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Rivelazione
«Dunque, cosa ha scoperto?»
«È un uomo molto interessante» rispose Goodley. «Ha fatto cose quasi incredibili, nella CIA.»
«Lo so. Quella faccenda del sommergibile e la defezione del capo del KGB. E
poi?» chiese Liz Elliot.
«È piuttosto benvoluto nella comunità internazionale dei servizi segreti, per esempio da Sir Basil Charleston in Inghilterra ― be’, è facile sapere perché lo apprezzano ― ma lo è anche nei paesi della NATO, specialmente in Francia.
Ryan si è trovato fra le mani qualcosa che ha permesso al DGSE di prendere un gruppo di Action Directe» spiegò Goodley. Si sentiva leggermente a disagio nel ruolo di informatore designato.
Al consigliere per la sicurezza nazionale non piaceva che la si facesse aspettare, ma, d’altronde, perché mettere fretta al giovane studioso? Sul suo viso apparve un sorriso beffardo. «Devo dedurne che lei comincia ad ammirare il nostro uomo?»
«Ha fatto degli ottimi lavori, ma ha anche commesso degli errori. Con le sue 280
previsioni sulla caduta della Germania Est e il processo di riunificazione è andato fuori strada.» Non aveva ancora imparato che era stato così per tutti.
Goodley aveva fatto, su questo problema, previsioni quasi del tutto esatte alla Kennedy School, e l’articolo che aveva pubblicato in una sconosciuta rivista era un altro dei motivi che l’avevano reso interessante per la Casa Bianca. Il ricercatore della Casa Bianca si interruppe.
«E…» lo sollecitò Elliot.
«E la sua vita personale contiene alcuni aspetti scomodi.»
Finalmente! «E cioè?»
«Ryan fu sottoposto a indagini da parte della commissione di controllo sulla borsa prima che assumesse l’incarico alla CIA, per verificare la possibilità che avesse negoziato certe azioni grazie alla conoscenza di informazioni riservate.
Sembra che vi fosse una società produttrice di programmi di informatica sul punto di ottenere un contratto con la Marina militare. Ryan lo seppe prima di chiunque altro e fece un colpo sensazionale. La commissione scoprì tutto ―
poiché anche gli stessi dirigenti della società furono oggetto di indagini ― ed esaminò i precedenti di Ryan. Lui se la cavò grazie a un particolare tecnico.»
«Si spieghi meglio» ordinò Liz.
«Per difendersi, i funzionari dell’azienda fecero in modo di fare pubblicare qualcosa in una rivista specializzata della Difesa, un trafiletto di dimensioni minime; ma fu sufficiente a dimostrare che le informazioni su cui loro e Ryan operavano erano tecnicamente di pubblico dominio. E questo rendeva l’operazione legale. La cosa più interessante è ciò che Ryan fece con il denaro dopo che il fatto aveva ottenuto l’attenzione generale. Lo prelevò dal conto di liquidazione che aveva come agente di cambio e lo trasferì dove si trova adesso, cioè in un conto fiduciario segreto che ha ora quattro diversi amministratori.»
Goodley s’interruppe. «Sa quanto è il patrimonio di Ryan ora?»
«No… quanto?»
«Oltre quindici milioni di dollari. È di gran lunga il più ricco funzionario della CIA. Le sue proprietà sono piuttosto sottostimate. Secondo me la cifra dovrebbe aggirarsi sui venti milioni, ma usa lo stesso metodo contabile di prima che entrasse a far parte della CIA; non si può criticarlo per questo. Cosa ne pensa, il patrimonio netto è un concetto abbastanza astratto, no? I contabili fanno le cose ognuno a modo proprio. Comunque, ciò che fece con quella somma piovuta dal cielo fu di portarla in un conto separato. Poi, qualche tempo fa, ha trasferito tutto in un fondo fiduciario per l’istruzione.»
«Per i suoi bambini?»
«No» rispose Goodley. «I beneficiari… anzi, andiamo per ordine: ha usato una parte del denaro per aprire un negozio di beni di consumo ― un 7-Eleven ― per una vedova e i suoi figli, il resto dei soldi è stato messo da parte in buoni del tesoro e in qualche azione blue-chip per l’istruzione dei ragazzi.»
«Lei chi è?»
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«Si chiama Carol Zimmer. È laotiana ed è vedova di un sergente dell’Aeronautica che fu ucciso in un incidente avvenuto durante un’esercitazione. Ryan segue l’intera famiglia. Ha addirittura lasciato l’ufficio ―
c’è la sua firma nel registro delle uscite ― per assistere alla nascita dell’ultimo figlio, una bambina per la precisione. Ryan visita la famiglia periodicamente»
concluse Goodley.
«Capisco.» In realtà non capiva, ma di solito si dice così. «Nessun collegamento professionale?»
«Veramente no. La signora Zimmer, come ho detto, è laotiana. Il padre era uno di quei capitribù che la CIA appoggiò contro il Vietnam del Nord. Tutto il suo gruppo fu spazzato via dalla guerra. Non ho scoperto come abbia fatto a fuggire. Sposò un sergente dell’Aeronautica ed emigrò in America. Lui è morto in un incidente ― la località non è indicata ― piuttosto recentemente. Non c’è nulla nel dossier di Ryan che dimostri che egli abbia avuto precedentemente alcun contatto con la famiglia. Forse è possibile una Laos Connection con la CIA, voglio dire ― ma Ryan non era ancora nei servizi governativi all’epoca; frequentava l’università e non era ancora laureato. Nel dossier non vi è nulla che mostri collegamenti di alcun tipo. Solo, un giorno, qualche mese prima delle ultime elezioni presidenziali, ha avviato questo fondo fiduciario e da allora fa visita alla famiglia in media una volta alla settimana. Ah, c’è un ultimo particolare.»
«Quale?»
«Ho fatto ricerche incrociate da un altro dossier. Ci sono stati dei problemi al 7-Eleven: alcuni punk locali davano fastidio alla famiglia Zimmer. La guardia del corpo personale di Ryan è un funzionario della CIA di nome Clark. È stato un ufficiale e ora è incaricato di proteggere Ryan. Non sono riuscito ad avere il suo dossier» spiegò Goodley. «Comunque, questo Clark ha evidentemente aggredito alcuni ragazzi della banda, mandandone uno all’ospedale. Ho controllato in un ritaglio di giornale. Ne hanno parlato alla televisione. Un breve servizio… cronaca locale. Clark e un altro della CIA ― il giornale li definisce funzionari federali, nessun riferimento alla CIA ― sarebbero stati apostrofati da quattro teppisti. Questo Clark dev’essere uno che sa il fatto suo: il capobanda ne è uscito con un ginocchio fratturato ed è stato ricoverato in ospedale, un secondo è stato buttato a terra e ha perso conoscenza, mentre gli altri se la sono fatta sotto e sono rimasti a guardare. I poliziotti della zona l’hanno considerato un normale problema di bande locali ― be’, ora non è più un problema. Non ci sono state accuse formali di alcun tipo.»
«Cos’altro sa su questo Clark?»
«L’ho visto un paio di volte. È uno grosso, fra i quaranta e i cinquanta, tranquillo; a dire la verità ha quasi l’aria di uno impacciato. Però… il modo in cui si muove ― sa qual è? Una volta andavo a lezione di karaté. L’istruttore era un ex dei Berretti verdi, un reduce del Vietnam, roba del genere. Lui si muove nello stesso identico modo. Si muove come un atleta, con scioltezza, senza sprecare 282
energia; ma la cosa più straordinaria sono i suoi occhi. Sono sempre in continuo movimento. Ti guarda da ogni lato per decidere se sei una potenziale minaccia o no…» Goodley fece una pausa. In quel momento capì che cosa era veramente Clark. Qualsiasi altra cosa fosse, Ben Goodley non era uno stupido, «…cioè uno pericoloso.»
«Cosa?» Liz Elliot non sapeva di che stesse parlando.
«Mi scusi. L’ho imparato dall’insegnante di karaté a Cambridge.
Quelli veramente pericolosi non sembrano pericolosi. Quando sono in un luogo chiuso non li si nota. Il mio insegnante è stato aggredito alla stazione della metropolitana di Harvard. Cioè, hanno cercato di aggredirlo. Ne ha lasciati tre sanguinanti sul marciapiede. Loro pensavano che fosse solo un bidello o qualcosa del genere ― è un afro-americano, di circa cinquant’anni, penso. Ha l’aria di un bidello o qualcosa del genere, per come si veste; di una persona innocua. E Clark è lo stesso, è proprio come il mio vecchio sensei…
Interessante» disse Goodley. «Be’, è un funzionario della Sicurezza e si suppone che quelli sappiano fare il loro mestiere. Secondo me Ryan ha scoperto che quei punk infastidivano la signora Zimmer e ha mandato la sua guardia del corpo a mettere a posto le cose. La polizia della contea l’ha considerato del tutto legittimo.»
«Conclusioni?»
«Ryan ha fatto degli ottimi lavori, ma ha anche fatto grossi errori.
Fondamentalmente è una creatura del passato. È ancora uno da guerra fredda.
Ha qualche problema con l’amministrazione, come quando, pochi giorni fa, lei non ha partecipato al gioco CAMELOT. Lui non pensa che lei prenda seriamente il suo incarico, pensa che non partecipare a quei giochi di guerra sia un comportamento irresponsabile.»
«L’ha detto lui?»
«Sono quasi le testuali parole; mi trovavo nella stanza con Cabot quando lui è entrato brontolando.»
Elliot scosse la testa. «Sono le parole di un guerriero da guerra fredda. Se il Presidente farà bene il suo lavoro e se io farò bene il mio, non vi sarà alcuna crisi da gestire. È questo il punto, no?»
«E fino a oggi sembra che abbiate fatto il vostro dovere» osservò Goodley.
Il consigliere per la sicurezza nazionale ignorò l’osservazione, passando a riguardare i suoi appunti.
I muri erano a posto, isolati con fogli di plastica contro gli agenti atmosferici.
L’impianto di aria condizionata era già in funzione; serviva a eliminare l’umidità e la polvere presenti nell’aria. Fromm era al lavoro sulle tavole della macchina utensile, anche se tavola era un termine troppo riduttivo. Erano infatti costruite per sostenere, ciascuna, diverse tonnellate e avevano dei martinetti a vite su ognuna delle robuste gambe di sostegno. Il tedesco stava regolando 283
l’orizzontalità di ciascuna macchina utilizzando le livelle a bolla d’aria incorporate nel telaio.
«Perfetto» disse, dopo tre ore di lavoro. Tutte le macchine dovevano essere perfettamente orizzontali. E ora lo erano. Sotto ognuna delle tavole c’era uno zoccolo di cemento armato alto un metro. Una volta orizzontali, le gambe furono imbullonate in modo che ogni macchina diventasse come parte del terreno.
«Gli utensili devono essere così rigidi?» chiese Ghosn. Fromm scosse la testa.
«Proprio al contrario. Gli utensili sono sospesi su un cuscino d’aria.»
«Ma ha detto che pesano più di una tonnellata ciascuno!» obiettò Qati.
«Tenerli sospesi su un cuscino d’aria è una cosa banale; avrà senz’altro visto fotografie di hovercraft che pesano cento tonnellate. Tenerli sospesi qui è necessario per smorzare le vibrazioni provenienti dal terreno.»
«Che tolleranza si deve raggiungere?» chiese Ghosn.
«Approssimativamente quella richiesta per un telescopio astronomico»
replicò il tedesco.
«Ma, le bombe originali…»
Fromm interruppe Ghosn. «Le bombe americane originali su Hiroshima e Nagasaki erano dei grossolani prototipi: sprecarono quasi tutta la massa di reazione, specialmente quella di Hiroshima ― oggi fabbricare un’arma così primitiva equivarrebbe a progettare una bomba con polvere pirica che, bruciando, agisce da detonatore.»
«In ogni caso, non si può utilizzare un progetto che comporta tali sprechi»
proseguì Fromm. «Dopo le prime bombe, gli ingegneri nucleari americani si trovarono di fronte al problema della limitatezza delle fonti di materiale fissile. I pochi chili di plutonio che abbiamo qui sono il materiale più costoso che esista al mondo. Gli impianti necessari per produrlo mediante bombardamento nucleare costano miliardi, più il costo aggiuntivo della separazione, il che significa altri impianti produttivi e, quindi, un altro miliardo. Solo l’America aveva i soldi per realizzare il progetto iniziale. Tutti nel mondo sapevano della fissione nucleare, non era un segreto; quali sono i veri segreti in fisica, eh? ―
ma solo l’America aveva il denaro e le risorse per fare il tentativo. E gli uomini»
aggiunse Fromm. «Che razza di uomini avevano a disposizione! Quindi, le prime bombe ― ne fecero tre, in realtà ― erano destinate a utilizzare tutto il materiale disponibile e poiché il criterio seguito era quello dell’affidabilità, le bombe erano sì grossolane, ma efficaci. E richiesero quindi il più grande aereo del mondo per trasportarle. Bene, alla fine la guerra fu vinta e la progettazione delle bombe divenne una questione da professionisti, non un progetto realizzato freneticamente in tempo di guerra, ja? Il reattore di plutonio che hanno a Hanford produceva a quel tempo solo poche decine di chili di plutonio all’anno, e gli americani dovettero imparare a utilizzare il materiale con meno sprechi. La bomba Mark-12 fu uno dei primi progetti davvero avanzati e gli israeliani lo 284
migliorarono notevolmente. Quella bomba ha una potenza pari a cinque volte quella dell’ordigno di Hiroshima con meno di un quinto della massa di reazione
― un miglioramento di efficienza di venticinque volte, ja? E possiamo migliorarlo di quasi un fattore dieci. Ora, un gruppo veramente esperto di progettisti, con le strutture adeguate, potrebbe ottenere un ulteriore miglioramento di un fattore… diciamo di un fattore quattro. Le moderne testate sono le più eleganti…»
«Due megatoni?» interruppe Ghosn. Possibile?
«Noi non possiamo farlo qui» disse Fromm, la voce velata da manifesto disappunto. «Le informazioni disponibili sono insufficienti. La teoria fisica alla base del progetto è chiara, ma ci sono problemi tecnici; e non abbiamo articoli pubblicati che possano aiutarci a progettare la bomba. Ricordiamoci che anche oggi vengono compiuti esperimenti sulle testate nucleari per rendere le bombe più piccole e più efficienti. In questo settore, come in qualsiasi altro, sono necessari esperimenti sul campo; ma noi non possiamo permettercelo. Né abbiamo il tempo o il denaro per addestrare dei tecnici a realizzare il progetto.
Io potrei tentare il progetto teorico di una bomba da più di un megatone, ma avrei solo una probabilità di successo del cinque per cento; forse un po’ più elevata, ma non sarebbe comunque realizzabile in pratica senza un adeguato programma di sperimentazione.»
«Che cosa può fare?» chiese Qati.
«Posso trasformare questa bomba in un’arma con un rendimento nominale fra i quattrocento e i cinquecento chilotoni. Avrà circa le dimensioni di un metro cubo e peserà approssimativamente cinquecento chili.» Fromm s’interruppe per leggere le espressioni dei loro volti. «Non sarà un ordigno elegante e sarà eccessivamente grande e pesante. Sarà anche molto potente.» Sarebbe stato un progetto molto più intelligente di qualsiasi cosa fossero riusciti a fare i tecnici americani e russi nei primi quindici anni di età nucleare, e quel risultato, pensò Fromm, non era affatto male.
«Contenimento dell’esplosivo?» chiese Ghosn.
«Sì.» Questo giovane arabo è molto intelligente, pensò Fromm. «Le prime bombe utilizzavano carcasse di acciaio massiccio. La nostra utilizzerà esplosivi
― ingombranti ma leggeri e altrettanto efficaci. Inietteremo il tritio nel nucleo al momento dell’accensione. Come nel progetto originale israeliano, in questo modo verranno generate grandi quantità di neutroni che avvieranno la fissione; questa reazione, a sua volta, immetterà ulteriori neutroni in un’altra riserva di tritio, causando una reazione di fusione. Il bilancio energetico è all’incirca cinquanta chilotoni dal primario e quattrocento dal secondario.»
«Quanto tritio ci vuole?» Pur non essendo una sostanza difficile da procurarsi in piccole quantità ― lo utilizzavano i produttori di orologi e di congegni di mira, anche se in quantità microscopiche ― Ghosn sapeva che quantitativi superiori a dieci milligrammi erano praticamente introvabili, come aveva già constatato di persona. Il tritio ― e non il plutonio, nonostante quel che aveva 285
detto Fromm ― era il materiale disponibile commercialmente più costoso del pianeta. Il tritio si sarebbe riusciti a procurarselo, ma non il plutonio.
«Io ne ho a disposizione cinquanta grammi» annunciò Fromm con compiacimento. «Molto più di quanto possiamo utilizzare in pratica.»
«Cinquanta grammi!» esclamò Ghosn. « Cinquanta?»
«La nostra fabbrica produceva materiale nucleare speciale per il progetto della nostra bomba. Quando il governo socialista cadde si decise di consegnare ai sovietici i] plutonio ― lealtà alla causa del socialismo mondiale, voi capite. I sovietici non la vedevano a quel modo. La loro reazione» ― Fromm fece una pausa ―- «loro la chiamavano… be’, lo lascio alla vostra immaginazione. La loro reazione fu così forte che decisi di nascondere la nostra produzione di tritio.
Come saprete, il suo valore commerciale è molto elevato ― potete considerarla la mia polizza assicurativa.»
«Dov’è?»
«Nella cantina di casa mia, nascosto dentro alcune batterie al nichel-idrogeno.»
A Qati questa notizia non piacque, nemmeno un po’. Il comandante arabo non era un uomo buono, il tedesco se ne era reso conto, e questo non lo aiutò a nascondere i suoi sentimenti.
«In ogni caso devo tornare in Germania per prendere le macchine utensili»
disse.
«Le ha lei?»
«A cinque chilometri da casa mia c’è l’istituto di astrofisica Karl Marx. In teoria dovevamo costruirvi dei telescopi astronomici, telescopi visivi e a raggi X. Ma, ahimè, la produzione non è mai iniziata. Che spreco per una “copertura”
così perfetta, no? Nel laboratorio delle macchine, all’interno di casse di legno che all’esterno portano la scritta APPARECCHIATURE PER ASTROFISICA, ci sono sei macchine a cinque assi ad alta precisione ― della qualità migliore» osservò Fromm con un ghigno lupesco. «Cincinnati Milacron, dagli Stati Uniti d’America. Esattamente quelle che gli americani usano nei loro impianti di produzione di Oak Ridge, Rocky Flats e Pantex.»
«E gli operatori?» chiese Ghosn.
«Ne stavamo addestrando venti, sedici uomini e quattro donne, tutti laureati…
No, sarebbe troppo pericoloso. In ogni caso non è del tutto necessario. Le macchine sono facili da usare. Potremmo lavorare noi stessi, ma richiederebbe troppo tempo. Un qualsiasi operaio specializzato nella fabbricazione delle lenti
― anche un mastro armaiolo, per la verità ― saprebbe farle funzionare. Ciò che cinquant’anni fa era un lavoro per premi Nobel è ora il lavoro di un operaio specializzato» disse Fromm. «È questo il progresso, non è vero?»
«Potrebbe essere così, ma al tempo stesso potrebbe non esserlo» disse Jevgenij. Era in servizio da venti ore esatte e solo sei ore di sonno irregolare lo 286
separavano da un altro incarico, che sarebbe durato più del precedente.
Trovarlo, «e quello era davvero ciò che avevano fatto, aveva richiesto tutta l’abilità di Dubinin. Egli aveva pensato che il sommergibile lanciamissili americano si fosse diretto a sud e che la sua velocità di crociera fosse dell’ordine di cinque nodi. Poi venivano considerazioni di carattere ambientale. Aveva dovuto stargli vicino, entro l’area di cammino diretto, facendo attenzione a non portarsi in una zona di convergenza del sonar. Le zone di convergenza erano arco ad anello ― somiglianti a ciambelle ― intorno a una nave. Il suono che andava verso il basso partendo da un punto all’interno della zona di convergenza veniva riflesso dalla temperatura e dalla pressione dell’acqua, e si muoveva avanti e indietro verso la superficie lungo un percorso elicoidale a intervalli semiregolari che, a loro volta, dipendevano dalle condizioni ambientali.
Standone al di fuori, con riferimento al punto in cui pensava che fosse il suo bersaglio, egli poteva sfuggire a un mezzo di individuazione. Fare questo significava che avrebbe dovuto stare entro la distanza teorica di cammino diretto, l’area in cui il suono si muoveva semplicemente in direzione radiale dalla sua sorgente. Per ottenere quel risultato senza individuazione, egli doveva rimanere nella parte superiore dello strato termoclino ― immaginava che l’americano sarebbe rimasto sotto tale strato ― permettendo al suo sonar a schiera trainato di rimanere sospeso al di sotto. In questo modo i rumori del suo impianto motore sarebbero stati probabilmente deflessi dal sommergibile americano.
Il problema tattico di Dubinin stava nei suoi svantaggi. Il sommergibile americano era più silenzioso del suo e possedeva sia migliori sonar che migliori operatori sonar. Il tenente di vascello Jevgenij Nikolajevič Rjskov era un giovane ufficiale molto valido, ma era l’unico esperto di sonar a bordo che potesse stare alla pari con il suo omologo americano, e il ragazzo si stava esaurendo in turni di servizio massacranti. L’unico vantaggio del capitano Dubinin risiedeva in se stesso. Era un abile tattico e sapeva di esserlo; mentre l’americano non lo era, pensava Dubinin, e non sapeva di non esserlo.
Infine, c’era un ultimo svantaggio. Stare nella parte superiore dello strato rendeva più probabile la sua individuazione da parte di un aereo americano di pattuglia, ma Dubinin era disposto a correre quel rischio. Ciò che lo aspettava era un traguardo quale nessun comandante di sommergibile russo aveva mai conquistato.
Sia il capitano che il tenente osservavano un’immagine a “cascata”, guardando non un lampeggiare di luce, ma piuttosto una linea verticale, non continua e scarsamente visibile, che non era luminosa quanto avrebbe dovuto essere. Il classe Ohio americano era più silenzioso del rumore di fondo dell’oceano ed entrambi gli uomini si chiesero se le condizioni ambientali non stessero mostrando loro l’ombra acustica di quello che era il più sofisticato dei sommergibili lanciamissili. Era altrettanto probabile, pensò Dubinin, che la fatica stesse giocando brutti scherzi alle loro menti facendogli vedere cose che 287
erano in realtà allucinazioni.
«Ci serve un segnale di picco» disse Rjskov, allungandosi a prendere la tazza di tè. «Un attrezzo lasciato cadere, un boccaporto chiuso con violenza… un errore, un errore…»
Potrei emettere un suono… potrei abbassarmi al di sotto dello strato, colpirlo con un’esplosione di energia del sonar e scoprire… NO! Rjskov si allontanò e imprecò quasi contro se stesso. Pazienza, Valentin. Loro sono pazienti, e dobbiamo esserlo anche noi.
«Jevgenij Nikolajč, ha l’aria stanca.»
«Mi riposerò a Petropavlovsk, capitano. Dormirò per una settimana e starò con mia moglie ― be’, non dormirò solamente, quella settimana» disse, con un sorriso stremato. Il volto del tenente era illuminato dal bagliore giallo dello schermo. «Ma non lascerò un’occasione come questa!»
«Non ci saranno picchi accidentali nel segnale.»
«Lo so, capitano. Quei maledetti equipaggi americani… Lo so che è lui, lo so che è un Ohio! Cos’ altro potrebbe essere?»
«Tutta immaginazione, Jevgenij; immaginazione e un gran desiderio da parte nostra.»
Il tenente Rjskov si voltò. «Penso che il mio capitano sappia come vanno queste cose!»
«Penso che il mio tenente abbia ragione.» Che incredibile gioco è mai questo!
Due sommergibili uno contro l’altro; due cervelli uno contro l’altro. E il gioco degli scacchi in tre dimensioni, in un ambiente fisico che muta continuamente.
E gli americani erano i maestri del gioco; Dubinin lo sapeva. Migliori apparecchiature, migliori equipaggi, migliori addestramenti. Naturalmente, anche gli americani sapevano questo e due generazioni di vantaggio avevano generato arroganza piuttosto che innovazione… non in tutti, ma in alcuni certamente. Un comandante intelligente in un sommergibile lanciamissili avrebbe agito diversamente… Se io avessi un sommergibile come quello, il mondo intero non riuscirebbe a scovarmi! «Altre dodici ore e poi dovremo interrompere il contatto e tornarcene a casa.»
«Peccato» osservò Rjskov, senza pensarlo. Sei settimane di mare erano sufficienti per lui.
«Portarsi a profondità di uno-otto metri» disse l’ufficiale di coperta.
«Mi porto a profondità di uno-otto metri» replicò l’ufficiale di immersione.
«Dieci gradi verso l’alto sui piani di carenatura.»
L’esercitazione di lancio dei missili era appena cominciata. Si trattava di un’operazione di routine che serviva sia ad assicurare la competenza dell’equipaggio che a renderlo psicologicamente meno sensibile alla sua missione primaria di combattimento, il lancio di ventiquattro missili UGM-93
Trident-II-D-5, ciascuno con dieci vettori di ricaduta Mark 5 da 400 chilotoni di 288
potenza nominale. Per un totale di duecentoquaranta testate con una potenza netta totale di 96 megatoni. Ma c’era di più, poiché le armi nucleari dipendevano dalla logica interattiva di diverse leggi fisiche. Le armi piccole sfruttavano la loro potenza con efficienza maggiore di quelle grandi. La cosa più importante di tutte era che i vettori di ricaduta Mark 5 avevano una precisione dimostrata di
±50 metri di CEP (“errore circolare probabile”), il che voleva dire che dopo un volo di oltre quattromila miglia nautiche, la metà delle testate sarebbe atterrata entro 50 metri di distanza dai loro bersagli e quasi tutte le altre entro 91 metri.
La distanza dello “scostamento” era molto minore del cratere che avrebbe prodotto una simile testata e, di conseguenza, il missile D-5 era il primo missile balistico montato su sommergibile con capacità di risposta. Era progettato per effettuare un primo colpo determinante. Dato il consueto rapporto degli obiettivi di due a uno, il Maine poteva eliminare centoventi missili sovietici e/o bunker per il controllo di missili, all’incirca il dieci per cento dell’attuale forza sovietica in termini di missili balistici intercontinentali, forza che era essa stessa configurata per una missione di risposta.
Nel centro di controllo missili ― il CCM ― a poppa della sala missili, dall’aspetto cavernoso, un sottufficiale capo di vascello illuminò il proprio pannello. Tutti i ventiquattro missili erano in linea. Le apparecchiature di navigazione a bordo facevano giungere i dati in ogni sistema guida missili. I dati sarebbero stati aggiornati dopo qualche minuto dai satelliti di navigazione. Per colpire un bersaglio, il missile doveva sapere non solo dove si trovava il bersaglio, ma anche da dove partiva il missile stesso. Il sistema di posizionamento globale NAVSTAR era in grado di farlo con una tolleranza di meno di cinque metri. Il sottufficiale capo osservò i cambiamenti che avvenivano fra le spie luminose di stato mentre i missili venivano interrogati dai suoi computer e segnalavano il loro stato di pronti al lancio.
Intorno al sommergibile, la pressione dell’acqua sullo scafo diminuiva di 3,1
tonnellate per metro quadrato per ogni 30 metri di salita verso la superficie. Lo scafo del Maine si allargò leggermente mentre la pressione veniva meno e vi fu una minima quantità di rumore a mano a mano che l’acciaio attraversava una fase di rilassamento dopo la compressione.
Fu solo uno scricchiolìo, quasi nemmeno udibile anche attraverso i sistemi sonar, e simile al richiamo seducente di una balena. Rjskov era talmente ubriaco di fatica che non l’avrebbe sentito, se fosse giunto qualche minuto più tardi, ma nonostante stesse quasi entrando in un dormiveglia, la sua mente aveva mantenuto sufficiente lucidità per prendere nota del suono.
«Capitano… rumore di uno scafo in decompressione… proprio là!» Il suo dito si incollò allo schermo nella parte bassa dell’ombra che lui e Dubinin avevano esaminato fino a quel momento. «Sta venendo a galla.»
Dubinin corse nella sala controllo. «Pronti a cambiare profondità.» Indossò una cuffia che lo mise in collegamento con il tenente Rjskov.
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«Jevgenij Nikolajč’, è un’operazione da eseguire bene e in fretta: scenderò sotto lo strato proprio nel momento in cui l’americano si porta al di sopra…»
«No, capitano, può aspettare. Il suo sonar sarà sospeso sotto di loro per qualche tempo, proprio come farebbe il nostro!»
«Maledizione!» Dubinin stava per scoppiare in una risata. «Mi perdoni, tenente. Per questo avrà una bottiglia di Starka.» Che era la migliore vodka russa.
«Mia moglie e io berremo alla sua salute… Ho una lettura dell’angolo…
Bersaglio stimato cinque gradi di depressione dal nostro sonar… Capitano, se riesco a tenerlo, il momento in cui lo perderemo attraverso lo strato…»
«Sì, subito una stima della distanza!» Sarebbe stata approssimativa, ma almeno era qualcosa. Dubinin diede bruscamente ordini al suo ufficiale di rilevazione.
«Due gradi… i rumori dello scafo sono terminati… è molto difficile tenerlo ma ora sta nascondendo ancora un po’ lo sfondo – SPARITO! Ora è già oltre lo strato!»
«Uno, due tre…» contò Dubinin. Gli americani erano probabilmente nel bel mezzo di una esercitazione missilistica, oppure stavano risalendo per ricevere comunicazioni; in ogni caso, egli sarebbe andato a venti metri di profondità e il suo sonar… lungo cinquecento metri… velocità cinque nodi, e… Ora!
«Barra sotto cinque gradi sui piani di prua. Stiamo spostandoci proprio al di sotto dello strato. Starpom, prenda nota della temperatura esterna dell’acqua.
Piano, barra, piano…»
Lo scafo dell’ Ammiraglio Lunin si immerse e scivolò al di sotto del bordo ondulato che segnava la differenza fra la superficie relativamente calda e l’acqua profonda a temperatura più bassa.
«Distanza?» chiese Dubinin all’ufficiale di rilevazione.
«Stimata fra i cinque e i novemila metri, capitano! Il meglio che io possa fare con questi dati.»
«Ben fatto, Kolja! Splendido.»
«Siamo sotto lo strato, ora; temperatura dell’acqua diminuita di cinque gradi!»
annunciò lo starpom.
«Piani di prua a zero, a livello.»
«Piani a zero, capitano… nave ad angolo zero.»
Se avesse avuto un po’ di spazio in più al di sopra della testa, Dubinin avrebbe fatto salti di gioia: aveva fatto quello che nessun altro comandante sovietico di sommergibile ― e, se le informazioni che gli avevano fornito i servizi segreti erano esatte, solo pochissimi degli americani ― era mai riuscito a fare. Aveva stabilito un contatto e aveva localizzato un sommergibile americano lanciamissili balistici della classe Ohio. In caso di guerra sarebbe stato in grado di sparare impulsi di determinazione con il suo sonar attivo e di lanciare i siluri.
In quel momento era sufficientemente vicino per mettere a segno un colpo. La 290
sua pelle fremette per l’eccitazione del momento. Nulla al mondo poteva eguagliare quella sensazione. Assolutamente nulla.
« Rjl neprava» disse subito dopo. «Timone a dritta, nuova rotta tre-zero-zero.
Aumentare gradatamente la velocità fino a dieci nodi.»
«Ma, capitano…» disse il suo starpom, secondo ufficiale.
«Stiamo rompendo il contatto. Continuerà questa esercitazione per almeno trenta minuti. È molto improbabile che possiamo sfuggire a una controlocalizzazione quando l’avrà terminata. È meglio andarsene ora. Non vogliamo che sappia cosa abbiamo fatto. Lo incontreremo di nuovo. In ogni caso, la nostra missione è compiuta. L’abbiamo localizzato e gli siamo andati abbastanza vicino per lanciare o attaccare. A Petropavlovsk avremo tutti i motivi per brindare, uomini, e offrirà il vostro capitano! Ora andiamocene dalla zona tranquillamente, in modo che nemmeno si accorga che siamo stati qui.»
Il capitano Robert Jefferson Jackson avrebbe desiderato essere più giovane e che i suoi capelli fossero ancora completamente neri; avrebbe voluto poter essere di nuovo un giovane “nugget” appena uscito da Pensacola, ansioso di fare il suo primo volo su uno dei minacciosi caccia appollaiati come enormi uccelli rapaci lungo la linea di volo della stazione aeronavale di Oceana. Il fatto che tutti quei ventiquattro Tomcat F-14D lì vicino fossero i suoi non dava la stessa soddisfazione che il sapere che uno di essi era suo e suo solamente. Invece, come comandante del gruppo aereo, egli “possedeva” due squadre di Tomcat più altri due di Hornet F/A-18, una di Intruder A-6E, un aereo di attacco a medio raggio, un’altra di S-3 cacciasommergibili e infine i meno attraenti aerei cisterna, i Prowler per la guerra elettronica e gli elicotteri da salvataggio ASW.
Un totale di settantotto aerei per un valore complessivo di… quanto? Un miliardo di dollari? Molto di più, considerando le spese per i ricambi. Poi c’erano i tremila uomini che pilotavano e che provvedevano alla manutenzione degli aerei, il prezzo dei quali era ovviamente oltre ogni valore immaginabile.
Egli era il responsabile di tutto questo. Era molto più divertente essere un nuovo pilota di caccia che volava sul suo aereo personale e lasciava tutti i problemi all’amministratore. E ora, Robby era l’amministratore, quello di cui i ragazzi parlavano fra loro nelle cabine della nave. A loro non piaceva essere convocati nel suo ufficio, perché era come andare dal principale. E non gradivano volare con lui perché A) era troppo vecchio per esservi ancora adatto (pensavano loro), e B) diceva loro tutto quello che secondo lui facevano di sbagliato (i piloti dei caccia non ammettono volentieri i propri errori, tranne che fra di loro).
In tutto questo c’era una certa ironia. Il suo precedente incarico era stato al Pentagono, con mansioni di ufficio. Aveva pregato e desiderato ardentemente di essere rimosso da quell’incarico, nel quale l’avvenimento più eccitante della giornata era trovare un posto decente nel parcheggio. Poi aveva preso il comando della sua aerobrigata ― ed era stato sommerso da una quantità di maledetti incarichi amministrativi quale non aveva mai visto in vita sua. Almeno 291
doveva volare due volte alla settimana… se era fortunato. Oggi era uno di quei giorni. Il suo sottufficiale addetto al comando gli sorrise mentre usciva dalla porta.
«Tieni d’occhio il negozio, capo.»
«Ricevuto, capitano. Sarà ancora qui quando ritorna.»
Jackson si fermò dov’era. «Però potresti trovare qualcuno che rubi tutte quelle cartacce.»
«Vedrò quello che posso fare, signore.»
Un’auto di servizio lo portò fino alla linea di volo. Jackson indossava già la sua divisa di volo, una vecchia divisa maleodorante dal colore grigioverde, ormai sbiadita per i troppi lavaggi e lisa sui gomiti e sul sedere per i lunghi anni di uso. Egli avrebbe potuto, e in realtà avrebbe dovuto, procurarsene una nuova, ma i piloti sono creature superstiziose; Robby e quella tuta avevano fatto insieme un sacco di strada.
«Ehi, capitano!» chiamò uno dei comandanti di squadra. Il comandante “Bud”
Sanchez era più basso di Jackson. La sua carnagione olivastra e i suoi baffi alla Bismarck mettevano in rilievo i suoi occhi luminosi e il sorriso che sembrava spuntare dallo spot di un dentifricio. L’ufficiale comandante del VF-1 Sanchez avrebbe comandato l’aerobrigata di Jackson per quel giorno. Avevano volato insieme all’epoca in cui Jackson comandava il VF-41 sopra il John F. Kennedy.
«Il tuo aereo è a posto. Sei pronto a dare la caccia a qualche imbecille?»
«Chi fa il nemico, oggi?»
«Delle teste calde di Cherry Point su dei 18-Delta. Abbiamo un Hummer già in giro a centosessanta chilometri e l’esercitazione è BARCAP contro apparecchi di disturbo a bassa quota.» BARCA? significava ronda aerea di sbarramento. La missione consisteva nell’impedire che gli aerei attaccanti attraversassero una determinata linea. «Sei all’altezza di ACM pesanti? Quei Marines sembrava che volessero alzare un po’ la cresta al telefono.»
«Il Marine che io non riesco a prendere deve ancora nascere» disse Robby, indossando il casco che portava il nome con il quale veniva chiamato via radio:
“Picche”.
«Ehi, radaristi» chiamò Sanchez, «smettetela di tenervi per mano e andiamo!»
«Eccoci, “Bud”.» Michael “Lobo” Alexander uscì da dietro gli armadietti, seguito dall’ufficiale di Jackson per l’intercettazione radar, Henry Walters, detto
“Grattugia”. Entrambi sotto i trenta, entrambi tenenti. Negli spogliatoi ci si chiamava con i nomi usati nel traffico radio, anziché con i gradi. Robby amava il cameratismo della vita di squadra tanto quanto amava il proprio paese.
All’esterno, i sergenti maggiori responsabili della manutenzione degli aerei conducevano gli ufficiali fino ai rispettivi aerei e li aiutavano a salire a bordo.
(Nell’area pericolosa del ponte di decollo di una portaerei i piloti vengono accompagnati quasi per mano da soldati semplici, perché non si perdano o feriscano.) L’aereo di Jackson aveva sul muso un numero identificativo con due 292
zeri. Sotto l’abitacolo era dipinta la scritta CAP. R.J. JACKSON PICCHE per fare in modo che tutti sapessero che quello era l’aereo del comandante del gruppo aereo. Sotto la scritta c’era una bandiera rappresentante un caccia Mirage che, non molto tempo prima, un iracheno aveva spinto per errore troppo vicino al Tomcat di Jackson. Non c’era stato molto da fare - l’altro pilota aveva dimenticato, per una volta, di controllare il suo “sei” e ne aveva pagato il prezzo
― ma un aereo abbattuto era un aereo abbattuto, ed era quello il motivo per cui vivevano i piloti dei caccia.
Cinque minuti dopo, i quattro uomini si allacciavano le cinture e i motori erano in funzione.
«Come va oggi, “Grattugia”?» chiese Jackson sull’ intercom.
«Pronti per distruggere qualche Marine, capitano. Sembra che vada bene, qui dietro. Volerà quest’aggeggio stamattina?»
«Penso sia venuto il momento di scoprirlo.«Jackson commutò su “radio”.
«“Bud”, qui “Picche”, sono pronto.»
«Ricevuto, “Picche”, a te il comando.» I due piloti si guardarono intorno, ricevettero un via libera dai loro capitani di volo e si guardarono nuovamente intorno.
«“Picche” al comando.» Jackson staccò i freni. «Rollio.»
«Ciao, tesoro» disse Manfred Fromm a sua moglie.
Traudl gli corse incontro e l’abbracciò. «Dove sei stato?»
«Questo non posso dirlo» rispose Fromm, con un’occhiata d’intesa. Poi si mise a canticchiare fra sé: « Don’t cry for me, Argentina. »
«Sapevo che avresti capito» gli sorrise Traudl.
«Non ne dovrai parlare a nessuno.» Per confermarle il sospetto le riempì le mani di banconote, cinque mazzette da diecimila marchi ciascuna. Questi dovrebbero fare felice e tranquillizzare la mia strega mercenaria, si disse Manfred Fromm. «E starò qui solo per la notte. Avevo un lavoro da finire e naturalmente,..»
«Naturalmente, Manfred.» E lo abbracciò di nuovo, tenendo le banconote fra le mani. «Se solo avessi telefonato!»
Prendere accordi era stato talmente facile da sembrare assurdo. Una nave diretta a Latakia, in Siria, sarebbe salpata da Rotterdam settanta ore più tardi.
Lui e Bock avevano preso accordi con una società di trasporti perché le macchine utensili venissero caricate su di un piccolo container che sarebbe stato a sua volta caricato sulla nave e portato fino a una banchina del porto siriano, sei giorni dopo. Sarebbe stato più veloce spedire le macchine per via aerea, oppure in treno fino a un porto greco o italiano perché il tragitto via mare fosse più veloce, ma Rotterdam era il porto con il traffico di merci più grande del mondo, con funzionari doganali costretti a turni massacranti il cui principale compito era quello di trovare carichi di stupefacenti. I cani antidroga saltarono 293
quel particolare container, con loro grande sollievo.
Fromm lasciò che sua moglie andasse in cucina a fare il caffè. Ci sarebbero voluti alcuni minuti, ed era tutto ciò che gli serviva. Scese in cantina.
Nell’angolo, il più lontano possibile dallo scaldabagno, c’era una pila ordinata di legna in cima alla quale si vedevano quattro scatole di metallo nero. Pesavano ciascuna circa dodici chili. Fromm le portò via una alla volta ― al secondo giro prese dal cassetto del suo ufficio un paio di guanti per proteggere le mani ― e le mise nel bagagliaio della BMW presa a nolo. Quando il caffè fu pronto lui aveva già terminato l’operazione.
«Hai una bella abbronzatura» osservò Traudl, uscendo dalla cucina con il vassoio. Col pensiero aveva già speso circa un quarto del denaro che il marito le aveva portato. Dunque Manfred aveva capito cosa era giusto. Sapeva che lo avrebbe fatto, prima o poi. Naturalmente, meglio prima. Sarebbe stata particolarmente gentile con lui, quella sera.
«Günther?»
A Bock non piaceva lasciare Fromm libero di agire come voleva, ma anche lui aveva un compito da eseguire. E il compito implicava un rischio molto maggiore. Era, si disse, un piano operativo ad alto rischio, anche se i veri pericoli stavano nella fase di progettazione; la cosa era strana, ma al tempo stesso consolante.
Erwin Keitel viveva della sua pensione e di questo non era particolarmente contento. La sua necessità gli veniva da due fatti. Primo, era un ex tenente colonnello della Stasi della Germania Est, la divisione di spionaggio e controspionaggio della defunta Repubblica Democratica Tedesca; secondo, nei suoi trentadue anni di carriera aveva amato il suo lavoro. Nonostante la maggior parte dei suoi ex colleghi avessero riconosciuto i cambiamenti nel loro paese e avessero in gran parte messo la loro identità di tedeschi prima di qualsiasi ideologia che potessero aver sostenuto in passato ― e avessero detto al Bundes Nachrichten Dienst, il servizio segreto della Germania federale, letteralmente tutto quello che sapevano ― Keitel aveva deciso che non avrebbe lavorato per i capitalisti. Questo lo rendeva uno dei cittadini “politicamente disoccupati” della Germania unita. La sua pensione era una questione di convenienza. Il nuovo governo tedesco onorava, alla meglio, le obbligazioni già esistenti all’epoca del precedente governo. Era, perlomeno, opportuno dal punto di vista politico e ciò che ora la Germania era diventata era un quotidiano scontrarsi contro fatti non armonizzati e non armonizzabili. Era più facile dare una pensione a Keitel piuttosto che lasciarlo con il sussidio ufficiale di disoccupazione, ritenuto più umiliante della pensione. Questo, almeno, pensava il governo. Keitel non vedeva le cose esattamente allo stesso modo. Se il mondo aveva un senso, pensava, lo avrebbero giustiziato, o mandato in esilio ― anche se non aveva idea di dove lo si sarebbe potuto esiliare. Aveva cominciato a prendere in considerazione la possibilità di passare ai russi ― aveva avuto dei buoni contatti 294
nel KGB ― ma quel pensiero era presto svanito. I sovietici si erano lavate le mani di tutto quanto era collegato alla RDT, temendo tradimenti da un popolo la cui fedeltà al socialismo ― o che diavolo di ideologia propugnassero ora i russi, Keitel non ne aveva idea ― era inferiore, in qualche modo, alla fedeltà al loro nuovo paese. Keitel si sedette di fianco a Bock entro un separé di una tranquilla trattoria di quella che era stata un tempo Berlino Est. «È molto pericoloso, amico mio.»
«Ne sono consapevole, Erwin.» Bock ordinò con un cenno due boccali di birra da un litro. Le cameriere di servizio ai tavoli erano più rapide di quanto non fossero qualche anno prima, ma i due uomini non diedero importanza al fatto.
«Non so dirti quello che provo per quanto hanno fatto a Petra» disse Keitel, dopo che la ragazza se ne fu andata.
«Sai come sono andate le cose esattamente?» chiese Bock, con un tono di voce uniforme e privo di emozioni.
«L’investigatore che conduceva il caso l’ha visitata in prigione ― lo faceva molto spesso ― non per interrogarla. Stavano facendo ogni sforzo per spingerla fino al limite. Devi capire, Günther, il coraggio, in un uomo o in una donna, è una qualità che ha misura finita. Non è stata debolezza da parte sua. Chiunque può spezzarsi, è semplicemente questione di tempo. L’hanno guardata morire»
disse il colonnello in pensione.
«Oh?» L’espressione di Bock non cambiò, ma le nocche della mano che reggeva il manico del boccale divennero bianche.
«C’era una telecamera nascosta nella cella. Hanno il suo suicidio registrato su un nastro. L’hanno guardata farlo; e non hanno mosso un dito per fermarla.»
Bock non disse nulla e la luce che illuminava la sala era troppo fioca perché si potesse vedere quanto era impallidito. Fu come se fosse stato investito dalla vampata calda uscita da un forno seguita da un’altra proveniente dal Polo Nord.
Chiuse gli occhi per un breve istante per riprendere il controllo di se stesso.
Petra non avrebbe voluto che egli si lasciasse dominare dalle emozioni in un momento come quello. Aprì gli occhi per guardare il suo amico.
«È vero?»
«Conosco il nome dell’investigatore. E conosco il suo indirizzo. Ho ancora degli amici.»
«Sì, Erwin, ne sono sicuro. Mi serve il tuo aiuto per fare una cosa.»
«Qualsiasi cosa.»
«Tu sai, naturalmente, che cosa ci ha condotto fin qui.»
«Dipende da come la vedi» disse Keitel. «Sono stato deluso dalla gente per il modo in cui si è lasciata sedurre, ma alla gente comune manca sempre la disciplina per sapere cosa è bene per lei. Il vero motivo della sventura della nostra nazione…»
«Esattamente, gli americani e i russi.»
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« Mein lieber Günther, nemmeno una Germania unita può…»
«Sì, può. Se dobbiamo riplasmare il mondo a nostra immagine, Erwin, entrambi i nostri oppressori devono essere danneggiati in profondità.»
«Ma come?»
«Esiste un modo. Puoi credere in me fino a questo punto, solo per un momento?»
Keitel vuotò il boccale e si sedette più comodamente. Aveva contribuito ad addestrare Bock. Cinquantasei anni erano troppi per cambiare le sue idee del mondo, ed egli aveva ancora un sottile intuito per giudicare i caratteri. Bock era un uomo come lui. Günther era stato un clandestino prudente, spietato e molto efficiente.
«E il nostro amico detective?»
Bock scosse la testa. «Per la soddisfazione che posso ottenerne… no. Non è questo il momento della vendetta personale. Abbiamo un movimento e un paese da salvare.» Più d’uno, in realtà, pensò Bock, ma non era il momento per quello.
Ciò che stava prendendo forma nella sua mente era un’azione grandiosa, una manovra mozzafiato che poteva ― era intellettualmente troppo onesto per dire avrebbe cambiato anche solo a se stesso ― cambiare il mondo, facendogli assumere un aspetto più plasmabile. Cosa sarebbe accaduto dopo, esattamente, chi poteva dirlo? Questo non avrebbe avuto affatto importanza, se lui e i suoi compagni non fossero stati in grado di compiere il primo, coraggioso passo.
«Da quanto tempo ci conosciamo ― quindici anni, venti?» Keitel sorrise.
« Aber natürlich. Naturalmente posso fidarmi di te.»
«Di quanti altri possiamo fidarci?»
«Quanti ce ne servono?»
«Non più di dieci, ma ci serviranno nel complesso dieci persone.»
Keitel impallidì. Otto uomini di cui possiamo fidarci completamente… ?
«È troppo per mantenere la sicurezza, Günther. Che tipo di uomini dovrebbero essere?» Bock glielo disse. «So dove dobbiamo cominciare.
Dovrebbe essere possibile… uomini della mia età… e alcuni più giovani, della tua età. Le abilità fisiche che richiedi non sono difficili da ottenere, ma ricorda che molto di tutto questo va oltre il nostro controllo.»
«Come dicono alcuni miei amici, è tutto nelle mani di Dio» disse Günther con un ghigno.
«Barbari» sbuffò Keitel. «Non mi sono mai piaciuti.» « Ja, dock, non permettono nemmeno che un uomo beva una birra» Bock sorrise. «Ma sono forti, Erwin, sono determinati; e sono fedeli alla causa.»
«Di quale causa parli?»
«Di una che in questo momento noi due stiamo condividendo. Quanto tempo ti serve?»
«Due settimane. Mi puoi contattare…»
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«No.» Rock scosse la testa. «Troppo rischioso. Puoi viaggiare? Ti controllano?»
«Controllare me? Tutti i miei subordinati hanno cambiato fede, e il BND sa che il KGB non vorrà più avere nulla a che fare con me. Non sprecheranno denaro per farmi pedinare. Sono un animale castrato, capisci?»
«Eccoti la borsa, allora, Erwin.» Bock gli diede del contante. «Ci vediamo fra due settimane a Cipro. Accertati di non essere seguito.»
«Lo farò ― va bene. Non ho dimenticato in che modo, amico mio.»
Fromm si svegliò all’alba. Si vestì senza fretta, cercando di non svegliare Traudl. Nelle ultime dodici ore era stata moglie più di quanto lo fosse stata negli ultimi dodici mesi, e la sua coscienza gli disse che se il loro matrimonio era quasi fallito non era solo colpa di lei. Fu sorpreso di trovare, sulla tavola, la colazione ad attenderlo.
«Quando tornerai?»
«Non lo so di preciso. Forse diversi mesi.»
«Così tanto?»
«Tesoro, il motivo per cui vado là è che hanno bisogno delle mie conoscenze e mi pagano bene.» Mentalmente si fece l’appunto di chiedere a Qati di inviare ulteriori fondi. Fintante che sarebbe arrivato del denaro lei non sarebbe diventata nervosa.
«Non posso venire anch’io?» chiese Traudl, mostrando sincero affetto per il marito.
«Non è un posto adatto a una donna.» La sua risposta era sufficientemente onesta da permettere alla sua coscienza di rilassarsi un po’. Manfred finì il caffè.
«Devo andare.»
«Torna più presto che puoi.»
Manfred Fromm baciò la moglie e uscì. La BMW non risentiva in alcun modo dei cinquanta chili di peso nel bagagliaio. Salutò Traudl con la mano un’ultima volta, prima di allontanarsi definitivamente. Diede un’occhiata alla casa, inquadrata nello specchietto retrovisore, pensando che poteva non rivederla mai più ― una previsione che doveva rivelarsi esatta.
La sua prima tappa fu l’istituto di astrofisica Karl Marx. Gli edifici a un piano solo mostravano già segni di abbandono e lo sorprese il fatto che i teppisti non avessero infranto le finestre. Il camion era già lì. Fromm usò le sue chiavi per entrare nel laboratorio. Le macchine erano ancorali, in casse sigillate ermeticamente e ancora marcate con la scritta APPARECCHIATURE PER
ASTROFISICA. Si trattava solo di firmare alcuni moduli che aveva scritto a macchina il pomeriggio precedente. L’autista del camion sapeva adoperare il carrello elevatore e caricò tutte le casse nel container. Fromm prese le batterie dal bagagliaio e le mise in un’ultima, piccola scatola che venne caricata alla fine.
L’autista impiegò mezz’ora per legare le casse, quindi si mise in strada. Aveva 297
appuntamento di nuovo con Herr Professor Fromm alle porte di Rotterdam.
Fromm incontrò Bock a Griefswald. Di lì proseguirono verso ovest sull’auto di Bock, che era un buon guidatore.
«Come è andata a casa?»
«A Traudl ha fatto un enorme piacere ricevere il denaro» raccontò Fromm.
«Gliene manderemo dell’altro, a intervalli regolari… ogni due settimane, penso.»
«Molto bene. Avevo proprio intenzione di chiederlo a Qati.»
«Noi ci prendiamo cura degli amici» osservò Bock, mentre attraversavano quello che una volta era stato un posto di confine. Adesso era solo campagna ininterrotta.
«Quanto durerà la fabbricazione?»
«Tre mesi… forse quattro. Potremmo andare più in fretta» disse Fromm come per scusarsi, «ma ricorda che non ho mai fatto una cosa simile con materiali veri, solo come simulazione. Non ci è consentito alcun margine di errore. Il lavoro sarà terminato alla metà di gennaio. A quel punto starà a voi usare il risultato.» Fromm si chiedeva, ovviamente, quali erano i piani di Bock e degli altri, ma, in effetti, non stava proprio a lui occuparsene, giusto? Doch.