25. Conosci te stesso

 

Il tempo delle guerre, però, non era ancora finito. Arrivò un giorno in cui i nostri nemici di sempre, detti crucchi, che ora grazie all'Uomo della Provvidenza erano diventati i nostri unici alleati, incominciarono a rivendicare chissà cosa dal resto del mondo, e a minacciare sconquassi: a nord, a sud, a est e a ovest. Il resto del mondo invocava: «Pace! Pace! »; ma la pace, come la calma e come il sonno, si nomina soltanto quando è lontana. Nella città di fronte alle montagne, gli abitanti si divisero in due partiti: il partito di chi sosteneva, in pubblico e con voce tonante, che anche noi come i tedeschi dovevamo fare il diavolo a quattro e reclamare i mari, i monti, le isole e le nuvole; e quello di chi non sosteneva niente. (Questo secondo partito, a dire il vero, era di gran lunga più numeroso dell'altro). L'Uomo della Provvidenza taceva, e tacque a lungo, limitandosi a sorgere ogni mattina e a tramontare ogni sera come aveva fatto per anni; ma un giorno prese la sua decisione. Una domenica, parlando alla radio, annunciò al popolo dei trasognati e dei felici che anche loro, e non solamente i crucchi, avrebbero avuto l'onore e il privilegio di combattere contro il resto del mondo, e che gli si chiedeva soltanto una cosa: che vincessero! Incominciarono le partenze. Anche dalla casa: partirono per andare in guerra i due figli del Macellaio, Marco e Andrea, con le loro catenine d'oro al collo e ai polsi, e con i loro capelli lucidi di brillantina. Partì il figlio del maestro Ermete Cavalli, il giovane Umberto, che a soli vent'anni era già considerato un genio della musica: e l'intero edificio, dalle cantine alle soffitte, risuonò degli urli e dei singhiozzi disperati della signora Gina sua madre.

(Per evitare che il figlio musicista andasse al fronte, i coniugi Cavalli si erano rivolti anche all'avvocato Ercole che gli aveva proposto una soluzione di ripiego, aveva detto: «Tenerlo a casa è certamente impossibile, ma si può forse ottenere che rimanga in Italia. Vedrò cosa posso fare»).

Partirono l'autista dell'avvocato e il giardiniere, e l'unico uomo che rimase al servizio della famiglia Pignatelli fu il portinaio Eraldo, invalido della grande guerra; partì il Pittore, non per andare al fronte - aveva ormai passato i quarantanni - ma per tornare al suo paese d'origine. Vivere d'arte, nella città di fronte alle montagne, era stato difficile già in tempo di pace, e figurarsi in tempo di guerra! Partì l'antiquario Bruno Hack, che aveva trasferito le sue preziose collezioni di là dalle montagne qualche mese prima che incominciasse il trambusto di cui stiamo parlando; e la grande casa tornò a essere silenziosa e deserta. Soprattutto alla sera. Alla mattina, attraverso le finestre che si affacciavano sul cortile più grande, si sentivano alla radio le canzoni di quell'epoca, che parlavano di una chiesetta in mezzo ai fior, di un settembre sotto la pioggia e di una signora Fortuna; e c'era anche una certa animazione sulle scale, di gente che saliva al secondo piano per andare a mettere un annuncio o un necrologio sul giornale locale, o per consegnare un articolo. «La Gazzetta», infatti, già da parecchi anni aveva un nuovo padrone: l'avvocato Ercole Pignatelli, che l'aveva acquistata per usarla contro il senatore Bianchini e che, dopo la morte di Barbablù, l'aveva trasferita al secondo piano di casa sua, nell'appartamento dove avevano abitato lo psichiatra e le sue molte mogli...

La guerra, dunque, incominciò a essere combattuta secondo le parole dell'Uomo della Provvidenza, in terra, per aria e sul mare: e andò a rotoli dappertutto. Nonostante i titoli trionfalistici dei giornali e le affermazioni ancora più perentorie della radio, lette da un annunciatore soprannominato Caffeina, tanto la sua voce era spavalda e piena di entusiasmo, fu chiaro a tutti, fino dall'inizio, che stavamo perdendo; perché le tanto strombazzate vittorie portavano sempre e soltanto «sganciamenti», «arretramenti tattici», «ridispiegamenti delle nostre forze» e altre fandonie, che la gente interpretava nell'unico modo possibile: si scappava!

La faccenda, per quanto tragica, non era priva di risvolti comici; che nella città di fronte alle montagne, ogni mattina, venivano messi in luce da uno straordinario venditore di giornali, noto a tutti come «Violino». (Questo di Violino, anche se può sembrare un soprannome, era il suo vero cognome, e in quanto al nome di battesimo nessuno aveva mai saputo che ne avesse uno). Il nostro nuovo personaggio era un uomo alto e magro e vestito sempre di nero, che da giovane aveva lavorato in Belgio come minatore e poi aveva fatto lo strillone perché non si era reso conto di essere un attore mancato: un grande attore, una via di mezzo tra l'americano Buster Keaton e l'italiano Totò, di cui anticipava alcuni atteggiamenti e alcune smorfie. Già in tempo di pace, la specialità di Violino era stata quella di vendere i giornali per strada strillando notizie che non esistevano o che non erano notizie, per esempio: «Tragedia in Cina: le donne non la danno! Il Papa annuncia dalla finestra: pioverà, e cresceranno funghi un po' dappertutto! Ultimissime della notte: zanzare assetate di sangue cercano culi scoperti!», e così via, con un'inventiva inesauribile e anche con un pizzico di irriverenza nei confronti del potere costituito. («Il Duce ha detto: oggi è venerdì e io vi prometto che domani sarà sabato, dovesse cascare il mondo!»).

Nei lunghi anni in cui l'Uomo della Provvidenza aveva continuato a sorgere e a tramontare sulla pianura zampillante d'acque e sulla casa, i giochi di parole e le false notizie di Violino avevano rappresentato l'unica opposizione - se così possiamo chiamarla - all'informazione ufficiale; un'opposizione, in qualche modo, tollerata, perché considerata assolutamente innocua. Una sola volta il nostro giornalaio aveva corso davvero il rischio di finire in galera, a causa della lingua francese imparata in Belgio quando era minatore. Era stato denunciato da qualcuno che lo aveva sentito chiamare le pédé il principe ereditario, e i poliziotti che lo avevano arrestato in mezzo alla strada si erano anche presi la soddisfazione di buttargli per aria la merce: quaranta copie del giornale, a due soldi la copia, erano finite in mezzo alle pozzanghere e allo sterco dei muli ! La faccenda, poi, si era risolta in un niente di fatto, perché sul dizionario francese-italiano del questore dell'epoca, il dottor Carmine Mancuso, la parola pédé non compariva da nessuna parte. C'era, è vero, e aveva un significato tutt'altro che bello, la parola pédéraste: ma Violino aveva giurato e spergiurato che mai si sarebbe permesso di rivolgere un simile insulto al futuro Re d'Italia, e che era stato frainteso. Lui aveva usato un termine affettuoso del linguaggio infantile...

I poliziotti, naturalmente, non gli avevano creduto; e perché non pensasse di averli presi in giro impunemente, prima di rimetterlo in libertà lo avevano chiuso in uno stanzino e lo avevano riempito di botte, gli avevano spezzato un incisivo e incrinate due costole...

La guerra, come tutti sanno, è una fonte d'ispirazione di prim'ordine per ogni genere di artisti, e Violino, che era un vero e grande artista dello strillare i giornali, sembrava esserne consapevole. Gridava a squarciagola per le strade del centro: «Ultimissime dai fronti di guerra: sgominate bande di pidocchi greci ad Argirocastro ! Disattivati nidi di pulci in Marmarica! Arrestato un agente del servizio segreto britannico travestito da verme solitario, nell'intestino del generale Graziani! L'appello del Duce alle truppe italiane in Africa: en avant la danse! Mes héros, on va semer avec nos étrons tout le désert du Sahara...» I giornali di Violino andavano a ruba, e lui poi, quando i poliziotti lo interrogavano con la luce negli occhi, tra una sberla e l'altra («Cosa significa la storia del verme solitario e del generale Graziani? Perché il Duce parla in francese?»; e così via,si difendeva dicendo che doveva vendere i suoi giornali: «È il mio mestiere! Se non gli grido delle cose strampalate e un po' per ridere la gente compra i giornali della concorrenza, e io come vivo ? Lo sapete anche voi, che ho sempre venduto i giornali in questo modo, facendo il buffone... Guerra o pace, il commercio è commercio! » C'era, allora, una marcetta militare, nata con la guerra, che si cantava in modo bellicoso e che diceva, in estrema sintesi: «Vinceremo! » Violino ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia; con quest'unica particolarità, però, che invece di cantarla fieramente avanzando la cantava fieramente indietreggiando, dopo aver gridato i titoli del giornale che parlavano di sganciamenti, di arretramenti tattici e di ridispiegamento delle nostre forze davanti al nemico. Era una gag irresistibile. La gente correva a vedere il giornalaio che cantava marciando all'indietro, lo applaudiva, si sbellicava dalle risate; ma i tempi non erano adatti per quel genere di spiritosaggini, e la faccenda non poteva durare. Una mattina, Violino fu arrestato per strada e sparì dalla circolazione; con grande sollievo di quei cittadini e patrioti che ogni giorno, da anni, si prendevano il disturbo di denunciarlo alla polizia, e con notevole profitto degli altri strilloni, che ne ereditarono la clientela e le vendite.

Era iniziata l'epoca dell'oscuramento, dei rifugi e del sibilo delle sirene che rompeva sempre più spesso la quiete notturna, annunciando il passaggio degli aerei nemici. Ogni volta che suonava l'allarme, nel cuore della notte, la grande casa si rianimava. Inquilini e padroni si precipitavano giù per le scale, vestiti alla bell'e meglio, e correvano verso il rifugio antiaereo: che non si trovava nelle loro cantine, dove i muri, ancora, erano fatti di mattoni, ma nella cantina in cemento armato di una casa poco distante. Due soli uomini, tra i nostri personaggi, rimanevano ad attendere che gli aeroplani fossero passati sopra le loro teste con il loro carico di bombe, senza nascondersi sottoterra. I due ardimentosi erano l'avvocato (ed ex ardito) Ercole Pignatelli, che quando suonavano le sirene si limitava a scendere in strada e a passeggiare avanti e indietro sul viale dei bastioni fumando una sigaretta dopo l'altra, finché l'allarme non era cessato; e lo «storico del buco della serratura» Ignazio Boschetti, che rimaneva nella sua soffitta perché si era persuaso che la discesa delle scale, al buio e con l'ansia di arrivare a destinazione prima che passassero gli aerei, per un uomo della sua età e della sua mole rappresentasse un pericolo più concreto di quello delle bombe. Dopo aver tentato l'impresa un paio di volte, ruzzolando e rischiando di ammazzarsi a ogni gradino, il pover'uomo aveva preso la decisione, apparentemente eroica, di rimanere nel suo appartamento e nel suo letto e di raccomandarsi all'anima santa di Aurora, la sua compagna morta pochi giorni prima che incominciasse quella stupida guerra, perché lo aiutasse a salvarsi. La città - pensava il nostro impiegato di banca ogni volta che l'allarme acustico lacerava le tenebre - non aveva industrie che producessero esplosivi o cannoni, e le bombe, fino a quel momento, l'avevano risparmiata. Perché avrebbero dovuto colpirla proprio quella notte, e perché, soprattutto, avrebbero dovuto colpire la grande casa, e lui che in quel momento ne era l'unico abitante? Si raccomandava, oltre che ad Aurora, al suo protettore sant'Ignazio, e anche al Santo della basilica. Gli diceva: «Aiutatemi, sono nelle vostre mani ! » Quando poi sentiva che gli aeroplani si stavano allontanando, Boschetti usciva da sotto le coperte e andava ad affacciarsi alla finestra. La pianura, vista in quelle notti, era un golfo di ombre su cui planavano le luci dorate dei bengala ed era anche un palcoscenico di teatro, immenso e apparentemente vuoto, per gli Dei che stavano appollaiati lassù da qualche parte nel buio, e ridevano e applaudivano i nostri nemici. Le sole note stonate, in quel paesaggio di favola, erano i fasci di luce delle fotoelettriche e i proiettili luminosi della «contraerea» che si avventavano contro la notte e contro il nulla, senza possibilità di raggiungerli. Poi però le fotoelettriche si spegnevano, le mitragliatrici cessavano di tessere i loro inutili ricami e il ronzio degli aeroplani si faceva sempre più sommesso, finché la scena tornava a essere buia e silenziosa. Sembrava allora che tutto fosse finito; ma non era così. Dopo qualche minuto, si vedevano lampeggiare all'orizzonte i bagliori delle prime esplosioni.

Allora Ignazio si faceva il segno della croce e mormorava un'ultima preghiera: non per sé, questa volta, ma per chi si trovava laggiù, nell'inferno delle bombe al fosforo, e non poteva fuggire né difendersi, non poteva fare più niente...

Una mattina, il sole sorse sulla grande pianura e l'Uomo della Provvidenza era scomparso: era diventato «Bombolo», il ridicolo eroe di una canzoncina che di li a poco, in Italia, tutti avrebbero canticchiato e che sembrava essere stata scritta - pensava il povero Ignazio Boschetti - apposta perché i monelli si facessero beffe di lui, ogni volta che si azzardava a scendere in strada. («Era alto così, \ era grasso così, \ si chiamava Bombolo. \ Passeggiando di qua, \ passeggiando di là, \ fece un capitombolo...») Nella città di fronte alle montagne, come dappertutto, la gente pensò che se si era dissolto l'Uomo della Provvidenza che l'aveva voluta, si sarebbe dissolta anche la guerra; ma non era vero, e la radio chiarì l'equivoco. La guerra continuava - disse Caffeina con la baldanza di sempre - «a fianco dell'alleato germanico».

L'avvocato Ercole Pignatelli scomparve. Il suo posto alla direzione della «Gazzetta» fu preso da un giovane professore di belle lettere e di belle speranze: un certo Boniperti, che aveva frequentato la soffitta del Pittore ai tempi della rivista letteraria «La Campana», e che intitolò il suo primo articolo di fondo Finalmente liberi! Il senatore Bianchini, rimasto unico padrone della città e di tutti i suoi abitanti, rilasciò al nuovo direttore un'intervista in cui affermava di essere sempre stato, nel profondo dell'animo, contrario all'Uomo della Provvidenza: cosa, questa, che lo collocava di diritto tra i più grandi mentitori di ogni epoca, sia nel caso che l'affermazione fosse stata vera e che lui avesse mentito per vent'anni, sia nel caso che fosse stata falsa e che lui mentisse nel momento in cui la faceva. Passò un mese, e la radio dette un'altra notizia. Sua maestà il Re d'Italia - disse Caffeina, con un tono di rammarico di cui nessuno, fino a quel momento, lo avrebbe creduto capace aveva preso una decisione dolorosa ma necessaria: si era arreso ai nostri nemici, cioè al resto del mondo, ed era andato a consegnarsi nelle loro mani. A chi restava da quest'altra parte del fronte - spiegò l'annunciatore dopo una breve pausa - sua maestà lasciava libertà di scegliere: poteva continuare a combattere contro chi voleva, se preferiva la guerra, o poteva arrendersi al primo che capitava, se, come il suo sovrano, amava soprattutto la pace. In poche ore, tutte le stazioni ferroviarie e tutte le strade della grande pianura si riempirono di soldati che avevano buttato via i fucili e tornavano a casa; molti indossavano ancora i panni dell'esercito, ma i più erano già riusciti a procurarsi degli abiti civili, in vari modi e perfino entrando nei cascinali e chiedendo ai contadini di dargli quei vestiti che avevano messo da parte per fare lo spaventapasseri. Gridavano: «È finita la guerra! Andiamo a casa!», senza riuscire a comunicare la loro allegria a chi li ascoltava, e senza essere del tutto convinti loro stessi di ciò che dicevano. La situazione, infatti, non aveva molti precedenti nelle guerre del passato, per lo meno in quelle degli ultimi duemila anni, e soltanto gli Dei sapevano come si sarebbe risolta. Si attendevano indicazioni dai giornali, che però non uscivano, e dai notiziari della radio, che continuava a trasmettere sempre le stesse parole e le stesse musiche. Al terzo giorno ricomparve per strada Violino. Era un po' più magro e un po' più arruffato di come la gente se lo ricordava, e anche il fascio dei giornali che teneva sul braccio era molto meno voluminoso di quello di una volta, perché i giornali, ormai, erano fatti di un solo foglio, e non riportavano altre notizie che i bollettini di guerra. Gridava come un forsennato: «Godi, popolo! È tornato il giornale per avvolgere le bistecche, ma non sono tornate le bistecche ! Ultime notizie dai fronti: era tutto uno scherzo! » Il professor Annovazzi scese di corsa le scale e riuscì ad accaparrarsi una copia di un quotidiano che era all'epoca della nostra storia, ed è ancora oggi, il più importante dell'intero paese. C'era un articolo intitolato: Conosci te stesso, a sinistra sotto il frontespizio, e il professore incominciò a leggerlo per strada, pensando che contenesse un'analisi del presente e un'ipotesi di ciò che sarebbe potuto succedere in futuro, per lo meno nelle prossime ore e nei prossimi giorni; ma la sua impazienza dovette lasciare il posto allo stupore, e poi all'incredulità. Chi aveva scritto quell'editoriale, per i posteri, non aveva fatto altro che copiare da un'enciclopedia la voce corrispondente alla parola «Italia»!

«Situata nel centro del Mediterraneo, - diceva l'articolo non firmato, ma in realtà copiato da una voce d'enciclopedia, - l'Italia costituisce il naturale ponte di passaggio dall'Europa verso l'Africa e l'Asia. È un paese povero di risorse naturali, la cui maggiore ricchezza è rappresentata dalla popolazione. Su di un territorio di 287 mila chilometri quadrati vivevano al principio di questo secolo 32 milioni di italiani. Dopo la guerra del 1914-18 l'estensione del territorio sali a 310 mila chilometri quadrati e in questo spazio si pigiano 45 milioni di individui, con una densità di circa 145 abitanti per chilometro quadrato...» Che senso avevano tutti quei numeri, in quel foglio?

Alessandro Annovazzi andò con gli occhi al fondo dell'articolo, per vedere quale fosse la conclusione; ma non c'erano conclusioni. «La coltivazione del grano, - dicevano le ultime righe, - occupa 5 milioni di ettari; il rendimento per ettaro, però, è più basso che altrove... Abbondiamo di prodotti agricoli di lusso, come la frutta, i vini, l'olio, che costituiscono una quota importante delle nostre esportazioni...» Era una giornata di metà settembre, umida e calda. Il nostro professore alzò gli occhi verso il cielo pieno di e per un attimo vide scintillare, in alto sopra la sua testa, i denti degli Dei, così bianchi da lasciarlo abbagliato, e sentì l'eco delle loro risate come un fragore lontano. Pensò che stava per arrivare un temporale, e che era meglio rientrare in casa. Sul giornale, quella mattina, non c'erano notizie.