19. Caruso
La luce e il buio continuarono ad alternarsi; il tempo continuò a trascorrere. Arrivò un anno in cui la luna era più grande del normale, soprattutto d'estate, e se ne stava sospesa sopra le montagne irraggiando una luce rossastra: un brutto presagio, secondo ciò che dissero i vecchi. Un presagio di guerra; e la guerra, infatti, incombeva. La città, che un tempo aveva «ballato» a tutte le guerre d'Europa, diventò cupa e silenziosa, quasi volesse scongiurare in quel modo il ritorno dell'antica sciagura. Ignorò i cortei degli studenti che venivano sotto il municipio a gridare insulti contro i crucchi; e non si infiammò nemmeno per il discorso, al teatro Civico, di un rappresentante degli italiani costretti a vivere di là dalle frontiere, sotto il dominio di quei nostri antichi nemici. Poi, però, gli eventi precipitarono.
Sui muri della città alta apparvero i primi manifesti che dicevano di non parlare con gli sconosciuti e di denunciare le persone sospette; nelle cassette della posta arrivarono le prime cartoline della «mobilitazione», e gli animi - tutti gli animi - si accesero. Nei quartieri abitati prevalentemente da operai, e soprattutto in quello «dei ladri e degli assassini», si fecero comizi contro la guerra dei padroni e s'invocò lo sciopero generale, anzi: totale, che la fermasse in ogni parte del mondo. Ricomparvero le bandiere rosse in quelle stesse piazze, dove per molti mesi si erano viste soltanto le bandiere tricolori, e ci fu qualche tafferuglio con la polizia, qualche scaramuccia con gli studenti; ma un bel giorno - o, a seconda dei punti di vista: un brutto giorno - i giornali annunciarono che eravamo in guerra, e tutto finì come per un incantesimo. Le bandiere rosse sparirono, i comizi cessarono, le scritte sui muri vennero cancellate e la città tornò a chiudersi nella sua corazza di silenzio e di apparente imperturbabilità. Dalla stazione ferroviaria incominciarono a partire i primi treni carichi di soldati, e dopo qualche settimana sui portoni delle case si videro i primi «lutti tricolori» dei caduti in guerra, ma soltanto nelle strade della città alta; nei quartieri operai, il nastro con i colori della bandiera nazionale veniva buttato via dai parenti del defunto, o veniva chiuso dentro a un cassetto. Discorsi contro la guerra, però, non se ne sentivano più da nessuna parte; le riunioni e le manifestazioni di piazza erano proibite, l'orario di chiusura dei circoli e dei ritrovi era stato anticipato e gli unici passi che si sentivano risuonare, di notte in tutte le strade, erano quelli cadenzati dei carabinieri di ronda. Anche i frequentatori abituali delle osterie avevano imparato a tenere a freno la lingua, dopo che la voce pubblica aveva riferito i primi casi di ubriaconi condannati dai tribunali di guerra per «discorsi disfattisti». Un velo di paura, come una polvere impalpabile, copriva tutto e perfino il paesaggio; gli edifici sembravano un po' più grigi che in passato, gli alberi sui bastioni un po' meno verdi, le montagne un po' più appartate e un po' più velate...
La nostra protagonista era silenziosa. I primi tra i suoi abitanti ad andare al fronte erano stati il portinaio Eraldo Fortis e il professor Alessandro Annovazzi: che aveva appena compiuto il servizio militare obbligatorio, ed era un ufficiale di complemento. Poi era partito il giovane Amedeo Pignatelli, e la signora Allegra sua madre aveva affrontato l'avvocato Costanzo sulle scale di casa e gli aveva fatto una terribile scenata, accusandolo di essere il solo responsabile per tutto ciò che sarebbe successo al loro figlio! Se avesse messo a frutto i suoi appoggi politici - aveva gridato la signora Allegra al marito da cui viveva divisa - e avesse offerto un po' di soldi ai dottori della visita di leva, il loro ragazzo sarebbe rimasto in famiglia, come tanti altri che citava per nome: il Tizio, il Caio, il cugino del Caio... (Il pover' uomo era impallidito. Aveva cercato di rispondere alle accuse della moglie, ma non era riuscito a interrompere le sue urla e si era limitato a balbettare: «Tu deliri...»). Dopo Amedeo, erano salite su un treno per il fronte, vestite da crocerossine, Lina e Laura Vellani, le due figlie nubili di Maria Avvocata Pignatelli e di suo marito Alberto Vellani: di cui non abbiamo avuto occasione di parlare fino a questo momento, e di cui non ci occuperemo granché nemmeno in futuro. E poi, ancora, la macchina della guerra aveva continuato a macinare persone di ogni età e di ogni condizione sociale: due aiutanti di studio dell'avvocato Costanzo, un cameriere, il giardiniere e fuochista Vincenzo... Per ultimo, quando aveva compiuto diciott'anni, era partito Ercole Pignatelli, il figlio del ragionier Ettore: che i lettori, forse, ricorderanno d'aver conosciuto bambino mentre ascoltava le filastrocche dei Lapponi stando seduto sulle ginocchia della madre, e che aveva atteso con impazienza il suo turno di andare in guerra perché si era convinto - chissà per quale motivo - che anche la guerra fosse un gioco, il più bel gioco del mondo...
Ad abitare la grande casa sui bastioni erano rimasti un gruppetto di vivi e due fantasmi, particolarmente fastidiosi e ingombranti: quello di Giuliano Pignatelli e quello dell'Esploratore, che accoglieva i visitatori con la sua lapide collocata sopra l'ingresso e poi, quando erano all'interno dell'edificio, rallegrava le loro narici con le esalazioni dei suoi animali impagliati. Il fantasma dell'Esploratore, in particolare, sembrava essere diventato il vero padrone della casa e fino a quel momento non c'era stato modo di liberarsene, regalando tutte le sue collezioni e tutte le sue carte a chiunque le volesse prendere: un museo, una università, un ente qualsiasi... («Io, per me, - diceva a volte l'avvocato Costanzo, - butterei tutto in una discarica: ma sarebbe uno scandalo»). Gli animali si sfarinavano e tarlavano; i fili delle cuciture marcivano e si spezzavano dentro la loro pelle, gli occhi di vetro uscivano dalle orbite, le parti ancora corrompibili si corrompevano, esalando miasmi cimiteriali che attraverso i soffitti e le finestre penetravano negli appartamenti ai piani superiori e impregnavano tutto: i piatti dove si mangiava, i letti in cui si dormiva, i muri delle stanze dove si viveva... Per trasferire le collezioni dell'Esploratore in una sede più adatta si era perfino progettato di fondare, nella città di fronte alle montagne, un museo tutto per loro, di scienze naturali e di qualcos'altro (forse, di antropologia...); e la faccenda, sostenuta dal nuovo direttore della banca cioè dal commendator Ettore Pignatelli cugino dell'Eroe, sembrava prossima a realizzarsi. Poi però era arrivata la guerra a bloccare ogni spesa e ogni iniziativa; e, finché sulle montagne avessero continuato a sparare i cannoni diceva l'avvocato Costanzo, allargando le braccia - in città non sarebbe successo più niente: tutto sarebbe rimasto fermo!
Anche il fantasma dello studente Giuliano Pignatelli, pur essendo un po' meno fastidioso di quello dello zio, continuava ad aleggiare sulla casa e sui pensieri di chi ci viveva.
I suoi genitori erano invecchiati, e non solo nell'aspetto fisico: sua madre, la signora Allegra, si era ritirata nel suo appartamento e non voleva più uscirne, e suo padre, l'avvocato Costanzo, era diventato un uomo noiosissimo, che ripeteva sempre le stesse parole e gli stessi discorsi, come un disco inceppato. L'Isotta Fraschini era ferma in garage sotto un dito di polvere, e le imprese del seduttore avevano lasciato il posto a un'unica relazione, fatta di abitudini, con la vedova di un suo vecchio compagno di studi. Infine, le cronache della grande casa registrano proprio in quegli anni la presenza di un uomo sopravvissuto a se stesso - cioè, in pratica, di un terzo fantasma - e tenuto chiuso in una soffitta.
L'ex deputato Antonio Annovazzi, dopo essere stato sconfitto alle elezioni da un candidato socialista, aveva incominciato a commettere certe stranezze che secondo la «Gazzetta» erano dovute al dispiacere per la perdita del seggio, e secondo i medici a «demenza senile» (arteriosclerosi).
Per impedirgli di compiere chissà cosa, e per salvargli la reputazione, la signora Maria Maddalena - dopo molte discussioni con i familiari, dubbi e lacrime - si era decisa a rinchiuderlo. Lui, però, a volte riusciva a scappare e vagava per la città silenziosa e deserta, oppure dava in escandescenze: gridava frasi senza senso, si toglieva i calzoni...
Anche la casa partecipava alla guerra. In un salone al primo piano, le signore del «comitato patriottico» della città alta organizzavano recite e tombole di beneficenza per le vedove e gli orfani dei caduti, e raccoglievano indumenti da mandare al fronte: soprattutto calze e guanti di lana, di cui i nostri soldati sembravano avere un bisogno incontenibile, ma anche maglie, mutande e cuffie. Un'importante attività del comitato, la corrispondenza con i soldati italiani prigionieri dei crucchi, era stata affidata alla signorina Orsola Pignatelli; che in tre anni scrisse più di duemila lettere - due al giorno ! - e ne ebbe in cambio ringraziamenti, benedizioni e una curiosa avventura. Dopo la fine della guerra: una mattina, la nostra matura zitella si vide comparire davanti un giovanottone basso e tozzo, con le sopracciglia nere e folte unite al di sopra del naso e un pacchetto di lettere tra le mani, che le disse: « Sono Vitaldo Capacchione.
Cerco la signorina Orsola». Mancò poco che gli venisse un colpo a tutt'e due: a lei, per lo spavento di trovarsi davanti, in carne ed ossa, uno dei suoi corrispondenti più assidui e più disperati; e a lui, che aveva tenuto nascosto il suo sogno d'amore e se lo era coltivato per anni, nel campo di prigionia, senza pensare che quella «signorina» delle lettere potesse essere una donna grigia e flaccida, dell'età di sua madre...
Quando il portinaio Eraldo Fortis ebbe la sua prima licenza, dopo quasi due anni di guerra, gli abitanti della grande casa lo festeggiarono con tanto entusiasmo, che non avrebbero potuto fare di più e di meglio per un loro congiunto.
Perfino la signora Allegra si materializzò sullo scalone, così magra e gialla che sembrava uno spettro, per chiedergli notizie di suo figlio Amedeo: come se la guerra si fosse combattuta in un posto soltanto, e quel posto fosse stato un piccolo villaggio dove si sapeva tutto di tutti! «Mi dispiace, signora, - disse il portinaio; - ma credo proprio che suo figlio si trovi in un'altra parte del fronte. Siamo in tanti, sa: c'è chi dice che siamo un milione, e chi ancora di più...» Maria Maddalena e Maria Avvocata, in poche ore, organizzarono un incontro pubblico con il loro reduce nel salone del comitato patriottico, pieno di bandiere tricolori e di manifesti di propaganda per il «fronte interno». Il portinaio raccontò la sua guerra: quella guerra di cui poteva parlare per esperienza diretta, delle trincee e delle stazioni telefoniche in trincea, a cui era stato assegnato quando i suoi superiori - disse - si erano resi conto di avere a che fare, se non proprio con un inventore, con un uomo dotato di un naturale talento per le cose tecniche. Tra le avventure vissute in guerra dal sergente Fortis c'era un incontro con il comandante in capo delle truppe italiane: quel generalissimo Cadorna, su cui circolava la canzoncina disfattista «el general Cadorna el mangia el bev el dorma», e lui invece se lo era trovato davanti all'improvviso alle sei di mattina, senza altri accompagnatori che il suo capitano. Un'altra avventura era stata quando aveva dovuto far parte di un plotone che aveva fucilato quattro nostri soldati, colpevoli di essersi nascosti durante un assalto; ma questa non era una storia da potersi raccontare alle dame e ai dami del comitato patriottico, e il portinaio lo sapeva. Lui stesso, del resto, se avesse potuto dimenticarla, se ne sarebbe dimenticato più che volentieri...
«Raccontateci un episodio della vostra vita in trincea, disse un uomo già avanti negli anni. - Un fatto qualsiasi, che per qualche minuto ci dia l'impressione di essere laggiù insieme ai nostri ragazzi. Qualcosa che avete visto con i vostri occhi, e che non dimenticherete tanto facilmente...» Il portinaio ebbe un momento di esitazione, pensò: cosa gli racconto? La memoria gli si affollò di tante piccole cose: i geloni, i pidocchi, i topi, che però non potevano interessare quegli ascoltatori. Disse: «Vi racconterò la storia di Caruso».
«Non sarà stato il nostro grande cantante! - esclamarono le signore. - Forse, un suo nipote? Uno che ha il suo stesso cognome?» «No, - disse il portinaio. - Caruso era il soprannome di un soldato napoletano, un portaordini che doveva tenerci collegati con il comando di compagnia nel primo inverno di guerra. Noi allora eravamo in un caposaldo sopra la val Sugana a millequattrocento metri d'altezza, e non avevamo il telefono. I portaordini uscivano alla sera con il buio e rientravano prima di giorno; ma gli austriaci avevano messo una fotoelettrica in alto dietro le loro trincee, e quando l'accendevano sembrava di essere a teatro, con quel cerchio di luce che si spostava sulla neve come su un immenso palcoscenico, e con il buio della notte tutt'attorno... Avevano già ammazzato tre portaordini: un Pedretti di Bergamo, un Porzio di Casale e un altro di Rovigo che tutti chiamavano Bistecca, non so più perché. Il quarto portaordini doveva essere questo napoletano di cui sto parlando, un certo Esposito... sì, mi sembra che il suo vero cognome fosse Esposito, e che il nome fosse Pasquale... Pasquale Esposito...» Nella sala del comitato patriottico il silenzio, adesso, era assoluto. Alcuni ascoltatori anziani erano venuti a sedersi di fronte all'oratore, per sentire meglio; e c'era un uomo quasi completamente sordo, il commendator Porzano, che gli teneva il cornetto acustico a pochi centimetri dalla bocca.
«S'avvicinava l'ora dell'uscita serale, - disse il portinaio, - ed Esposito era più morto che vivo per la paura.
Chi non lo sarebbe stato, nei suoi panni? Per mandarlo fuori dalla postazione bisognò fargli bere un'intera bottiglia di cognac. Alla fine, a calci e spintoni, uscì nel buio e scomparve; ma a metà della pista si mise a cantare un brano d'opera, non proprio a squarciagola ma nemmeno piano. "Che gelida manina, se la lasci riscaldar..." A noi che eravamo in trincea venne la pelle d'oca. Pensammo: ha bevuto troppo e adesso i crucchi lo ammazzano. Si accese la fotoelettrica; il nostro portaordini era là, vestito di bianco in mezzo alla neve, e dalla trincea dei crucchi una voce gridò in italiano: Caruso! Canta più forte! Sono stati gli austriaci a chiamarlo per primi Caruso. Allora lui riprese a camminare nella neve senza cercare di ripararsi, proprio come se fosse stato su un palcoscenico, mentre la luce della fotoelettrica lo inquadrava e lo seguiva, e camminando cantava con una bella voce da tenore: "Cercar che giova? Al buio non si trova.
Ma per fortuna, è una notte di luna..." Quando arrivò in fondo al vallone si voltò prima di uscire di scena, ci fece un inchino e ci ringraziò degli applausi con un gesto, anzi a dire il vero i gesti furono due, uno rivolto a noi e l'altro rivolto ai crucchi, perché anche loro lo stavano applaudendo; poi la fotoelettrica si spense e il vallone tornò buio. Be', disse il portinaio dopo un breve silenzio, - forse voi non mi crederete, ma vi giuro sul mio onore che questo fatto è accaduto davvero e che si è ripetuto ancora, nelle notti successive, almeno altre quattro volte...» Il commendator Porzano si alzò in piedi, tenendo l'apparecchio acustico nell'orecchio. «E una storia inverosimile, -gridò, con la voce che gli tremava d'indignazione. - Una storia stupida: e voi, giovanotto, dovreste vergognarvi di raccontarla! Questo soldato italiano, se davvero c'è stato, che si è messo a fare il pagliaccio in una situazione così grave, dovrà essere giudicato da una corte marziale... Sissignore!
Mi stupisco che non abbia già ricevuto una punizione adeguata... Dov'erano i vostri ufficiali, giovanotto, mentre voi vi davate buon tempo, e cosa stavano facendo?» Molti soci e socie del comitato patriottico insorsero per farlo tacere («Per favore! Lasciate parlare il sergente Fortis!
Lasciate che finisca il suo racconto! State zitto! »), ma il commendator Porzano aveva un metodo infallibile per non ascoltarli. Si levò il cornetto dall'orecchio e se ne andò; non prima, però, di aver pronunciato un severo giudizio sui «giovani di oggi», e di aver espresso qualche amara considerazione sull'esito che avrebbe potuto avere una guerra combattuta da soldati come quel portaordini: «Che, - disse, - ci renderanno ridicoli agli occhi del mondo».
Eraldo Fortis scosse la testa. «Le guerre, - disse, - si vincono eseguendo gli ordini e salvando la pelle, e Caruso è riuscito a fare tutt'e due le cose, in condizioni estremamente difficili... Non sarà un eroe, ma non è nemmeno un traditore e non merita di essere giudicato come ha fatto il signore che è appena andato via. Forse gli austriaci avrebbero dovuto sparargli e hanno sbagliato a non farlo, dal loro punto di vista: sono loro, e non noi, che dovrebbero essere processati per questa faccenda... Ma certe situazioni si capiscono soltanto se si sono vissute, perché le parole non bastano a spiegarle. Si era creato qualcosa, lassù a millequattrocento metri in quell'inferno di ghiaccio, una specie di incantesimo che ci faceva sembrare la voce del nostro portaordini non meno bella di quella del vero Caruso. La notte che lui ha intonato l'aria della Tosca: "E lucean le stelle, e olezzava la terra..." io avevo gli occhi pieni di lacrime; e credo che anche molti dei nostri nemici abbiano provato la stessa emozione. Perché avrebbero dovuto ammazzarlo ? Era laggiù, in mezzo al cerchio di luce, e cantava per loro...» «E poi? - domandò una signora. - Cos'è successo che l'ha fatto smettere di cantare?» «E successo, - disse il portinaio allargando le braccia, che ci hanno mandati in un'altra valle, e che non abbiamo avuto più bisogno di un portaordini. Del resto, - aggiunse dopo un momento di silenzio, - una situazione come quella, non poteva mica durare in eterno! Ma Caruso era già diventato famoso. Da una parte e dall'altra del fronte, di trincea in trincea, i soldati raccontavano la leggenda di questo artista straordinario, di questo grande tenore costretto a fare il portaordini finché una pallottola l'avesse tolto di mezzo... Fu chiamato a Udine, al comando supremo dell'esercito, dove prestavano servizio alcuni musicisti che lo fecero cantare: lui cantò, e i musicisti si misero a ridere. Era quello l'uomo che con la sua voce faceva tacere le armi?
Dissero che aveva una voce né bella né brutta: una voce normale, come ce ne sono milioni... Insomma, - concluse il portinaio, - fu una delusione per tutti! »