò a uno dei suoi uomini.
«Prendi il nome di questo ragazzo!»
A meno di due chilometri di distanza, videro accendersi le luci della base americana dove prima c’era Berlino Ovest.
«Anche là c’è un’esercitazione» osservò Keitel/Ivanenko. «Splendido.
Dovremmo fare prima di loro.»
«Cosa c’è?» chiese il comandante di reggimento, arrivato senza essere stato avvertito.
« Questo sembra uno spettacolo scadente!» brontolò Keitel. « Questa è un’ispezione non preannunciata sulla prontezza di intervento. Lei deve comandare un reggimento, colonnello. Le consiglio di uscire di qui senza fare altre domande.»
«Ma…»
«Ma coso?» chiese Keitel. « Non sa forse cos’è un’ispezione sulla prontezza di intervento?»
«Le dimostrerò quello che sanno fare i miei ragazzi.»
«Staremo a vedere» rispose Keitel.
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«Dottor Ryan, farebbe bene a venire qua. » La linea si interruppe.
«D’accordo» rispose Jack. Prese le sigarette e si diresse alla stanza 7-F-27, il centro operativo della CIA. Situata nel lato nord dell’edificio, era il corrispettivo delle sale operative di tante altre agenzie di governo. Al centro di una stanza di circa nove metri per sei c’era un grande tavolo rotondo con, al centro, un piano girevole con sopra un contenitore per libri e sei posti a sedere intorno. I posti erano contrassegnati da targhette che indicavano le funzioni dei rispettivi assegnatali: ufficiale di grado elevato in servizio, stampa, Africa ― America Latina, Europa ― URSS, Vicino Oriente ― terrorismo, e Asia del Sud ― Asia Orientale ― Pacifico. Gli orologi alla parete indicavano l’ora di Mosca, Pechino, Beirut, Tripoli e, naturalmente, Greenwich. Accanto, c’era una sala per le conferenze che dava sul cortile interno della CIA.
«Cosa c’è?» chiese Jack, arrivando contemporaneamente a Goodley.
«Secondo il NORAD, un ordigno nucleare è appena esploso a Denver.»
«Spero che sia un fottuto scherzo!» replicò Jack. Prima che l’altro potesse rispondere, lo stomaco gli si strinse in una morsa. Nessuno faceva scherzi di quel genere.
«Magari fosse così» disse il funzionario in servizio.
«Che cosa sappiamo?»
«Non molto.»
«Niente?» chiese Jack. Se ci fosse stata qualche informazione l’avrebbe già saputa. «Dov’è Marcus?»
«Sta tornando con un C-141, si trova tra il Giappone e le Aleutine. Tocca a lei, signore» puntualizzò il funzionario, ringraziando in silenzio il Signore di non doversi trovare al suo posto. «Il Presidente è a Camp David. Il segretario alla Difesa e il segretario di Stato…»
«Morti?» chiese Ryan.
«Sembrerebbe di sì, signore.»
Ryan chiuse gli occhi. «Cristo! E il vicepresidente?»
«È nella residenza ufficiale. L’ufficiale di guardia del centro di comando militare nazionale è il capitano James Rosselli. Il generale Wilkes è per strada.
La DIA è in linea. Loro… il Presidente ha ordinato DEFCON-DUE alle nostre forze strategiche.»
«Niente da parte dei russi?»
«Niente di insolito. Nella Siberia orientale è in corso un’esercitazione di difesa aerea, ma è tutto.»
«D’accordo. Allarme a tutte le stazioni. Passi parola che non voglio sentire repliche. Devono mettere in allarme qualsiasi fonte che abbiamo a disposizione, il più presto possibile.» Jack si fermò un attimo. «Che certezza abbiamo che l’esplosione si sia verificata realmente?»
«Signore, due DSPS hanno ripreso il lampo. Abbiamo un KH-11 che tra venti 623
minuti sarà sul posto e ho ordinato alla NPIC di puntare ogni telecamera a disposizione su Denver. Il NORAD dice che è una detonazione nucleare, ma non si hanno notizie di perdite o danni. Sembra che l’esplosione sia avvenuta nell’area vicina allo stadio. Non è un’esercitazione, altrimenti non avremmo messo in allarme le forze strategiche a DEFCON-DUE, signore.»
«Traccia balistica? Avvistamento di un aereo?»
«Negativo, non c’è stato avvistamento di lancio, né traccia balistica sul radar.»
«E se fosse un FOBS?» chiese Goodley. Era possibile che un’arma arrivasse via satellite. Era quello lo scopo di un sistema orbitale di lancio frazionato.
«Lo avrebbero visto» replicò il funzionario. «Ho già chiesto. Non sappiamo ancora niente dell’aereo. Stanno verificando le registrazioni sul controllo del traffico aereo.»
«Così non sappiamo un accidente.»
«Esatto.»
«Il Presidente si è messo in contatto con noi?»
«No, ma abbiamo una linea aperta. Con lui c’è anche il consigliere per la sicurezza nazionale.»
«Il retroscena più probabile?»
«Direi terrorismo.»
Ryan annuì. «Anch’io lo penso. Ora vado nella sala delle conferenze. Voglio immediatamente qui il direttore delle operazioni; il direttore delle informazioni e qualcuno del dipartimento di scienza e tecnologia. Se avete bisogno di elicotteri per farli venire, dia ordine immediato.» Ryan andò nell’altra stanza, lasciando la porta aperta.
«Cristo» fece Goodley. «Vuole davvero che rimanga qui?»
«Sì, e se le viene un’idea, la dica ad alta voce. Mi ero dimenticato dei FOBS.»
Jack alzò il telefono e spinse il tasto dell’FBI.
«Qui è la CIA, parla il vicedirettore Ryan. Chi parla?»
«L’ispettore Pat O’Day. Con me c’è anche il vicedirettore Murray. Glielo passo.»
«Dimmi, Dan.» Jack spinse il tasto dell’altoparlante. Un funzionario di guardia gli passò una tazza di caffè.
«Non sappiamo nulla, Jack. Pensi che si tratti di terrorismo?»
«Al momento, sembra l’ipotesi più plausibile.»
«Ne sei sicuro?»
«Sicuro?» Ryan scosse la testa al telefono. Goodley lo notò. «Che significa, sicuro, Dan?»
«Capisco, è solo che stiamo cercando di immaginare cosa può essere accaduto. Non riesco neanche a prendere la CNN alla TV.»
«Cosa?»
«Quelli delle comunicazioni dicono che tutti i satelliti sono fuori uso» spiegò 624
Murray. «Non lo sapevi?»
«No.» Jack fece segno a Goodley di tornare al centro operativo e controllare.
«Se le cose stanno così, allora si potrebbe scartare l’ipotesi del terrorismo. Gesù, è spaventoso!»
«Sì, Jack.»
«Dieci satelliti per telecomunicazioni commerciali non funzionano» disse Goodley. «Però quelli di difesa vanno bene. I nostri collegamenti in trasmissione dati funzionano.»
«Cerchi il funzionario di grado più elevato del dipartimento di scienza e tecnologia ― oppure uno dei nostri addetti alle comunicazioni ― e gli chieda cos’è che ha messo fuori uso i satelliti. Forza!» ordinò Jack.
«Dov’è Shaw?»
«Sta rientrando. Ci vorrà un po’ perché arrivi, con il traffico che c’è. Ti informerò su tutto ciò che so.»
«Anch’io.»
La cosa peggiore era che Ryan non sapeva che fare. Il suo lavoro era quello di raccogliere i dati e fornirli al Presidente, ma non aveva nessun dato a disposizione. Le informazioni sarebbero giunte tramite circuiti militari. La CIA aveva fallito di nuovo, pensò Ryan. Qualcuno aveva fatto qualcosa nel suo paese e lui non era stato in grado di prevenirlo. Della gente era morta perché la sua Agenzia aveva fallito la missione. Ryan era il vicedirettore. Era un fallimento personale. Un milione di persone erano morte forse, e lui era là, tutto solo, in un’elegante sala delle conferenze a fissare una parete nuda. Premette il tasto per mettersi in contatto con il NORAD.
«NORAD» rispose una voce impersonale.
«Qui è il centro operativo della CIA, parla il vicedirettore Ryan. Ho bisogno di informazioni.»
«Non ne abbiamo molte, signore. Pensiamo che la bomba sia esplosa nelle immediate vicinanze dello stadio. Stiamo cercando di valutarne la potenza, ma non abbiamo ancora niente di preciso. Un elicottero è stato inviato dalla base aeronautica di Lowery.»
«Ci potete tenere informati?»
«Sì, signore.»
«Grazie.» Questo sì che è un bell’aiuto, pensò Ryan. Adesso era certo che nessun altro ne sapeva nulla.
Non c’era niente di magico in una nuvola a fungo, pensò il capo battaglione Mike Callaghan dei vigili del fuoco di Denver. Nel 1968 c’era stato un incendio a Berlington, alle porte della città. Un vagone cisterna che trasportava propano era andato a scontrarsi con un treno carico di bombe diretto al terminal di Oakland, in California. Il comandante aveva avuto il buon senso di far allontanare i suoi uomini e a distanza avevano visto tonnellate di bombe 625
esplodere come una serie di petardi. Anche allora c’era stata una nuvola a fungo.
Una grossa massa di aria calda si era alzata e si era avvolta in forma anulare.
Aveva creato un’immissione di aria dal basso verso l’alto nel suo centro a forma di ciambella, e formato il fusto del fungo ― Ma questa era molto più grossa. Se ne stava al volante della sua auto rossa, e seguiva tre autopompe, un’autoscala e due ambulanze. Erano un primo tentativo di risposta. Callaghan prese il microfono e ordinò un allarme generale. Poi disse agli uomini di avvicinarsi da sopravento.
Cristo, che era successo?
Non poteva essere… la maggior parte della città era ancora intatta.
Il capo Callaghan non se sapeva molto, ma sapeva che c’era un incendio da spegnere e della gente da salvare. Mentre l’auto imboccava il viale che conduceva allo stadio, vide la grossa massa di fumo. Naturalmente era il parcheggio, doveva essere il parcheggio. La nuvola a fungo stava soffiando rapidamente in direzione sud-ovest, verso le montagne. Il parcheggio era una massa di fuoco e fiamme, alimentati da benzina e petrolio che bruciavano. Una potente folata di vento spinse via per un attimo il fumo, abbastanza perché lui potesse vedere che là c’era stato uno stadio… poche parti erano ancora… non intatte, ma si poteva dire che lo fossero… lo erano state solo qualche minuto prima. Callaghan imprecò: aveva da spegnere un incendio, da salvare della gente. La prima autopompa estrasse un idrante.
Vi parcheggiò l’auto vicino e montò sopra. Qualche pezzo di materiale pesante — il tetto dello stadio, immaginò ― era caduto nel parcheggio alla sua destra. La maggior parte di esso era atterrato nel parcheggio di un centro commerciale poco distante. Callaghan usò la sua radio portatile per ordinare che inviassero un’altra unità sia verso il centro commerciale che nella zona residenziale adiacente. Agli incendi più piccoli avrebbe pensato in un secondo momento. Nello stadio c’erano persone che avevano bisogno di aiuto, ma, per arrivarci, i pompieri avrebbero dovuto passare attraverso parecchie auto in fiamme…
Proprio in quel momento scorse in cielo l’elicottero dell’Aeronautica. L’UH-1
atterrò a una trentina di metri e Callaghan corse in quella direzione. Notò che l’ufficiale, all’interno, era un maggiore dell’Esercito.
«Callaghan» disse. «Capo battaglione.»
«Griggs» si presentò il maggiore. «Vuole dare un’occhiata dall’alto?»
«Sì.»
«Via.» L’elicottero si alzò, Callaghan prese la cintura, ma non l’allacciò.
Non ci volle molto. Quello che dal livello stradale sembrava essere un muro di fumo, dall’alto apparve come un insieme di colonne separate di fumo nero e grigio. Forse una metà delle auto si erano incendiate. Avrebbe potuto avvicinarsi seguendo uno dei viali del parcheggio, ma in alcuni punti questi erano ostruiti dalle auto in fiamme. L’elicottero fece un unico giro, sobbalzando attraverso 626
l’aria calda e secca. Guardando in basso, Callaghan poté vedere una massa di asfalto sciolto, in parte ancora incandescente. L’unico punto visibile era l’estremità sud dello stadio, che sembrava brillare, sebbene non se ne capisse il motivo. Ciò che riuscirono a individuare fu una sorta di cratere le cui dimensioni erano difficilmente valutabili, poiché non ne potevano vedere che alcuni tratti per volta. Dovettero osservare a lungo per capire che alcune parti della struttura dello stadio erano ancora in piedi, forse quattro o cinque sezioni.
Là doveva esserci della gente.
«Va bene, ho visto abbastanza» disse Callaghan a Griggs. Quest’ultimo gli passò una cuffia per comunicare più agevolmente.
«Di che si tratta?»
«Di quello che sembra» rispose Griggs. «Di cosa avete bisogno?»
«Attrezzature di sollevamento. Probabilmente è rimasta della gente nello stadio. Dobbiamo arrivarci. Ma… le radiazioni?»
Il maggiore scrollò le spalle. «Non lo so. Io lavoro all’arsenale e ne so poco di questa roba, ma gli specialisti sono a Rocky Flats. Là c’è una squadra del NEST.
Ora chiamerò quelli dell’arsenale per far portare il più presto possibile l’attrezzatura pesante. Faccia stare i suoi uomini controvento. Non tenti di avvicinarsi da altre direzioni, d’accordo?»
«Sì.»
«Create un posto di decontaminazione proprio dove avete le vostre auto.
Quando la gente arriverà dallo stadio, bagnateli con l’acqua, svestiteli e bagnateli. Capito?» chiese il maggiore mentre l’elicottero atterrava. «Poi portateli all’ospedale più vicino. Sempre sopravento, si ricordi che tutto deve andare in direzione nord-est, così sarete salvi.»
«E la ricaduta radioattiva?»
«Non sono un esperto, ma le dirò quello che penso. Sembra che ce ne sia poca, non molta. L’aspirazione dalla sfera di fuoco e il vento di superficie dovrebbero aver indirizzato la maggior parte della radioattività lontano da qui.
Non tutta, ma la maggior parte. Comunque gli uomini del NEST arriveranno presto e loro le potranno dire con certezza qualcosa. Per ora è tutto quello che posso dirle, capo. Buona fortuna.»
Callaghan saltò giù e corse. L’elicottero si levò di nuovo in volo, in direzione nord-est, verso Rocky Flats.
«E allora?» chiese Kuropatkin.
«Generale, noi valutiamo la potenza dal calore iniziale e residuo. C’è qualcosa di strano, ma la mia valutazione migliore è tra i centocinquanta e i duecento chilotoni.» Il maggiore mostrò al comandante i suoi calcoli.
«Cosa c’è di strano?»
«L’energia del lampo iniziale era bassa. Ciò potrebbe significare che in cielo c’erano alcune nuvole. Il calore residuo è abbastanza alto. Questa era una 627
detonazione importante, paragonabile a quella di una testata nucleare tattica molto grossa, o a una testata strategica piccola.»
«Ecco il libro dei bersagli» disse un tenente. Era un volume in quarto, rilegato di tela, le cui spesse pagine erano in realtà mappe ripiegate. Veniva consultato per formulare delle valutazioni sugli eventuali danni. La mappa della zona di Denver aveva una sovrapposizione in lucido che mostrava gli obiettivi dei missili strategici russi. Sulla mappa erano indicali in tutto otto missili, cinque SS-18 e tre SS-19, per un totale di non meno di sessantaquattro testate e venti megaton! di potenza. Qualcuno, rifletté Kuropatkin, considerava Denver un buon bersaglio.
«Stiamo ipotizzando un’esplosione al suolo?» chiese Kuropatkin.
«Sì» replicò il maggiore. Con un compasso tracciò un cerchio intorno allo stadio di Denver. «Un esplosivo di duecento chilotoni avrebbe un raggio di scoppio mortale…»
La mappa era colorata in codice: le strutture difficili da colpire erano marroni, le abitazioni gialle. Con il verde erano stati indicati gli edifici commerciali e altri edifici considerati bersagli di facile distruzione. Lo stadio, notò, era verde, così come tutto ciò che lo circondava. All’interno del raggio mortale c’erano centinaia di case e di edifici.
«Quanti erano nello stadio?»
«Ho chiamato il KGB per una stima» rispose il tenente. «Lo stadio è una struttura coperta, con il tetto. Agli americani piacciono le cose comode. La capienza totale supera le sessantamila persone.»
«Mio Dio» esclamò il generale Kuropatkin. Sessantamila… e almeno altre centomila dentro il raggio.» E se gli americani credono che siamo stati noi…
«E allora?» chiese Borstein.
«Ho fatto tre volte il numero. Uno-cinque-KT, signore» disse il capitano.
Borstein si sfregò il viso. «Cristo. Il conto delle vittime?»
«Duecentomila, sulla base dì quello che ha detto il computer e da un rapido sguardo alle mappe che abbiamo in dossier» rispose. «Signore, se qualcuno pensa a un atto terroristico, si sbaglia. È una cosa troppo grossa.»
Borstein attivò la linea diretta con il Presidente e il comandante in capo del SAC. «Qui abbiamo una prima valutazione.»
«Sì, sono in attesa» disse il Presidente. Guardava l’altoparlante come se fosse una persona.
«Sembra che le stime iniziali sulla potenza della carica esplosiva si aggirino sui centocinquanta chilotoni.»
«Così tanto?» chiese il generale Fremont.
«Abbiamo controllato le cifre tre volte.»
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«Vittime?» domandò il comandante del SAC.
«Nell’ordine dei duecentomila morti iniziali. Ne aggiunga altre cinquanta per effetti ritardati.»
Il Presidente Fowler si appoggiò all’indietro. Nei cinque minuti precedenti, aveva tentato di negare a se stesso la realtà, come meglio poteva, ma la smentita più importante adesso era sfumata. Duecentomila morti. I suoi concittadini, la gente che aveva giurato di proteggere e difendere.
«Che altro si sa?» chiese il Presidente.
«Non sento bene» disse Borstein.
Fowler trasse un profondo respiro e parlò di nuovo. «Che altro sapete?»
«Signore, la nostra impressione è che la potenza dell’ordigno è risultata spaventosamente alta per essere un esplosivo terroristico.»
«Sono dello stesso parere» concordò il comandante del SAC. «Un esplosivo nucleare improvvisato, ossia quello che ci aspetteremmo da terroristi con mezzi non sofisticati, non sarebbe superiore ai venti chilotoni. Qui sembra che si tratti di un’arma pluristadio.»
«Pluristadio?» chiese Elliot, parlando all’altoparlante.
«Un esplosivo termonucleare» spiegò il generale Borstein. «Una bomba H.»
«Parla Ryan, chi è?»
«Il maggiore Fox, signore, del NORAD. Abbiamo una valutazione iniziale sulla potenza dell’esplosivo e sulle vittime.» Il maggiore lesse le cifre.
«Troppo grossa per essere un’arma da terroristi» disse un funzionario del dipartimento di scienza e tecnologia.
«È quello che pensiamo anche noi, signore.»
«Vittime?» chiese Ryan.
«Una probabile stima parla di duecentomila circa, comprese le persone allo stadio.»
Mi devo svegliare, si disse Ryan, gli occhi chiusi. Questo deve essere un fottuto incubo e io mi sveglierò. Ma quando aprì gli occhi, non era cambiato nulla.
Robby Jackson sedeva nella cabina di Ernie Richards, il capitano della portaerei.
Avevano seguito per un po’ la partita, ma ora discutevano sulle tattiche di un gioco di guerra. Il gruppo di battaglia della Theodore Roosevelt sarebbe arrivato a Israele da ovest, simulando un attacco nemico. Il nemico in questo caso erano i russi. Sembrava molto improbabile, naturalmente, ma le regole del gioco andavano stabilite. In questo caso, i russi sarebbero stati astuti. Il gruppo sarebbe stato frammentato fino ad assomigliare a un insieme sparso di navi mercantili, anziché a una formazione tattica. La prima ondata di attacchi sarebbe 629
stata di caccia e bombardieri che avrebbero tentato di avvicinarsi all’aeroporto internazionale Ben Gurion sotto forma di pacifici aerei di linea, il modo migliore per entrare nello spazio aereo di Israele senza farsi annunciare. Il personale operativo di Jackson aveva già sottratto le tabelle di marcia e stava esaminando i fattori tempo, per far apparire il loro attacco il più plausibile possibile. Certo, le probabilità di vincere erano limitate: era poco plausibile che la TR potesse qualcosa contro l’Aeronautica israeliana e il nuovo contingente USAF, ma a Jackson le sfide piacevano.
«Accendi la radio, Rob. Ho perso il punteggio.» Jackson si allungò sul tavolo e girò la manopola, ma trovò una stazione musicale. La portaerei aveva il proprio sistema TV di bordo e c’era anche una rete delle Forze Armate statunitensi. «Forse si è rotta l’antenna» osservò il comandante dell’aerobrigata.
Richards rise. «Proprio in un momento come questo? Ci deve essere un ammutinamento a bordo.»
Qualcuno bussò. «Avanti!» disse Richards. Era un sottufficiale che gli consegnò il portablocco.
«Niente di importante?» chiese Robby.
Richards gli passò semplicemente il messaggio, poi afferrò il microfono.
«Allarme generale.»
«Che diavolo succede?» chiese Jackson. «DEFCON-TRE, ma perché diavolo?»
«Andiamo, Bob.» I due uomini incominciarono a correre verso il centro informativo di combattimento.
«Che mi può dire?» chiese Andrej Il’jč Narmonov.
«La bomba aveva una potenza di circa duecento chilotoni. Ciò significa che è un grosso dispositivo, una bomba a idrogeno» spiegò il generale Kuropatkin. «Il conto delle vittime supererà i centomila morti. Abbiamo anche indicazioni di un forte impulso elettromagnetico che ha colpito uno dei nostri satelliti di avvistamento.»
«Come si spiegherebbe tutto questo?» chiese uno dei consiglieri di Narmonov.
«Non lo sappiamo.»
«Abbiamo armi nucleari disperse?» chiese il Presidente.
«Assolutamente no» rispose una terza voce.
«Sa qualcos’altro?»
«Con il suo permesso, vorrei ordinare a Vojska PVO di porsi a un più alto livello di allarme. Stiamo già facendo un’esercitazione di addestramento nella Siberia orientale.»
«È una provocazione?» chiese Narmonov.
«No, è totalmente difensivo. I nostri intercettatori non possono danneggiare nessuno che si trovi oltre poche centinaia di chilometri dai nostri confini. Per il 630
momento, terrò tutti i miei aerei nello spazio aereo russo.»
«Molto bene, proceda.»
Nel suo centro di controllo sotterraneo, Kuropatkin fece un cenno a un alto ufficiale, il quale prese il telefono. Il sistema sovietico di difesa aerea era stato già allertato, naturalmente; in un minuto, i messaggi radio furono trasmessi e i radar di sorveglianza a lungo raggio entrarono in funzione in tutta la periferia della nazione. Sia i messaggi che i segnali radar furono immediatamente individuati dall’agenzia per la sicurezza nazionale, a terra e in orbita.
«C’è altro che potrei fare?» chiese Narmonov ai suoi consiglieri.
Il ministro degli esteri parlò per tutti. «Io penso che la cosa migliore sia non fare niente. Quando Fowler desidererà parlare con noi, lo farà. Ha già abbastanza problemi, senza interferenze da parte nostra.»
Il volo MD-80 atterrò all’aeroporto internazionale di Miami e rullò verso il terminale. Qati e Ghosn si alzarono dai posti di prima classe e scesero dall’aereo. Il loro bagaglio sarebbe stato trasferito direttamente al volo di collegamento; non che la cosa preoccupasse i due più di tanto. Erano nervosi, ma meno di quanto avessero previsto. La morte era qualcosa che avevano messo in conto come una possibilità di quella missione. Tanto meglio se fossero sopravvissuti. Ghosn non si fece prendere dal panico finché non si rese conto che nell’aeroporto non c’era un’attività insolita, come si era aspettato. Avrebbe dovuto esserci, pensò. Trovò un bar e andò a cercare la televisione. Era sintonizzata su una stazione locale. Fu combattuto tra l’impulso di chiedere qualcosa e… ma decise di non rischiare. Si dimostrò una buona decisione. Un attimo dopo un’altra voce, al di sopra della sua testa, si informò sul punteggio.
«Quattordici a sette per i Vikings» rispose un’altra voce. «Poi il video è scomparso.»
«Quando?»
«Circa dieci minuti fa.»
«Forse c’è stato un terremoto.»
«Ne sapete quanto me» commentò il barman.
Ghosn si alzò e si diresse alla sala partenze.
«Che informazioni avete alla CIA?» chiese Fowler.
«Niente, per il momento, signore. Stiamo raccogliendo dati, ma voi sapete tutto quello che noi… attenda un attimo.» Ryan prese il messaggio che il funzionario in servizio gli consegnava. «Signore, ho un messaggio dall’NSA. Il sistema di difesa aereo sovietico è stato posto a un livello di allerta più alto. I radar sono tutti in funzione e ci sono molte trasmissioni radio.»
«Che significa?» chiese Fowler.
«Significa che vogliono accrescere i loro sistemi di difesa. PVO non è una 631
minaccia per nessuno, a meno che qualcuno non si avvicini o sia dentro lo spazio aereo russo.»
«Ma perché lo avrebbero fatto?»
«Forse hanno paura che qualcuno li possa attaccare.»
«Accidenti, Ryan!» imprecò il Presidente.
«Signor Presidente, mi scusi. Non volevo essere insolente, è la verità. Vojska PVO è un sistema di difesa come il nostro NORAD. Adesso i nostri sistemi di difesa aerea e di avvistamento sono in allarme. E anche i loro. È solo una mossa difensiva. Avranno già saputo quello che è successo da noi. Quando accadono eventi di questo genere, è naturale attivare le proprie difese, proprio come abbiamo fatto noi.»
«È assurdo» disse il generale Borstein. «Ryan, lei dimentica che noi siamo stati attaccati, non loro. Ora, prima ancora di preoccuparsi di chiamarci, hanno attivato i loro livelli di allerta. Trovo che sia davvero spaventoso.»
«Ryan, che mi dice di quei rapporti sulle armi nucleari russe mancanti?»
chiese Fowler. «Possono avere a che fare con questa situazione?»
« Quali armi nucleari mancanti? » chiese il comandante del SAC. «Perché io non ne so niente?»
«Che tipo di armi nucleari?» chiese Borstein un attimo dopo.
«Si tratta di un rapporto non confermato di un agente di penetrazione. Non ci sono particolari» rispose Ryan, poi pensò di dover fornire qualche spiegazione.
«La somma delle informazioni ricevute è questa: ci è stato detto che Narmonov ha problemi politici con i suoi militari; che loro sono scontenti del modo in cui gestisce la situazione; che dopo il ritiro dalla Germania, un certo numero non specificato di armi nucleari ― probabilmente tattiche — sono risultate mancanti; che il KGB sta conducendo un’operazione per definire cos’è che manca, ammesso che manchi qualcosa. In apparenza, Narmonov è personalmente coinvolto, in quanto potrebbe essere bersaglio di un ricatto politico e il ricatto potrebbe avere un carattere nucleare. Ma, e devo sottolineare ma, non siamo riusciti nel modo più assoluto ad avere conferma di questi rapporti, nonostante ripetuti tentativi, e stiamo esaminando la possibilità che il nostro agente ci stia mentendo.»
«Perché non ce lo ha detto?» chiese Fowler.
«Signor Presidente, ora siamo solo in fase di formulazione di ipotesi. Ci stiamo lavorando sopra, signore.»
«Be’, sicuro come l’inferno, non è stato uno dei nostri» intervenne con calore il generale Fremont. «E non è una maledetta bomba di terroristi, è troppo grossa.
Ora lei ci dice che i russi potrebbero essere a corto di armi, Ryan.»
«E ciò potrebbe spiegare il livello di allarme al PVO» aggiunse Borstein, in tono minaccioso.
«Mi sta dicendo» chiese il Presidente «che questo potrebbe essere un esplosivo sovietico?»
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«Non ci sono molte armi nucleari in giro» rispose per primo Borstein. «E la potenza di questo esplosivo è troppo alta per essere una cosa da principianti.»
«Aspetti un attimo» intervenne Jack. «Lei si deve ricordare che i fatti di cui disponiamo sono molto scarsi. C’è una bella differenza tra le informazioni e le supposizioni. Non se lo dimentichi.»
«Quanto sono potenti le armi nucleari tattiche sovietiche?» volle sapere Liz Elliot.
Rispose il comandante in capo del SAC. «Molte sono come le nostre. Ne hanno di piccole, da un chilotone per colpo da artiglieria, e hanno testate superiori ai cinquecento chilotoni, residui degli SS-20.»
«In altre parole, la potenza di questa esplosione rientra nella gamma dei tipi di testate sovietiche che sembrano mancare?»
«Giusto, dottoressa Elliot» replicò il generale Fremont.
A Camp David, Elizabeth Elliot si appoggiò allo schienale della sedia e si voltò verso il Presidente. Parlò a voce troppo bassa perché riuscissero a udirla tramite il telefono.
«Robert, tu dovevi essere alla partita, con Brent e Dennis.»
Strano che fino ad allora non gli fosse venuto in mente quel pensiero, rifletté Fowler. Anche lui si appoggiò all’indietro. «No» rispose. «Non posso credere che i russi farebbero una cosa del genere.»
«Fare cosa?» chiese una voce all’altoparlante.
«Aspetti un attimo» disse il Presidente, calmo.
«Signor Presidente, non ho capito ciò che ha detto.»
« Ho detto di aspettare un attimo!» urlò Fowler. Tappò il microfono con la mano. «Elizabeth, è nostro compito tenere il controllo della situazione.
Mettiamo da parte per un attimo questo aspetto personale.»
«Signor Presidente, appena possibile raggiunga la “postazione di comando aerotrasportato per l’emergenza nazionale” ad Andrews disse il comandante del SAC. «La situazione potrebbe diventare molto critica.»
«Se vogliamo riprendere il controllo, Robert, dobbiamo fare presto.»
Fowler si girò verso l’ufficiale navale che stava dietro di lui.
«Quando arriva l’elicottero?»
«Tra venticinque minuti, signore, poi ce ne vogliono altri trenta per arrivare ad Andrews.»
«Quasi un’ora…» Fowler guardò l’orologio alla parete, con impazienza.
«Dall’elicottero, i collegamenti radio non sono sufficienti. Dica all’elicottero di portare il vicepresidente Durling ad Andrews. Generale Fremont?»
«Sì, signor Presidente.»
«Ci sono altri centri di questo tipo, vero?»
«Sì, signore.»
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«Manderò il vicepresidente al centro principale. Voi mandatemi qua un aereo.
Potete farlo atterrare a Hagerstown?»
«Sì, signore, possiamo usare la pista di atterraggio Fairchild-Repubblic, dove si costruivano gli A-10.»
«Bene, fatelo. Mi ci vorrebbe un’ora per arrivare ad Andrews e non posso permettermi di perdere un’ora. Il mio compito adesso è di risolvere questa situazione, e quell’ora per me è preziosa.»
«Questo, signore, è un errore» disse Fremont in tono gelido. Ci volevano due ore per arrivare in aereo nel centro del Maryland.
«Può darsi, ma farò esattamente come ho detto. Questo non è il momento opportuno per andarmene.»
Dietro il Presidente, Pete Connor e Helen D’Agustino si scambiarono uno sguardo preoccupato. Nessuno dei due si illudeva minimamente su ciò che sarebbe accaduto se ci fosse stato un attacco nucleare sugli Stati Uniti, la mobilità era la migliore difesa del Presidente e lui l’aveva scartata.
Il messaggio radio da Camp David partì subito. L’elicottero del Presidente stava attraversando la circonvallazione di Washington quando invertì la rotta, in direzione sud-est. Atterrò sul terreno dell’osservatorio navale degli Stati Uniti. Il vicepresidente Roger Durling e tutta la sua famiglia salirono a bordo. Gli agenti del servizio segreto, i fucili mitragliatoli Uzi imbracciati, si misero in ginocchio nel velivolo. Tutto ciò che sapeva Durling erano i dettagli che il servizio segreto gli aveva raccontato. Durling si disse che doveva rilassarsi, che non doveva perdere il controllo. Guardò il figlio più piccolo, un bambino di quattro anni.
Magari poter tornare ad avere quattro anni, aveva pensato il giorno prima, magari avere quattro anni in un mondo senza occasioni di guerra. Tutti gli orrori della sua giovinezza, la crisi missilistica di Cuba che aveva segnato il suo anno di matricola al college, il servizio come capo battaglione nell‘82o Aerotrasportato, un anno passato in Vietnam. L’esperienza della guerra aveva fatto di Durling un politico liberal inusuale. Non era fuggito di fronte alla guerra, aveva corso il rischio e gli si era impresso nella mente il ricordo di due uomini morti tra le sue braccia. Solo il giorno prima aveva guardato il figlio e ringraziato Dio perché non avrebbe conosciuto niente di tutto ciò.
E ora, questo. Suo figlio non sapeva altro all’infuori del fatto che quella era una corsa in elicottero, e a lui piaceva volare. Sua moglie sapeva qualcosa di più e gli occhi le si riempirono di lacrime, quando lo guardò.
Il VH-3 atterrò a una cinquantina di metri dall’aereo. Il primo agente del servizio segreto saltò fuori e vide un plotone della polizia di sicurezza dell’Aeronautica che si faceva strada verso la scaletta. Il vicepresidente venne praticamente trascinato, mentre un robusto agente prendeva in custodia il bambino. Due minuti dopo, prima ancora che tutti agganciassero la cintura di sicurezza, il pilota dell’aereo di emergenza azionò i motori e diresse verso est, 634
verso l’Oceano Atlantico, dove un aereo cisterna KC-10 stava già orbitando per rifornire il Boeing di carburante.
«Qui abbiamo un problema notevole» disse Ricks nella sala delle manovre. Il Maine aveva appena cercato di muoversi. A qualsiasi velocità superiore ai tre nodi, l’elica si lamentava. L’albero era leggermente piegato, ma dovevano tenerselo così. «Tutte e sette le lame devono essere danneggiate. Se cerchiamo di aumentare di velocità facciamo rumore. Se arriviamo a cinque, perderemo i cuscinetti dell’albero entro qualche minuto. Il motore fuoribordo può far andare a due o tre nodi, ma anche così c’è rumore. Commenti?» Non ce n’erano.
Nessuno a bordo dubitava dell’esperienza ingegneristica di Ricks.
Il Maine doveva tenersi vicino alla superficie. Al suo livello di allerta, doveva essere pronto a lanciare i missili in pochi minuti. Di norma, avrebbero potuto immergersi a una profondità maggiore, se non altro per ridurre l’orribile movimento che adesso la nave subiva dalla turbolenza della superficie, poiché procedeva con lentezza.
«Quant’è vicino l’ Omaha?» chiese il capo ingegnere.
«Probabilmente un centinaio di chilometri, e c’è il P-3 a Kodiak — ma dobbiamo preoccuparci ancora di quell’Akula» disse Claggett. «Signore, possiamo rimanere qua ad aspettare?»
«No, abbiamo un boomer rotto. Abbiamo bisogno di aiuto.»
«Questo significa usare la radio» puntualizzò il secondo ufficiale.
«Useremo una boa.»
«Procedendo a due nodi, non serve a molto, signore. Capitano, mettere l’antenna è un errore.»
Ricks guardò il capo ingegnere, che disse: «Mi piace l’idea di avere intorno un amico».
«Anche a me» confermò il capitano. Non ci volle molto. In pochi secondi la boa fu in superficie e cominciò immediatamente a trasmettere un breve messaggio in UHF. Era programmata a trasmettere per ore.
«Molto presto avremo un attacco di panico nazionale» disse Fowler. Non era un’osservazione brillante. Il panico era crescente nel suo stesso centro di comando e lui lo sapeva. «Niente di nuovo da Denver?»
«Niente, né dalla rete televisiva commerciale, né dai canali radio, che io sappia» rispose una voce dal NORAD.
«Okay, rimanete in attesa.» Fowler cercò un altro tasto.
«Centro di comando dell’FBI. Parla l’ispettore O’Day.»
«Qui è il Presidente» disse Fowler, ma non sarebbe stato necessario dirlo. Era una linea diretta e la spia sul pannello dell’FBI lo indicava chiaramente. «Chi è di servizio da voi?»
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«Sono Murray, Presidente, il vicedirettore. Al momento sono il funzionario di grado più elevato.»
«Come vanno le vostre comunicazioni?»
«Vanno bene, signore. Abbiamo accesso ai satelliti per telecomunicazioni militari.»
«Una cosa di cui dobbiamo preoccuparci è il possibile panico nazionale. Per impedire ciò, voglio che inviate i vostri uomini alle TV perché spieghino che nessuno deve trasmettere niente di tutto questo. Se sarà necessario, usate la forza.»
A Murray quella cosa non piaceva. «Signor Presidente, ma è contro…»
«Conosco la legge, no? Io sono stato un pubblico ministero. Ma in questo caso è necessario farlo per mantenere l’ordine e salvare la vita e sarà fatto, signor Murray. Questo è un ordine del Presidente. Obbedisca.»
«Sì, signore.»