7. L'anarchico
Finalmente, anche quella visita ebbe termine e il grand'uomo se ne andò al suo destino; ma il cattivo odore rimase, e anzi nei giorni successivi incominciò a farsi sentire nel cortile più grande, attraverso le grate della cantina. Era un odore persistente e dolciastro, di carogna, e si pensò a un animale morto: a un topo, a un gatto e poi - visto che la puzza non se ne andava, anzi cresceva di intensità - a un cane randagio che fosse entrato chissà come nel sottosuolo della casa, per venire a morirci. Costantino aprì il cancello del passaggio segreto, ma non riuscì ad andare oltre a causa del fetore e si dovette far venire dal camposanto un certo Tersilio, di professione becchino, con l'attrezzatura necessaria per calarsi nelle tombe. Si scoprì così che laggiù c'erano non uno, ma due corpi in stato di avanzata decomposizione: un cane e un uomo, che gli abitanti della città di fronte alle montagne avevano conosciuto molto bene - soprattutto l'uomo - e che erano scomparsi durante l'inverno.
Si scoprì anche che il defunto - un vagabondo, di cui tra poco racconteremo la storia - doveva avere abitato per qualche tempo in fondo a quel sotterraneo, perché ci aveva portato molte cianfrusaglie e alcuni effetti personali: un pagliericcio, un lume a petrolio, un fornello a combustibile solido, una sedia spagliata... Arrivarono i poliziotti, il delegato di pubblica sicurezza, il giudice per le indagini; arrivarono - la mattina del giorno successivo a quello del ritrovamento del cadavere - i giornalisti di cronaca nera dei quotidiani nazionali, e la strada tra il viale dei bastioni e la basilica del Santo si riempì di curiosi: una vera folla, di persone che stavano lì ferme o facevano la spola tra la casa e il tribunale aspettando notizie, e si scambiavano le loro opinioni.
Siccome l'uomo trovato cadavere in cantina era stato un anarchico, anzi: l'anarchico, per cosi dire, ufficiale della nostra città, e siccome le circostanze della sua morte e di quella del suo cane apparivano misteriose, molte delle persone che erano in strada incominciarono a parlare di omicidio, e a domandarsene le ragioni. Si chiedevano, per esempio: perché il defunto era stato trovato proprio in quel palazzo, dove abitavano un colonnello del Regio Esercito e un avvocato - l'avvocato Alfonso - che aveva detto pochi giorni prima al giornale locale di volersi candidare alle prossime elezioni politiche ? Perché il suo viso era stato sfigurato, come se l'assassino avesse voluto renderlo irriconoscibile ? Alla sera, gli inviati dei quotidiani telegrafarono i loro articoli; i capiredattori, nelle rispettive sedi, si sbizzarrirono con i titoli, e la nostra protagonista balzò agli onori della cronaca di tutti i giornali italiani. Ci fu chi parlò de I misteri di casa Pignatelli; chi diede per certo, fino dal suo primo articolo, che l'anarchico fosse stato ucciso {Ritrovato il corpo di un anarchico. Un delitto politico?); chi sospettò l'avvocato Alfonso Pignatelli di aver fatto sparire un uomo scomodo, che poteva ostacolare la sua campagna elettorale rivelando chissà quali segreti {A chi dava fastidio l'anarchico trovato morto? Quattro ipotesi). Ci fu perfino chi intervistò l'ex garibaldino Costantino Perotti, il cui fazzoletto rosso era stato immediatamente notato dai segugi della stampa, per chiedergli cosa sapesse di quella faccenda al portinaio di casa Pignatelli:«Io non so niente»).
Il mistero della morte dell'anarchico incominciò ad avere un po' dappertutto i suoi lettori, appassionati e - giustamente - esigenti. Nei giorni che seguirono, mentre la polizia continuava a svolgere le sue indagini senza lasciar trapelare niente di quello che trovava, alcuni abitanti della città di fronte alle montagne vennero interpellati per strada o nei caffè da sconosciuti che gli chiedevano se avessero avuto a che fare, in passato, con l'uomo trovato in cantina, e se ne conoscessero la storia. Anche il cane dell'anarchico visse - se cosi si può dire di un defunto - il suo momento di celebrità; i giornali, infatti, riferirono che il suo padrone gli aveva dato il nome del papa allora in carica, Pio IX, e che quando passavano per una strada affollata si divertiva a chiamarlo: «Pio IX, non annusare il culo agli altri cani!
Pio IX, non fare la pupù davanti al negozio! Pio IX, non infastidire la signora!» L'uomo, invece, si era chiamato Marzio Tramontana, perché era nato nel mese di marzo e perché il giorno che era stato raccolto sulla ruota tirava vento dalle montagne: un vento gelato, che trapassava i vestiti e faceva accapponare la pelle a chi camminava per strada. Era cresciuto nell'ospizio di San Michele fino ai diciott'anni, senza imparare altri mestieri che quello di cantare in coro durante la messa e di portare il cero ai funerali dei ricchi; quando finalmente gli era stata data una piccola somma per andarsene, lui se la era bevuta fino all'ultimo centesimo, e si era preso una tale sbronza - dicevano gli anziani - che era stato lì lì per morirne. Da allora e finché era vissuto aveva fatto soltanto il vagabondo, ma senza allontanarsi dalla città e dai suoi immediati dintorni, e aveva sviluppato soprattutto due talenti: il talento dell'ozio, che lo teneva lontano - lui diceva - dal lavoro servile e dalla schiavitù del denaro, e il talento filosofico, che lo aveva portato a diventare anarchico. Aveva sempre dormito in ricoveri di fortuna, dentro e fuori la città; uno di quei ricoveri, una grande botte per rifornire d'acqua le locomotive all'interno della stazione ferroviaria, era stata chiamata in suo onore «la botte di Diogene». Come anarchico, Marzio Tramontana amava definirsi individualista e quindi dispensato dall'obbligo di compiere imprese socialmente utili, quali sono, ad esempio, gli attentati contro le persone fisiche dei sovrani e di chi incarna l'odiato principio di autorità.
A chi gli chiedeva perché non fabbricasse bombe e non sparasse, come tanti altri anarchici, rispondeva di non essere incline alla violenza e di non aver mai creduto che il destino del mondo si possa cambiare ammazzando un Re o anche tutti i Re della Terra: ci vuol altro! Per riscattare gli stupidi popoli - diceva - dalla schiavitù del denaro e dall'ossequio verso gli idoli umani, bisogna prima liberare l'individuo che c'è in ogni uomo, convincendolo a diventare anarchico: un'impresa infinita, che in un tempo infinito potrebbe forse compiersi con il ragionamento e con l'esempio, non certamente con le bombe! In conseguenza di questi principi, anche le sue gesta erano state poche e di scarso rilievo. La più clamorosa, forse, si era verificata molti anni prima, durante i funerali del nobiluomo Amilcare Albertini Torelli, già presidente dell'orfanotrofio dove il nostro vagabondo e filosofo aveva avuto la ventura di crescere.
Il giovane Marzio Tramontana, in quell'occasione, era riuscito ad arrampicarsi sui ponteggi della cupola del Santo e da li, sporgendosi nel vuoto a circa trentacinque metri d'altezza, aveva orinato sulle spoglie mortali del Torelli e sulle personalità che le seguivano: il sindaco, il vescovo, il presidente delle Opere Pie, la vedova in gramaglie... A causa di quella bravata, Tramontana era finito in prigione e poi ci era ritornato molte altre volte, ma sempre per piccoli reati: per esempio, perché si presentava in piazza d'Armi avvolto in un gran tabarro nero e tenendo in mano una lanterna (la lanterna di Diogene), e disturbava le esercitazioni dei soldati attraversandogli la strada; oppure perché veniva sorpreso a bagnarsi, nudo come un verme, in un corso d'acqua detto Canalino che scorreva a poca distanza dai bastioni, di fronte a un convento di suore con annesso educandato per ragazze di buona famiglia. Ma la vera specialità dell'anarchico Tramontana era stata, per anni, quella di infilarsi a tradimento nelle processioni del Venerdi Santo e del Corpus Domini, sbucando con il suo mantello nero da un portone o da un vicolo e cantando a squarciagola le strofe di una sua canzonaccia, che diceva: La chiesa è una bottega i preti son mercanti e lor per far quattrini vendon Madonne e Santi...
I giornalisti venuti dalle grandi città riempivano pagine e pagine dei loro taccuini con le storie dell'anarchico; alla fine, però, storcevano il naso, perché avrebbero voluto sentirsi raccontare tutt'altro genere di imprese e interrompevano i loro interlocutori, gli chiedevano: «C'erano stati alterchi con l'avvocato Pignatelli? Il colonnello o i suoi familiari erano stati minacciati? Che legame c'era tra l'anarchico e il portinaio della casa, l'ex garibaldino con il fazzoletto rosso ? Chi aveva visto Tramontana per l'ultima volta, e in quali circostanze?» Dopo tanti racconti, tante supposizioni e tante chiacchiere, finalmente alla mattina del quinto giorno furono resi noti i risultati dell'autopsia, secondo la quale «il vagabondo Marzio Tramontana, di anni presunti 58», risultava essere defunto da circa tre mesi - cioè più o meno dalla metà di gennaio - a causa di un arresto cardiaco, dovuto a un assideramento. Gli inviati dei quotidiani nazionali se ne andarono, perché, se l'anarchico non era stato assassinato, la sua morte non interessava nessuno e tanto meno i loro lettori; soltanto il giornale locale, la «Gazzetta», continuò a occuparsi del vagabondo trovato morto in un sotterraneo e riferì i risultati delle indagini di polizia, che spiegavano come l'uomo e il suo cane avessero potuto introdursi in casa Pignatelli e viverci per un po' di tempo, senza che i proprietari se ne accorgessero. L'anarchico Tramontana - disse la «Gazzetta» - era in possesso di una chiave che gli permetteva di aprire dall'esterno la porticina di ferro del passaggio sotto il viale dei bastioni. Nessuno sapeva come avesse potuto procurarsela; a parte questo, però, tutto il resto si spiegava da sé. Anche le ferite e le mutilazioni del cadavere che avevano fatto pensare a un omicidio, e addirittura a un tentativo di sfigurare la vittima per renderla irriconoscibile, erano opera del cane. Il povero Pio IX, rimasto intrappolato nel buio senza più cibo né acqua, aveva cercato di sopravvivere mangiando l'uomo che era stato il suo padrone, e che gli aveva dato il nome di un papa; ma non ci era riuscito, o ci era riuscito soltanto per pochissimi giorni...
Nello stesso anno in cui si era trovato in cantina il cadavere dell'anarchico, la grande casa perse un altro abitante.
Se ne andò il figlio del conte Raffaele, il contino Giacomo: che i lettori di questa storia hanno incontrato dodicenne al circo Progresso, e che, dopo aver finito gli studi liceali, aveva manifestato il desiderio di tornare nella città dei suoi avi, cioè a Napoli, per arruolarsi in Marina. A diciannove anni, Giacomo Pignatelli era un giovane di media statura, dagli occhi azzurri e dai capelli color castano chiaro, quasi biondi, che parlava poco con i parenti e sembrava non avere familiarità nemmeno con la sorella e con il fratellino più piccolo, e nemmeno con il padre. La signora Assunta sua madre non riusciva a darsene pace. «Com'è possibile, aveva chiesto almeno mille volte la contessa al marito, fin da quando il loro figlio primogenito era ancora un bambino, - che tu e Giacomo non vi conosciate neppure? Che le uniche occasioni di discorso, tra di voi, siano il buongiorno, la buonanotte e quelle poche frasi che si dicono a tavola?» Il conte Raffaele, per anni, le aveva dato ragione. Ogni volta che sua moglie lo aveva rimproverato a proposito del figlio, lui le aveva promesso che, appena se ne fosse presentata l'opportunità, avrebbe cercato di parlargli e di fare amicizia; ma l'opportunità, per un motivo o per l'altro, non si era presentata e Giacomo, ormai, stava per affrontare il mondo senza quel viatico di consigli e di raccomandazioni che soltanto suo padre poteva dargli! Raffaele Pignatelli prese una decisione e la comunicò alla signora Assunta, una sera mentre si preparavano ad andare a dormire. Avrebbe accompagnato Giacomo a Napoli - le disse - e avrebbe approfittato del viaggio in treno per fargli quei discorsi che non era riuscito a fargli fino a quel momento. Padre e figlio, dunque, partirono insieme una sera d'agosto; e il nostro colonnello si era così immedesimato nel suo compito, che continuò a mettere a punto i singoli temi di cui intendeva trattare con il figlio, ancora durante la prima ora di treno: tanto, il viaggio sarebbe stato lungo! C'era tutta la sua esperienza di vita, in quella conferenza che stava preparando: ciò che gli anni e le vicende del mondo gli avevano fatto capire sull'onore, la politica, il gioco d'azzardo, le malattie veneree, i debiti, le donne... Purtroppo, però, a Milano erano saliti nella loro stessa carrozza due ufficiali del Genio, che vedendo la divisa e i gradi di colonnello del conte Raffaele, erano venuti a sedersi accanto al collega e lo avevano coinvolto in una discussione di grande rilievo militare e patriottico, sulla possibilità di una nuova guerra. Il nostro confine orientale - avevano detto i due ufficiali, abbassando la voce - era poco sicuro, e la situazione politica in Europa era poco chiara. I maledettissimi crucchi non pensavano certamente di dover abbandonare quei lembi d'Italia che ancora occupavano; era più probabile, anzi, che si stessero preparando a invaderci, per riprendersi ciò che avevano perso... La chiave di volta di tutto il nostro sistema difensivo - disse uno dei due ufficiali, mentre l'altro faceva segno di sì con la testa - era una montagna, che nessuno fino a quel momento aveva pensato a fortificare e che se ne stava lassù in cima alla pianura, come un tappo su una bottiglia. Se saltava quel tappo, addio unità nazionale! In un batter d'occhi, i crucchi sarebbero arrivati chissà dove, fino alla città del loro collega colonnello e più lontano ancora.
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Il conte Raffaele sobbalzò: «Non ditelo nemmeno per scherzo ! Non glielo permetteremo ! » Quando finalmente i due ufficiali discesero, a Bologna, il nostro colonnello era così sfinito dallo sforzo di non sfigurare nella conversazione, che si addormentò come un sasso.
Riaprì gli occhi dopo un paio d'ore, nella stazione di Firenze. Lui e Giacomo erano soli nello scompartimento; ma era notte, e il proposito di recuperare gli anni perduti con il figlio, impartendogli una lezione memorabile di saggezza e di esperienza di vita, gli sembrò fuori luogo e forse anche un poco ridicolo. «Giacomo, - pensò il conte Raffaele, arrotolandosi tra i pollici e gli indici le punte dei grandi baffi a manubrio, - ha preso da solo la migliore decisione che poteva prendere, quella di diventare ufficiale. Ci penserà la Regia Marina a farlo diventare un uomo, senza bisogno dei miei consigli e delle mie raccomandazioni, che ormai sarebbero tardive. Anche la buonanima di mio padre, il conte Basilio, non mi ha insegnato mai niente in tutta la sua vita, o forse mi ha insegnato una cosa soltanto: il potere dei soldi, il giorno che mi ha dato cento lire perché ci comprassi i favori di una cameriera. Farò anch'io con mio figlio come ha fatto mio padre: gli darò dei soldi perché li spenda con le donne, e lui conserverà di me un buonissimo ricordo...» Il contino Giacomo, per parte sua, non aveva voglia di parlare - o, forse, non aveva niente da dire - e rimase silenzioso per tutta la durata del viaggio. Lesse i giornali, guardò fuori del finestrino finché ci fu luce, ascoltò i discorsi del padre con gli ufficiali del Genio ma soprattutto pensò a se stesso: al suo passato, e al futuro a cui andava incontro.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, non rimpiangeva niente di ciò che si lasciava alle spalle. La città di fronte alle montagne, i compagni di liceo, i suoi stessi genitori gli erano venuti a noia, e poi c'era anche una situazione da cui bisognava fuggire: una storia tra ragazzi che non avrebbe nemmeno dovuto iniziare e che invece era diventata un motivo di inquietudine e di rimorso, con sua cugina Maria Maddalena... Si sentiva liberato da un incubo.
Maria Maddalena, la maggiore delle figlie dell'avvocato Alfonso, aveva quasi quindici anni; non era una gran bellezza, ma aveva una lunga treccia nera, gli occhi neri e due labbra sporgenti che davano al suo visino imbronciato un'espressione abbastanza graziosa. Giacomo aveva incominciato a baciarla un po' per gioco e un po' per imparare come si fa, perché con le altre ragazze non ne aveva il coraggio; finché un giorno si erano trovati loro due soli nella stanza di lei ed erano accadute certe cose che, passato il momento dell'eccitazione, li avevano lasciati impauriti e confusi. Da allora, niente più era andato per il suo giusto verso, tra i cugini; tutto era diventato terribilmente serio e difficile, e Giacomo, che non sapeva cosa fare per levarsi d'impiccio, si era ridotto a trascorrere le ultime settimane chiuso in casa, aspettando il giorno della partenza come una liberazione...
Al diavolo il passato! Sprofondò in un sonno senza sogni poco dopo Firenze, e si svegliò alle prime luci del giorno.
Attraverso il finestrino vide il mare, immenso e calmo in quell'alba di una giornata d'estate; e ripensò ai suoi sogni di ragazzo, che erano diventati i suoi propositi di adulto.
Oltre quella grande massa d'acqua - si disse - c'era il mondo, con i suoi continenti ancora in parte inesplorati.
C'era l'Africa: e lui, Giacomo, ci sarebbe sbarcato con una nave della Marina militare italiana. Glielo avevano detto anche i suoi professori del liceo che la nuova Italia, entro poco tempo, avrebbe riattraversato il mare che i Romani chiamavano «nostro», e che si sarebbe ripresa un pezzo d'Africa! Si sentì pieno di entusiasmo e di voglia di vivere; e provò quasi compassione per quei suoi parenti e compagni di scuola che erano rimasti laggiù nella loro piccola città, e avrebbero continuato per tutta la vita a vedere le stesse persone e gli stessi orizzonti, mentre il mondo, attorno a loro, era tanto più vasto...
Il conte Raffaele sbadigliò. Si aggiustò i baffi, tirò fuori dal taschino l'orologio d'argento. Disse al figlio: «Hai dormito più di cinque ore; congratulazioni! Tra pochi minuti, - gli annunciò, - arriveremo a Napoli, la città più grande e popolosa d'Italia. Prepariamoci a scendere».