27. Gli «intellettuali»
Un giorno, i crucchi se ne andarono e finì anche la guerra: quella guerra tragica e un po' stupida che gli italiani avevano combattuto contro il resto del mondo, insieme ai loro nemici di sempre e senza che ce ne fosse un motivo. La nostra protagonista ne uscì incolume ma decisamente invecchiata, come una bella donna che abbia dovuto sopportare i disagi e le sofferenze di una lunga malattia, e che incominci a mostrare i segni del tempo. Molti dei suoi appartamenti erano vuoti, perché le persone che ci erano vissute erano defunte, o perché si erano trasferite all'estero: come il maestro Ermete e la signora Gina Cavalli che erano andati ad abitare in America, a New York, per seguire il figlio direttore d'orchestra. Il conte Marazziti era morto durante l'ultimo inverno di guerra, mitragliato da un aereo che lo aveva sorpreso in bicicletta su una strada della grande pianura mentre andava a comperare delle uova, con i soldi e per conto del Macellaio. Anche se non aveva mai voluto ammetterlo - dissero i vicini di casa al suo funerale - il poveruomo negli ultimi tempi era diventato sordo, e la sordità, probabilmente, gli era costata la vita. Pochi giorni dopo il conte Marazziti era morto di morte naturale anche il commendator Ettore Pignatelli, direttore e poi presidente della banca cittadina: che, se avesse potuto spiare le sue esequie attraverso una fessura della cassa dove l'avevano rinchiuso, avrebbe avuto motivo di inorgoglirsi. La repubblica di Bombolo, infatti, aveva raggiunto vette insuperabili nell'arte di celebrare i funerali; e il nostro commendatore prima di scendere sottoterra, ebbe il saluto di una fanfara militare e le lodi di un ministro dell'Economia, che lo definì, tra l'altro, «geniale precursore delle nuove tecniche bancarie». Suo figlio Ercole Pignatelli, invece, venne fucilato negli ultimi giorni della guerra da un gruppetto di quegli uomini che qualcuno, in città, si ostinava ancora a chiamare banditi; e non ebbe nemmeno il proprio nome scritto su una tomba, perché fu buttato in una fossa comune.
Quella morte infamante davanti al plotone d'esecuzione, e quella sepoltura, furono forse una pena eccessiva per il «povero Fava»: che nonostante le bravate giovanili non aveva mai commesso delitti o vere atrocità, nemmeno sotto la repubblica di Bombolo, e che addirittura, nei suoi ultimi mesi di vita, era stato sospettato dai crucchi di fare il doppio gioco e di complottare contro di loro. Il tenente colonnello Glauber, in particolare, non gli aveva perdonato di essere il protettore di quel maestro Umberto Cavalli, che si era preso gioco di lui in occasione del concerto al teatro Civico; ma per gli abitanti della città di fronte alle montagne Ercole Pignatelli era il simbolo di un passato che aveva portato lacrime e sangue e sofferenze per tutti, e che tutti volevano dimenticare. Perciò lo misero davanti al muro del cimitero e lo fucilarono, senza fargli quel processo che lui chiedeva con insistenza, e in cui probabilmente si sarebbe difeso accusando di chissà cosa il senatore Bianchini. La condanna nei suoi confronti - gli spiegò un tale con in testa un cappello da alpino, senza gradi - era stata pronunciata già da molto tempo, ed era una condanna definitiva. Chi ha tradito la sua gente e il suo paese non ha diritto a un processo d'appello...
La grande casa, che era appartenuta al commendator Ettore e poi all'avvocato Ercole, passò all'ultima erede dei conti Pignatelli: a quella signorina Orsola, di cui i lettori ricorderanno che aveva ballato con il cugino Esploratore alla festa della Società Geografica Nazionale, e che aveva fatto innamorare con le sue lettere il soldato Vitaldo Capacchione. I saloni del pianoterra, dove si erano fatte le orge con il tonno in scatola e il cioccolato fondente, e anche quelli del primo e del secondo piano, rimasero per alcuni mesi in balia dei fantasmi, chiusi e vuoti; ma poi, come già era accaduto un'altra volta in passato, dopo un'altra guerra, ritornarono alcuni dei vecchi abitanti, ne arrivarono di nuovi e la nostra protagonista riprese a vivere. Tornò il figlio minore del Macellaio, il giovane Andrea, senza più nemmeno uno di quegli oggettini d'oro che aveva indosso al momento della partenza, e così malridotto che i suoi stessi genitori stentarono a riconoscerlo. Tornò il Pittore, ormai consegnato alla leggenda - su cui lui stesso amava scherzare, quando gliene parlavano - di eroico combattente per la libertà e di capo-bandito, tra quelle montagne che si vedevano dalle finestre della sua soffitta. («Nessuno più mi chiedeva un quadro, - si scusava, - e dovevo pur fare qualcosa di utile, per passare il tempo! »). Arrivò un bambino di cinque anni, il piccolo Attilio, in casa del professor Annovazzi e della signora Lina: che in tanti anni di matrimonio non avevano avuto nemmeno un figlio, e si erano decisi ad adottarne uno della guerra. Attilio Annovazzi - come poi si chiamò il bambino quando fu compiuta la pratica dell'adozione - diede un contributo determinante a liberare la casa dai fantasmi dei conti Pignatelli e dalle ombre del passato, cantando a squarciagola per le scale la canzoncina del grand'uomo Bombolo e del suo storico capitombolo, e anche quella del gatto Maramao, morto di fame perché si ostinava a non mangiare l'insalata. Era un bambino vivace e a tratti malinconico, precocissimo, che si divertiva a mettere in imbarazzo gli adulti con le nozioni che imparava sfogliando i libri del padre, soprattutto gli atlanti e i vocabolari.
(Gli chiedeva: «Quant'è lungo, in chilometri, il fiume Nilo ? Qual è la capitale della Mongolia ? Cosa sono le latomie?
Cos'è un'iperbole?»). Ma la grande passione di Attilio erano le storie, soprattutto le storie di guerra. Il nuovo giardiniere della casa, un certo Alfredo, aveva già dovuto raccontargli almeno cento volte la vicenda sua e del suo reggimento, mandati in Africa a tendere fili spinati nel deserto e poi fatti prigionieri dagli inglesi, senza aver sparato nemmeno una pallottola. «Cosa vuoi che ti dica, - si scusava ogni volta. - È andata così! Non è colpa mia se io, in guerra, non ho fatto niente di straordinario... Forse ero un eroe, e non mi è stata data l'occasione per dimostrarlo! » «Cosa facevate da prigionieri? - gli chiedeva Attilio. Vi costringevano a lavorare? Perché non scappavate?» «Ammazzavamo i pidocchi, - rispondeva Alfredo. - Facevamo piccoli commerci tra di noi, oppure giocavamo al pallone... Parlavamo. Non pensavamo a scappare perché non si può attraversare il mare a nuoto, e non si possono percorrere migliaia di chilometri in un paese nemico se non c'è qualcuno che ti aiuta. Sarebbe stato un suicidio...» La vittima preferita di Attilio, però, era il giovane Andrea, che la guerra l'aveva fatta davvero e di storie poteva raccontarne a diecine: era stato marinaio su una grande nave piena di cannoni, era stato un naufrago, era stato in un campo di concentramento tedesco e poi aveva lavorato, come prigioniero, in una fattoria... Ogni volta che i genitori adottivi glielo permettevano, Attilio correva a suonare alla porta dei signori Macellaio, per tempestare Andrea di domande.
Gli chiedeva: «Ma davvero, dopo otto giorni che eravate sulla zattera, sentivate cantare le Sirene? Ma davvero i pesci mangiano gli occhi dei morti? Ma davvero eravate così affamati, in campo di concentramento, che facevate festa se riuscivate a prendere un topo? L'hai mai mangiata, tu, la carne di topo?
Che sapore ha?» Un episodio in particolare, di tutta la storia di Andrea, aveva colpito l'immaginazione del bambino, che non si stancava di sentirlo ripetere anche se già lo conosceva a memoria.
Implorava l'amico: «Per favore, raccontami ancora la storia del marinaretto! »; e Andrea, che era paziente per carattere e che in guerra aveva imparato a essere pazientissimo, di solito lo accontentava. Gli spiegava: «Quel marinaretto ero io, perché in campo di concentramento i miei soli vestiti erano la giacca da marinaio, rotta e sudicia, e un paio di calzoni corti che avevo avuto da un francese in cambio di una patata. Questo era tutto il mio guardaroba; io, poi, ero così magro che se c'era vento dovevo aggrapparmi a qualcosa, altrimenti volavo via... Quando venivano i padroni delle fattorie a cercare gente per lavorare nei campi, mi toccavano le costole e le braccia e poi scuotevano la testa, dicevano nella loro lingua: questo non può lavorare, è troppo malridotto... Un giorno, però, è arrivato un contadino grasso come un porco che mi ha fatto segno di seguirlo.
Mi ha portato in una brutta pianura dove c'erano tanti campi di orzo e di segale, e sopra ogni campo volavano centinaia di cornacchie, come mosche sulla cacca...» Il ragazzino, che aspettava con ansia questo particolare, ogni volta batteva le mani: «Come mosche sulla cacca!» Domandava: «E poi, cosa ti ha detto quell'uomo?» «Non mi ha detto niente, - rispondeva il reduce. - Io, oltretutto, non parlo il tedesco... Mi ha messo in mano uno strumento di legno che loro chiamano klapper e che, a farlo girare, produce un rumore terribile; mi ha indicato i campi di grano, le cornacchie e mi ha mostrato, a gesti, cosa dovevo fare per tenere quelle bestiacce lontane dai suoi raccolti. Dovevo correre tutt'attorno ai campi, senza mai fermarmi,'e girare il klapper...» «E gli altri prigionieri, - domandava il bambino: - che facevano ? Lavoravano anche loro a mandare via le cornacchie, come te?» Andrea allargava le braccia. «No... nessuno! I miei compagni, - aggiungeva di solito dopo un attimo di silenzio, badavano alle bestie o spaccavano la legna per l'inverno: insomma, facevano lavori da uomini! Io ero solo con le cornacchie, in mezzo ai campi, e ogni tanto il contadino veniva a sgridarmi perché non sentiva più il rumore del klapper.
Allora mi rimettevo a correre. Piangevo e correvo in quella brutta pianura, con la mia giacca da marinaretto e i calzoncini corti; inciampavo e cadevo, mi rialzavo e continuavo a correre...» Un giorno, Attilio suonò alla porta del Macellaio e Andrea venne ad aprirgli ma non lo fece entrare. I suoi genitori - disse l'ex marinaretto - avevano ricevuto da poche ore una lettera dello stato maggiore dell'esercito che gli comunicava la morte del loro primo figlio, Marco M., avvenuta cinque anni prima in un paese chiamato Ucraina, e non volevano più ascoltare storie di guerra. Anche lui, Andrea, si era stancato di ripetere sempre le stesse cose. Accarezzò il bambino sulla testa. «Non c'è più niente da raccontare...
Mi dispiace, ma devi rendertene conto. È una storia finita ! » Arrivarono i nuovi inquilini. Al secondo piano della casa, l'appartamento che era stato del conte Marazziti diventò lo studio di un giovane avvocato, Ernesto Merli: che avrebbe fatto fortuna, di li a pochi anni, con la trasformazione dei terreni agricoli attorno alla città in terreni edificabili, e con la cosiddetta «speculazione edilizia». I grandi saloni al piano terreno, dov'erano passati gli animali esotici dell'Esploratore, i bivacchi delle camicie nere e i mobili e i quadri dell'antiquario Bruno Hack, vennero dati in affitto a un partito politico: il partito della Democrazia Cristiana, destinato a governare l'Italia per quasi mezzo secolo. I capi della Democrazia Cristiana, non appena si furono insediati nella nuova sede, fecero collocare sul muro esterno della casa un'insegna bianca e blu con uno scudo e una croce nel centro, che avrebbe fatto fremere d'orrore l'Architetto, se l'avesse vista sopra un suo edificio; ma l'Architetto, ormai, era diventato un paragrafo nei libri di storia dell'arte e una voce nelle enciclopedie, e non aveva più modo di intervenire nelle faccende dei vivi. Anche l'appartamento al primo piano che era stato dell'avvocato Ercole, e dei suoi più illustri antenati: dell'avvocato Costanzo, dell'onorevole Alfonso, del conte Basilio, venne affittato a una scuola di ballo.
Il cortile interno della grande casa, nei giorni feriali, incominciò a risuonare delle note di Ciajkovskij e di Ravel, ma anche di tanghi, fox-trot e boogie-woogie: che erano allora i balli più richiesti nei locali pubblici e che venivano insegnati soprattutto alla sera, ai clienti adulti...
Sullo scalone centrale, il viavai dei visitatori era continuo; e il portinaio Eraldo si limitava a controllare, stando seduto nella sua guardiola, che non entrassero venditori ambulanti, e a dare informazioni a chi gliene domandava.
C'erano gli allievi della scuola di ballo; c'erano gli inserzionisti e i corrispondenti del giornale, che ora si chiamava «La Nuova Gazzetta»; c'erano gli iscritti e i clienti della Democrazia Cristiana; c'erano i visitatori del Pittore. Il Pittore, infatti, era diventato un personaggio molto noto, nella città di fronte alle montagne; e la sua soffitta era un ritrovo dove si incontravano persone di ogni età e di ogni condizione sociale, che però avevano tutte almeno una cosa in comune: erano «intellettuali». Dopo la guerra e dopo il capitombolo di Bombolo, che li aveva tenuti in disparte per più di vent'anni, gli intellettuali erano tornati di moda: si vestivano da intellettuali, parlavano da intellettuali e, quando si incontravano, discutevano dei destini del mondo come se davvero avessero dovuto deciderli tra loro, e deciderli in fretta ! Nella soffitta del Pittore, a seconda dei giorni, si potevano incontrare Carla, la ragazza scappata da casa, o il poeta di se stesso Gianni D. che tutti evitavano come la peste, perché quando ti si attaccava non riuscivi più a liberartene, o il cinefilo Umberto, che conosceva a memoria ogni singolo fotogramma dei film di Eisenstein e di Pudovkin, o un certo Walter, che parlava solo per fare domande ed era sospettato di essere un informatore della polizia...
Ci venivano il sindacalista e il prete operaio, il deputato e il professore e l'aspirante scrittore, e ognuno di loro, quando gli altri gliene davano la possibilità, portava il suo contributo specifico alla risoluzione dei problemi del mondo. Soltanto il Pittore, di solito, non partecipava ai discorsi dei suoi ospiti. Ascoltava tutti e dava ragione a tutti o, per lo meno, faceva sempre segno di sì con la testa, mentre i suoi pensieri vagavano chissà dove e mentre la sua matita tracciava delle linee sopra un foglio: disegnava una mano, un naso, un orecchio, il profilo di un viso...
Tra le persone che di tanto in tanto salivano all'ultimo piano della casa, c'era anche Alessandro Annovazzi. Il nostro professore, forse per via dell'età o di certi dolori alle ossa che lo infastidivano anche nella buona stagione, aveva diradato i suoi vagabondaggi nella grande pianura e aveva ripreso, quasi senza accorgersene, quei sogni d'arte che lo seguivano dagli anni dell'università e che non aveva mai confessato a nessuno, nemmeno a se stesso. Progettava di scrivere un romanzo: un grande romanzo, che avrebbe trattato degli avvenimenti a cui lui aveva avuto modo di assistere nel corso degli anni, e avrebbe dato un senso alla sua stessa esistenza... Quel romanzo, secondo il progetto dell'autore, doveva intitolarsi Il congedo, come la canzone dei goliardi, o addirittura Giovinezza, giovinezza: in omaggio agli studenti dell'inizio del secolo, a cui la giovinezza era stata rubata insieme all'inno che la celebrava, e in omaggio ai giovani di ogni tempo. L'idea era pronta, mancavano soltanto alcuni personaggi; ed era lì, nella soffitta del suo amico Pittore, che il professor Annovazzi veniva a cercarli...
Gli interessavano soprattutto, tra gli intellettuali, quei giovanotti sussiegosi, con la barba o senza la barba, con gli occhialini cerchiati d'oro o senza gli occhialini, che lui, tanti anni prima, aveva soprannominato «gli scienziati della rivoluzione», e che erano scomparsi all'arrivo dell'Uomo della Provvidenza. Ora, l'Uomo della Provvidenza non c'era più e gli scienziati della rivoluzione erano ritornati, assolutamente simili a quelli d'un tempo. Avevano più o meno la stessa età, le stesse certezze, la stessa superbia che li portava a guardare con commiserazione chiunque non parlasse e non ragionasse come loro, con le stesse frasi fatte e le stesse parole d'ordine. Una di quelle parole d'ordine era la parola «massa»: che si usava soprattutto al plurale - le masse - e indicava un insieme di uomini e di donne, un'entità a metà strada tra il numerico e l'umano, in marcia verso il socialismo cioè verso la felicità. In Unione Sovietica, in Cina, nei paesi dell'Est europeo - dicevano gli scienziati della rivoluzione - le masse già avevano raggiunto il socialismo, e ne stavano gustando i vantaggi; e presto avrebbero incominciato a gustarli anche qui da noi. Nella città di fronte alle montagne, come dappertutto, lo sfruttamento del lavoro sarebbe cessato e loro, gli scienziati della rivoluzione, sarebbero andati al potere; non per soddisfare un desiderio di dominio sugli altri, che, nel mondo liberato dall'individualismo, non aveva più ragione di esistere, ma per continuare a guidare il cammino delle masse, di conquista in conquista e di trionfo in trionfo. Allora, e soltanto allora, tutti i desideri degli uomini avrebbero trovato il loro appagamento, e tutti i sogni si sarebbero finalmente avverati...
Il nostro professore trasecolava, domandava: «Come fa, una massa, a essere felice? Come fa, il mondo, a liberarsi dell'individualismo?» Ma nessuno gli rispondeva. Gli scienziati della rivoluzione lo guardavano scuotendo la testa e poi proseguivano con i loro strabilianti discorsi mentre la ragazza scappata di casa si metteva lo smalto sulle unghie, e mentre il Pittore disegnava. Parlavano del raccolto del grano in Unione Sovietica, che l'anno precedente era stato scarso - dicevano - per colpa dei sabotatori, ma che per quell'anno si annunciava migliore; dell'imperialismo americano e dei suoi servi nel mondo; di se stessi, e del dovere che avevano, in quanto intellettuali, di guidare le masse.
Nessuno osava interromperli; e anche il professor Annovazzi si limitava a voltarsi di tanto in tanto verso l'amico Pittore, che gli diceva alzando un sopracciglio: che vuoi farci... hanno ragione loro!