23. Barbablù e la Donna Fatale
Passato l'attimo irripetibile della Storia, con i suoi avvenimenti gloriosi per alcuni e tragici per altri, nella città di fronte alle montagne tornò la monotonia delle ore e dei giorni e delle stagioni che si ripetono da sempre, all'infinito, in quello scorrere del tempo che in realtà, se non ci fossero di mezzo le nostre microscopiche vite e le nostre impercettibili morti, più che uno scorrere sarebbe un eterno stagnare. Vennero gli anni di calma piatta: gli anni quieti, senza più scioperi né incendi né comizi né passioni che avvelenassero gli animi, come era accaduto prima d'allora.
Anche gli odi sembravano essersi ricomposti. Il rosso e il nero avevano trovato modo di convivere, perché molti di quelli che avevano portato nei cortei le bandiere dei lavoratori, gridando «a morte i capitalisti» e «viva il socialismo», tutt'a un tratto si erano accorti di non essere mai stati veramente rossi, e di non avere mai creduto che gli operai dovessero impadronirsi del mondo: figuriamoci! Avevano soltanto voluto dimostrare che erano diventati forti e che non si poteva più farli lavorare per un pezzo di pane; ma quando poi in Italia era andato al governo il capo dei loro presunti nemici, cioè dei neri, avevano scoperto che, con un capo così, ci si poteva anche andare d'accordo, e che non era affatto un loro nemico. Era un uomo di grande intelligenza e di gran cuore; un uomo nuovo, così nuovo che piaceva a tutti: agli operai ma anche ai loro datori di lavoro, ai giovani ma anche ai loro padri e ai loro nonni, agli uomini ma anche alle donne... Perfino i preti lo avevano preso a benvolere, e lo chiamavano l'Uomo della Provvidenza! I professori della rivoluzione erano fuggiti all'estero, o erano stati mandati a vivere su certe isolette in mezzo al mar Mediterraneo, dove potevano raccontare le loro fanfaluche agli asini e ai delfini; erano pochi, e a nessuno, o quasi, importava qualcosa di loro. La voce dell'Uomo della Provvidenza, detto «Duce», arrivava quasi tutti i giorni in quasi tutte le case attraverso un nuovo, prodigioso apparecchio inventato apposta per lui da uno scienziato italiano, Guglielmo Marconi, che era anche un suo fervente sostenitore; e andava diritta al cuore dei poveri e della gente che viveva nei quartieri operai, così come andava al cuore dei signori della città alta. Gli diceva: voi siete un popolo di eroi, di santi, di poeti e di navigatori, e nessuno ha una storia più grande della vostra; vi sono state fatte molte ingiustizie, in questi ultimi anni, ma ora finalmente il vostro destino è tornato a risplendere su quei colli di Roma, che già una volta dominarono il mondo. Voi sarete di nuovo i dominatori di quel mondo, che fu colonizzato dai vostri antenati!
Questa conclusione, naturalmente, era un po' enfatica, ma suonava bene e, rispetto alle promesse ancora più eccessive e ancora più folli dei professori della rivoluzione, aveva il vantaggio di non aizzare i poveri contro i ricchi e gli operai contro i padroni; al contrario, serviva a metterli d'accordo tra loro e a farli sentire alleati contro un nemico nebuloso e lontano che - pensava la gente - non sarebbe mai diventato un vero nemico. Poi la voce taceva e dalla scatola delle meraviglie facevano irruzione in tutte le case le note di una musica esotica detta «charleston», o quelle più languide di una canzone dedicata a Lucia (« Solo per te Lucia, va la canzone mia...»). Arrivavano fino nei paesi più sperduti le notizie del giorno, anche per chi non aveva mai letto il giornale e anche per chi non sapeva leggere: c'erano i due anarchici che venivano processati nella lontanissima America, c'era il campione di ciclismo che vinceva sempre e dovunque, c'era lo smemorato conteso da due mogli e da due famiglie, c'era il generale Nobile che volava verso il Polo Nord con il suo dirigibile... Improvvisamente, il mondo era diventato più piccolo: così piccolo, che anche nella città di fronte alle montagne si sapeva ciò che accadeva in America, o in Giappone, come se stesse accadendo nella casa di fronte, e l'Uomo della Provvidenza vi aleggiava sopra. Era lui che sorgeva tutte le mattine, con il sole, sull'immensa pianura zampillante d'acque, ed era lui che poi tramontava tutte le sere dietro le montagne lontane...
La nostra casa era piena di vita e di persone, come forse non era mai stata prima d'allora. I saloni del piano terreno, che avevano ospitato gli animali del conte Giacomo e poi il bivacco delle camicie nere nei giorni gloriosi in cui l'Uomo della Provvidenza era salito in cielo, ora erano affittati a un antiquario, Bruno Hack, che vi aveva aperto una galleria d'arte intitolata al nome dell'Architetto e vi riceveva clienti da ogni parte d'Europa. Al primo piano, se non si trovava in qualche località di villeggiatura con la sua favorita del momento, e se non era a Roma, abitava Ercole Pignatelli: l'avvocato, che ormai poteva fregiarsi in modo legittimo di quel titolo e se lo era anche fatto stampare sui biglietti da visita, perché il Duce gli aveva regalato una vera laurea. «Trovate una università che dia una laurea onoraria a quel coglione, - aveva detto l'Uomo della Provvidenza a un suo collaboratore quando aveva letto, in una "informativa" dei servizi segreti, che l'avvocato Pignatelli non era un vero avvocato.
- Altrimenti qualcuno, prima o poi, tirerà fuori anche questa storia, e ci coprirà di ridicolo». In omaggio alla pacificazione, e ai tempi nuovi, anche Ercole Pignatelli aveva smesso di indossare i calzoni alla zuava e il fez nero degli arditi, che pure gli sarebbe servito per nascondere un principio di calvizie al centro della testa. Aveva messo su pancia, e chi lo vedeva passeggiare per le strade del centro e sotto i portici, circondato da gruppi di adulatori e di persone che cercavano di ingraziarselo, ne ricavava l'impressione che fosse lui l'uomo più potente della città di fronte alle montagne; ma si trattava di un'impressione sbagliata.
L'uomo più potente era un certo senatore Bianchini: un vecchio arnese della vecchia politica, che - diceva l'avvocato Pignatelli - nel corso della sua carriera aveva cambiato tutti i colori come i camaleonti, e però alla fine era riuscito, non si capiva come, a entrare nelle grazie dell'Uomo della Provvidenza, tanto da diventare il suo fiduciario! L'ex ardito, su questa faccenda, ci si era rovinato il fegato e ci aveva perso, oltre ai capelli, anche il sonno e la digestione; ma il senatore Bianchini aveva continuato imperterrito a collezionare presidenze e a sistemare i suoi uomini dappertutto dove non poteva sistemare se stesso, in modo da togliere al rivale - che, in privato, chiamava «Ercolino Sempreduro» o «il povero Fava» - ogni incarico che non fosse soltanto decorativo. Di tanto in tanto il povero Fava correva a Roma dall'Uomo della Provvidenza, per cercare di spiegargli quanto fosse mal riposta la sua fiducia; e poi, ritornato a casa, riprendeva a tessere le sue fila contro l'usurpatore, finendo immancabilmente per restarci impigliato lui stesso.
Quella lotta durava ormai da molti anni; e uno dei passatempi della nostra città, mentre l'Uomo della Provvidenza sorgeva e tramontava ogni giorno sulla pianura zampillante d'acque, era quello di spiare le mosse dell'avvocato Pignatelli contro il senatore Bianchini, e il loro odio reciproco; un odio che, almeno per il momento, non produceva fatti clamorosi e non turbava la quiete del paese della muffa, ma contribuiva a tenerlo avvolto nelle chiacchiere, come in una nebbia...
Tutto era banale e normale in quegli anni lontani, e tutti quelli che vivevano allora, o quasi tutti, erano un po' più felici e un po' più stupidi di quelli che erano vissuti prima di loro, e di quelli che sarebbero vissuti in seguito. Anche gli abitanti della nostra casa, ciascuno a suo modo, non sfuggivano alla banalità della loro epoca: con la sola eccezione, forse, del dottor Barbablù, che regnava inaccessibile sul suo pianeta popolato di matti e, qualsiasi cosa avesse avuta in mente, non la confidava a nessuno ! Gli altri nostri personaggi erano felici di coltivare le loro piccole infelicità, e di affrontare le modeste vicende della loro vita quotidiana come se fossero state chissà quali imprese. Ad esempio il ragionier Ignazio Boschetti, lo «storico del buco della serratura», continuava a maledire l'Architetto a causa del cesso, ed era anche stato ferito in un duello da un famoso aristocratico, il marchese B. di R., che si era risentito con lui per via del suo nuovo libro di pettegolezzi storici (il terzo della serie!) Il duello del ragionier Boschetti era durato un paio di secondi, o forse addirittura di meno; e, se qualcuno avesse pensato a filmarlo, ne avrebbe tratto una delle gag più esilaranti della storia del cinema. C'era stato un solo assalto, di un corpo in movimento - il corpo dello sfidante contro il corpo immobile del nostro storico, che a causa del peso e della conformazione fisica non aveva potuto scansarsi.
Alla vista del suo sangue - il «primo sangue» di cui parlano i codici cavallereschi - lo storico aveva avuto una crisi di nervi e aveva incominciato a strillare senza più fermarsi, con una voce in falsetto così acuta, che sembrava il grido di un porco sgozzato. Anche il conte Marazziti aveva dimenticato l'avventura con il giovanaccio dai capelli crespi e dagli occhi bovini, e mangiava quasi ogni giorno, a pranzo e a cena, in casa del Macellaio, trattandolo con degnazione e non esitando a zittirlo se il poveraccio - che avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di continuare ad avere tra i suoi commensali un vero aristocratico! - si azzardava a parlare di opera lirica e di cantanti. Il Macellaio, infatti, oltre al vizio di coprirsi d'oro di cui già s'è detto, e di fare un uso eccessivo di brillantine e di acque di colonia, aveva anche la debolezza di ritenersi un grandissimo esperto di due cose, il gioco del calcio e l'opera lirica; e di voler interloquire, ogni volta che alla sua tavola si toccavano quegli argomenti, con l'autorità che gli veniva dall'essere il padrone di casa. Apriti cielo! Il conte Marazziti, se qualcuno parlava di calcio, si limitava a sbuffare e a mostrarsi infastidito; ma quando il discorso riguardava l'opera lirica erano dolori, perché lui, su quel tema, non ammetteva altri punti di vista che il proprio, e avrebbe anche rimbeccato l'Uomo della Provvidenza, se fosse stato seduto insieme a loro e avesse voluto esprimere un suo parere. Il povero Macellaio doveva stare zitto. Ogni tanto, però, per prendersi la rivincita su quell'ospite un po' troppo altezzoso, invitava a pranzo il maestro Ermete Cavalli: che - come i lettori ricorderanno abitava nell'attico, ed era l'unica persona al mondo con cui il conte Marazziti non sarebbe mai riuscito ad avere la meglio in una discussione, di qualsiasi genere e nemmeno di argomento musicale. Il maestro Cavalli era un uomo grande e roseo, che sorrideva con indulgenza a tutto e a tutti e parlava lentamente e con molta autorevolezza, mescolando luoghi comuni, proverbi e sentenze inappellabili che, in caso di contraddittorio, venivano ripetute finché l'interlocutore non fosse stato ridotto al silenzio. In più, era sempre affiancato dalla consorte, la signora Gina Cavalli; che ascoltava ogni parola del marito facendo segno di sì con la testa, e di tanto in tanto esclamava: «È proprio vero! Meglio di così non potevi dirlo! Come fai ad avere una risposta per tutto ? Sei un fenomeno ! » Lui minimizzava: «Non esagerare... Era così semplice!
Bastava solo seguire la logica, e trarne le dovute conclusioni...» Anche le persone che salivano e scendevano lo scalone della grande casa, dopo essersi presentate al portinaio Eraldo o dopo averlo salutato con un gesto, se già lo conoscevano, erano tutte abbastanza contente di se stesse e della parte - di solito molto modesta - che stavano recitando nella nostra storia. C'erano, tra quelle persone, i matti del dottor Barbablù, che venivano a fargli le pulizie e gli altri lavori domestici; c'era la modella del Pittore, che aveva incominciato a spogliarsi per sei lire all'ora e poi aveva dovuto continuare a farlo per amore, perché le lire erano finite dopo due sole sedute, molto prima del quadro; c'erano i ragazzi con i capelli crespi e gli occhi bovini che il conte Marazziti riceveva in vestaglia, quando aveva vinto due o trecento lire giocando a poker con il Macellaio e con i suoi amici commercianti di carne. C'erano i giovani scapigliati e squattrinati che si riunivano nella soffitta del Pittore e pubblicavano una rivista trimestrale, «La Campana», che avrebbe dovuto risvegliare con i suoi rintocchi gli addormentati di quell'epoca: gli scrittori e gli artisti, innanzitutto, ma anche gli altri che allora vivevano (e dormivano) nella città di fronte alle montagne e nella grande pianura...
L'unico in grado di sfuggire - come già s'è detto - alla monotonia dei tempi e alla generale banalità dei nostri personaggi, restando un enigma per tutti quelli che lo conoscevano e anche per i suoi vicini di casa, sembrava essere il dottor Barbablù. L'inventore dei battaglioni di mentecatti era diventato un omino rotondo, lucido e profumato come una saponetta, dai modi ineccepibili ma gelidi, che non davano adito ad alcun tipo di familiarità. Chi aveva a che fare con lui, per una ragione o per l'altra, lo considerava un uomo privo di emozioni e dotato di un cervello capace di elaborare i pensieri con lo stesso distacco con cui un registratore di cassa elabora i numeri. Soltanto la vita privata del dottor Barbablù presentava alcuni aspetti strani e, a dire il vero, anche un po' preoccupanti. Per un capriccio del destino che si ripeteva puntualmente ogni pochi anni, infatti, le sue mogli impazzivano una dopo l'altra e finivano nell'ospedale psichiatrico di cui lui era il direttore, ricoverate in via definitiva. La prima a perdere il senno era stata la signora Carmela: quella - i lettori, forse, la ricorderanno - che era venuta ad abitare insieme al marito nella grande casa sui bastioni dopo la fine della guerra, e che non parlava con nessuno. Carmela aveva dovuto essere rinchiusa nel «reparto agitati» e aveva anche avuto la sfortuna di morirci, secondo ciò che diceva la sua cartella clinica, strangolandosi con un indumento di lana: una calza, forse, oppure uno scialle... Barbablù, allora, si era risposato con una ragazza della città alta, una certa Irene; ma anche questa, dopo un periodo di normalità, aveva dato in escandescenze ed era stata ricoverata nell'ospedale psichiatrico, dov'era tenuta in isolamento. I genitori di Irene, che non credevano alla pazzia della figlia, si erano rivolti al tribunale per riaverla con loro; il tribunale aveva respinto la richiesta in prima istanza, e non c'erano molte speranze che l'avrebbe accolta in seguito al ricorso. Nella nostra casa, intanto, e più precisamente nell'appartamento al secondo piano dove abitava lo psichiatra, era comparsa una terza moglie: una tale Olga, che noi chiameremo «la Governante» perché Barbablù, almeno per il momento, non avrebbe potuto sposarla, e l'aveva assunta come domestica. La Governante era una donna di circa trent'anni, forse vedova, con i capelli neri e due poppe talmente grosse che attiravano gli sguardi e, a volte, anche i fischi e i commenti di chi la incontrava per strada.
Per qualche ragione che noi non conosciamo, anche lei era approdata nel reame di Barbablù, cioè in manicomio, e gli aveva fatto da moglie e da cameriera per un po' di tempo, finché non era arrivata la Donna Fatale. Questa - che fece impazzire d'amore il nostro psichiatra nell'istante in cui varcò per la prima volta la porta del suo studio - rappresentava un ideale di bellezza femminile forse ineguagliabile, in quell'epoca di diffusa felicità e banalità e nel paese dell'Uomo della Provvidenza. Un corpo senz'anima, perfettamente modellato in ogni sua parte: nelle mani, nei piedi, nei fianchi, nei seni, nelle labbra, nel viso... Ma ciò per cui Barbablù avrebbe dato volentieri tutto quello che possedeva, e anche se stesso, era lo sguardo della Donna Fatale: così dolce e privo di intelligenza, così vacuo, che chi la fissava negli occhi per scoprire il segreto del suo fascino si sentiva cogliere da una sensazione di vertigine, come se si fosse affacciato sopra un abisso. La Donna Fatale, stando a ciò che dicevano le sue carte al momento del ricovero, era una povera sciocca, che chiunque avrebbe potuto prendere per mano e condurre dove voleva; non aveva più nessuno al mondo che la custodisse, perché il padre era emigrato all'estero e la madre era morta. Bisognava chiuderla con delicatezza in una gabbia - così, più o meno, aveva scritto l'ufficiale medico del Comune dov'era vissuta - e badare a lei come si bada a un uccellino, altrimenti, bella com'era, chissà cosa le poteva succedere...
Barbablù, dunque, si portò a casa l'uccellino e fece ricoverare la Governante. Trascorsero alcuni giorni. Una sera come tante altre, il nostro dottore stava salendo le scale di casa quando si vide comparire davanti un giovane che non si capiva da dove fosse sbucato e che, secondo ogni apparenza, si era messo li apposta per aspettare lui.
«Lei è il dottor Tal dei Tali», disse lo sconosciuto, col tono piatto di chi fa una constatazione. Barbablù, allora, lo guardò. Vide che aveva la barba lunga di parecchi giorni e pensò che fosse un matto: uno dei tanti, con cui aveva avuto a che fare nel corso della sua lunga carriera. Gli rispose che non visitava i pazienti a domicilio e che, per ogni necessità e per ogni evenienza, doveva rivolgersi all'accettazione dell'ospedale psichiatrico...
«Sono venuto a riprendere Caterina», disse il giovane.
(Caterina era il nome della Donna Fatale). Allora il medico aprì la bocca per chiamare il portinaio e lo sconosciuto gli scaricò in corpo, uno dopo l'altro, i quattordici colpi di una pistola semiautomatica che teneva in tasca, uccidendolo una mezza dozzina di volte. Il sangue di Barbablù schizzò dappertutto sui muri, che dovettero essere ridipinti, e disegnò una grande macchia scura sul mosaico del pianerottolo, che nessun detersivo riuscì mai a cancellare e che probabilmente è ancora là, sbiadita dagli anni, al primo piano della nostra protagonista. L'assassino fu preso dopo meno di un'ora. Era un cugino della Donna Fatale: un muratore di un paesello inerpicato da qualche parte sulle grandi montagne, che - secondo quanto dissero di lui le cronache dei giornali - «aveva concepito per la sua parente una passione incestuosa, così forte da spingerlo a quell'orribile delitto».