21. Arrivano gli inquilini

 

La nostra protagonista era invecchiata. Non di molto, perché l'Architetto l'aveva progettata e costruita per durare nei secoli: ma aveva perso quasi del tutto quell'aspetto di magnificenza e di regalità che aveva caratterizzato la sua prima apparizione sul viale dei bastioni; si era integrata nel paesaggio, a poco a poco, e aveva assunto la patina delle cose levigate dal tempo. Le casupole che le stavano attorno al momento della sua nascita erano scomparse, e al loro posto erano sorti dei palazzi moderni di quattro o cinque piani, che al suo fianco sembravano tozzi e goffi e però erano serviti a riequilibrarne la mole, rendendola un po' meno sproporzionata con il profilo della città alta. E poi, adesso, c'erano gli alberi. Il colonnato neoclassico al centro della facciata si vedeva meno che in passato, perché era in parte nascosto da due enormi magnolie, cresciute negli anni fino a sfiorare con le fronde più alte le vetrate dell'attico. Anche all'interno dell'edificio, nel cortile più grande, una pianta di glicine avvolgeva muri e terrazzi con una straordinaria vegetazione verde e viola, che rallegrava gli occhi e i polmoni dei padroni di casa ma aveva il difetto imperdonabile, secondo la signorina Orsola, di attirare ai piani alti, oltre alle formiche, certi insetti con una forbicina nella parte di dietro, implacabili divoratori di ogni oggetto di legno.

(«Prima la si taglia, quella maledetta pianta, e meglio è per tutti!»)

Erano stati fatti molti lavori. Il commendator Ettore Pignatelli, che dopo la morte dell'avvocato Costanzo aveva dovuto prenderne il posto come amministratore della casa, si era reso conto che una parte di quel grande edificio doveva assolutamente essere trasformata in appartamenti d'affitto, ed era riuscito - a dire il vero, con molta difficoltà - a convincere di ciò anche le sue sorelle. «Non ha più senso, - gli aveva spiegato, - con i tempi che corrono, continuare a essere gli unici abitanti di un palazzo in gran parte vuoto, che ci costa molte migliaia di lire all'anno per tasse e spese di manutenzione». E poi, facendo un poco di conti, gli aveva dimostrato che la famiglia Pignatelli non avrebbe potuto permettersi per molto tempo ancora di mantenere la casa in cui viveva, e che il rapporto doveva capovolgersi: era la casa che doveva servire, con le quote d'affitto dei vari inquilini, a mantenere quelli dei loro parenti che non avevano rendite né profitti da lavoro, e ad assicurare anche agli infermi e agli anziani una sopravvivenza decorosa, se non proprio agiata... I Pignatelli - aveva detto in quell'occasione il banchiere di famiglia - non avevano più feudi né investiture nobiliari, e dovevano guardare al loro futuro, e ai tempi nuovi, con quel realismo e con quello spirito di adattamento che gli avrebbero consentito di continuare a essere una famiglia benestante; perché, se avessero voluto ostinarsi a conservare lo stile di vita dei loro antenati, sarebbero andati in rovina. Naturalmente, la riunione in cui si erano fatti questi discorsi era stata contristata da pianti e crisi isteriche; ma aveva segnato una svolta, tutto sommato positiva, nella storia della casa, ed era anche servita ad alcuni dei nostri personaggi per rendersi conto che il mondo era cambiato, intorno a loro, e per rimettere - come si suol dire - i piedi per terra. Giust'appunto in quei giorni la casa si stava liberando degli animali dell'Esploratore, che l'avevano resa quasi inabitabile per anni e che ora avevano trovato sistemazione in un museo nuovo di zecca: il «Museo civico di Storia naturale e delle Colonie d'Africa», con cui la città di fronte alle montagne, come spesso accade, risolveva alcuni suoi antichi problemi creandone di nuovi e più grossi. All'origine di quel museo, infatti, c'era un edificio del diciassettesimo secolo, il palazzo Persiani, vuoto e abbandonato da decenni; c'erano due raccolte che andavano in rovina, quella di erbe e di insetti dell'abate Zanoli, pioniere di questo genere di studi nella grande pianura, e quella di animali e di oggetti africani dell'esploratore Giacomo Pignatelli; c'era un direttore della banca locale, il commendator Ettore Pignatelli, che si era offerto di finanziare la trasformazione in museo di palazzo Persicini purché ospitasse, oltre alle raccolte dello Zanoli, anche quelle del cugino; c'era la necessità, che aveva a che fare con la ripresa economica di quegli anni, di dare lavoro a muratori, falegnami, tappezzieri e custodi... Così, a volte, in Italia nascono i musei; e come poi funzionino è sotto gli occhi di tutti.

Liberato, dunque, il pianoterra da zebre, scimmie e antilopi tarlate, il commendator Ettore potè completare rapidamente quella divisione dell'edificio in appartamenti, che l'Architetto aveva previsto solo in parte, per dividere la casa dei padroni da quella della servitù. Sostituì il riscaldamento ad aria, scomodo e antiquato, con i moderni termosifoni ad acqua; fece collocare delle vasche da bagno, che non c'erano; alzò alcuni tramezzi, chiuse alcune porte e trasferì tutti i suoi congiunti al piano nobile, cioè al primo piano.

Aveva anche progettato di far installare un ascensore elettrico nel vano dello scalone centrale: ma dovette desistere a causa del rifiuto di sua sorella Maria Avvocata e del di lei marito Alberto Vellani, di contribuire a una spesa giudicata eccessiva e non necessaria. In quella circostanza il cavalier Vellani - uomo privo di grandi virtù come di grandi vizi, ma piuttosto avaro che prodigo, e istintivamente portato a schierarsi contro ogni cambiamento - si trincerò dietro un'appassionata difesa della casa: che - disse - sarebbe stata rovinata in modo irreparabile dalla presenza nel suo interno di una macchina, non voluta dall'Architetto e ancora inesistente all'epoca della sua costruzione. Né l'esasperata ricerca della comodità, caratteristica di quegli anni - affermò con forza il cavaliere, facendo sfoggio di un'oratoria degna del compianto avvocato Costanzo - né la frenesia di modernizzare tutto a ogni costo, né, infine, l'ansia di compiacere inquilini che ancora non si conoscevano e non c'erano, poteva giustificare un simile scempio! Il commendator Ettore, naturalmente, non era d'accordo; ma dovette piegarsi alla volontà del cognato perché anche un'altra sua sorella, la signorina Orsola, dopo qualche tentennamento scelse di abbracciare il partito più comodo e meno costoso: che era, appunto, quello di non fare niente...

Quando i lavori di trasformazione furono terminati, arrivarono i nuovi inquilini. Il primo personaggio che entra nella nostra protagonista e nella nostra storia grazie a un contratto d'affitto, è il conte Aldo Marazziti di B.: un aristocratico che aveva perso il suo castello e il suo stesso buon nome sul tappeto verde dei tavoli da gioco, e che ormai - come dice l'Evangelista di Nostro Signore - «non aveva un luogo al mondo dove appoggiare la testa». Il conte Marazziti si stabilì in un appartamento al secondo piano con i suoi due cagnolini pechinesi, Giustiniano e Teodosia, e con un certo numero di mobili antichi, rotti o privi di qualche parte essenziale, che erano rimasti in suo possesso perché nessun creditore aveva voluto prenderli. Era un ometto dai capelli biondi - i maligni dicevano che se li tingesse - e dalla carnagione rosea, che riassumeva in sé, come un compendio vivente, quasi tutti i vizi per cui nel corso dei secoli la sua classe sociale era andata in rovina. Facevano spicco, tra quei vizi, la prodigalità e il gusto dello sperpero, soprattutto nel gioco, a cui si contrapponeva l'avarizia più sordida nei confronti dei creditori e dei prestatori d'opera; l'incapacità di fare alcunché di utile, per gli altri e anche per se stesso; la pigrizia; l'assoluto disinteresse per le vicende della propria città e del proprio paese, e in generale per la politica; il narcisismo e l'egoismo; ma l'elenco completo, a volerlo compilare, riempirebbe chissà quante pagine. In più, come se tutto ciò che s'è detto non fosse sufficiente, il nostro aristocratico aveva anche un certo modo di parlare e di atteggiarsi, e certe propensioni non soltanto estetiche per i ragazzi del popolo, che non potevano passare inosservate e che erano destinate a procurargli, di li a qualche mese, una sgradevole avventura: come si vedrà.

Di fronte al conte Marazziti, nel più grande dei tre appartamenti del secondo piano, venne ad abitare il nuovo direttore dell'ospedale psichiatrico cittadino: un uomo di circa quarant'anni, che all'anagrafe e nella vita di ogni giorno aveva un nome e un cognome tra i più comuni e che noi, invece, chiameremo Barbablù. Barbablù aveva incominciato a esercitare la sua professione prima della guerra, in un piccolo manicomio di una piccola città dell'Italia meridionale, e poi aveva fatto carriera al fronte, smascherando i soldati che si fingevano pazzi per tornare a casa e introducendo dappertutto dove andava le nuove, prodigiose macchine elettriche: che con le loro scosse rivitalizzavano gli ebeti, addormentavano i frenetici e compivano ogni genere di miracoli.

(«L'elettricità, - diceva il nostro dottore ai suoi infermieri, - è la medicina specifica dei pazzi, perché è affine all'energia della nostra mente. Qualunque sia il problema che state affrontando, non abbiate timore di usarla: usatela sempre! »). Pochi mesi prima che finisse la guerra, Barbablù aveva proposto ai suoi superiori di utilizzare i suoi matti i veri matti, quelli che lui stesso curava con le scosse elettriche - inquadrandoli in speciali reparti e mandandoli a combattere nelle zone più avanzate del fronte. La guerra, poi, era stata vinta senza bisogno che i matti di Barbablù ingaggiassero battaglie campali contro i crucchi, ma lui intanto era stato promosso colonnello, e quando aveva dovuto lasciare l'esercito era stato mandato a dirigere un manicomio importante: quello, appunto, della nostra città. Era un uomo piccolo e paffuto, con gli occhialini di metallo a pince-nez e i capelli così radi sulla sommità della testa, da potersi definire calvo. Sua moglie, la signora Barbablù, si mostrava per strada con il viso coperto da un velo nero e non parlava con nessuno, nemmeno per rispondere a chi la salutava e nemmeno con i vicini di casa. Persone di servizio, in apparenza, non ne avevano; ma già nei primi giorni dopo l'arrivo dei coniugi Barbablù, incominciarono a vedersi in portineria certi uomini infagottati in vestiti troppo grandi o troppo piccoli per la loro taglia, e certe donne dallo sguardo fisso o sfuggente, che chiedevano dove abitava «il signor direttore» per andare a servirlo a domicilio, e che erano i suoi matti. A quell'epoca, infatti, il manicomio era un mondo popolato di persone che nella vita normale avevano svolto ogni genere di lavori, soprattutto manuali; e i sovrani di quel mondo, cioè gli psichiatri, ne traevano a loro piacimento donne delle pulizie, cameriere, cuoche e sguatteri, oppure anche muratori o falegnami o tappezzieri, se avevano bisogno di servizi più specifici. Naturalmente non pagavano nessuno e non dovevano rendere conto a nessuno del loro operato. Per i matti, uscire qualche ora dal manicomio e andare a lavorare in casa del direttore o di uno degli psichiatri addetti ai vari reparti era un privilegio, che aveva anche un nome scientifico: si chiamava «terapia di socializzazione», o «di reinserimento», e veniva.concesso come premio a chi si mostrava più docile e volenteroso degli altri...

Tra Barbablù e il conte Marazziti, al centro del pianerottolo, si insediò un terzo inquilino: il Macellaio, che noi chiameremo con il nome della professione anziché con quello anagrafico, e che era imparentato con i Pignatelli per aver sposato Anna Vellani, la prima figlia di Maria Avvocata e del cavalier Alberto. Il Macellaio comprava e vendeva bestiame, lo ammazzava in un luogo chiamato «macello» e riforniva di carne tutti i negozi della città di fronte alle montagne, senza possedere un negozio proprio. Era un uomo tarchiato, con le guance rosse e i capelli lucidi di brillantina; portava sempre la camicia sbottonata sul petto, anche quando la colonnina del mercurio scendeva al di sotto dello zero, ed era carico d'oro come certe Madonne dei miracoli sono cariche di ex voto. In più, si lasciava dietro dovunque andasse una scia di profumo che infastidiva gli altri abitanti della casa, li spingeva a chiedersi: «Come fa, Anna, a vivere con una persona così volgare?» Anna Vellani, infatti, non assomigliava al marito. Era una donna dalla pelle bianca come il latte, che vestiva con eleganza e che - a giudizio dei suoi parenti e dei suoi stessi genitori - avrebbe potuto, anzi: dovuto, trovarsi un marito più decoroso. Cosa le era saltato in mente di sposare un Macellaio? Oltre tutto, era brutto !

(Anche i figli del Macellaio, Marco e Andrea, pur essendo soltanto due ragazzini di undici e di otto anni, erano già profumati come il padre e carichi di anelli e di catenine d'oro, ma lo erano soltanto alla domenica e soltanto quando andavano a messa con i genitori nella basilica del Santo. La signora Anna - dicevano le sue amiche - era convinta che se gli avesse lasciato addosso tutta quella roba nei giorni feriali, prima o poi gli sarebbe capitata una disgrazia; e, quando tornavano dalla messa, si affrettava a togliergliela).

All'ultimo piano presero alloggio gli artisti. L'attico della grande casa, con il timpano neoclassico e la vetrata che nelle giornate di sole limpido s'affacciava sulla pianura e sulle montagne come su un palcoscenico, venne affittato al maestro Ermete Cavalli: un musicista, che ci portò una moglie in perenne adorazione del marito, la signora Gina; un figlio destinato a diventare un famoso direttore d'orchestra, il piccolo Umberto, e una collezione di strumenti musicali antichi, soprattutto liuti e viole d'amore. Anche i due grandi appartamenti a fianco dell'attico, che gli abitanti della casa chiamavano soffitte perché l'altezza delle sale e delle stanze che li componevano non era uniforme, ma seguiva l'andamento dei tetti, ebbero presto i loro inquilini. La soffitta che tanti anni prima aveva ospitato la misteriosa Laura Muscarà, diventò l'abitazione del ragionier Ignazio Boschetti: un impiegato di banca che era anche uno scrittore di cose storiche, particolarmente fantasioso e curioso. Al momento di trasferirsi nella nuova casa, infatti, il ragionier Boschetti aveva già dato alle stampe due grossi volumi di aneddoti sulla vita privata dei granduomini e delle grandonne del secolo precedente, che gli erano valsi, il primo, una convocazione in Questura e il consiglio, in via amichevole, di «scherzare con i fanti e di lasciar stare i santi»; il secondo, un processo e una condanna per vilipendio alla Casa Reale. Il giornale cittadino, «La Gazzetta», lo aveva definito in quella circostanza «lo storico del buco della serratura»: e la definizione gli era rimasta appiccicata come un titolo accademico. Altre caratteristiche notevoli del nostro ragioniere erano quelle di essere piccolo e molto grasso, addirittura obeso, e di convivere senza essere sposato con una certa signora Aurora che aveva la sua stessa conformazione fisica, sicché il primo pensiero di chi li vedeva insieme era: «Come faranno a ... ?» I due nuovi inquilini - che noi chiameremo, per semplificare le cose, i coniugi Boschetti - si insediarono nella loro soffitta; e, dopo poche settimane, incominciarono a spedire lettere «raccomandate» al commendator Ettore, chiedendogli di far installare nel loro appartamento un nuovo gabinetto, perché quello che c'era era quasi inservibile. L'Architetto, infatti, doveva essersi dimenticato di far mettere il cesso nella loro soffitta, e poi, quando se ne era ricordato, aveva inserito una latrina in una specie di nicchia, senza finestre e in uno spazio ridottissimo.

Si diceva nella casa - e la faccenda aveva apparenza e fondamento di verità - che, a seconda della natura del suo bisogno, Boschetti fosse obbligato a entrare nella nicchia camminando in avanti o camminando all'indietro, e che avesse sostituito la porta con una tendina, perché quando era chiuso là dentro gli mancava l'aria...

L'altra soffitta, dov'era morto di «spagnola» l'ex deputato Antonio Annovazzi, venne data a un giovane poco più che ventenne, scuro di pelle e con i capelli e gli occhi neri, che noi chiameremo «il Pittore»: perché tutta la sua mobilia, quando venne ad abitare tra le mura della nostra protagonista, risultò essere composta di una brandina di ferro per dormirci, di un portacatino con catino e brocca dell'acqua per lavarsi la faccia, e di un cavalletto e di una tavolozza da pittore; e perché quello del pittore era il suo mestiere.

Il Pittore - che il portinaio Eraldo chiamava, con un colorito termine dialettale, «mangia-lucertole», paragonandone l'aspetto arruffato a quello dei gatti che si riducono pelle e ossa perché non trovano cibi più sostanziosi - veniva da uno dei tanti piccoli paesi inerpicati ai piedi delle grandi montagne, là dove finiscono i vigneti e dove incominciano i boschi; un po' sotto la linea scura delle rocce e il bianco delle nevi perenni. Aveva un pizzico di vero talento: la qual cosa, a dirla così, può forse sembrare una faccenda di poco conto ed era invece un dono molto raro, allora come adesso; ed era sorretto dalla convinzione, del tutto priva di giustificazioni logiche, di poter vivere facendo l'artista in quella città di pianura, che soltanto l'Architetto era riuscito a piegare alle ragioni dell'arte. (Ma i giovani - è risaputo - per loro e per nostra fortuna, non sempre si comportano come vorrebbe la logica; e gli artisti in particolare riescono a volte a lasciare una traccia di sé nella memoria degli altri, perché si avventurano su certe strade che nessuno mai aveva seguito prima di loro, e fanno cose che le persone considerate sagge di solito non fanno).

Restarono vuoti e silenziosi, nella nostra casa, soltanto i saloni al piano terreno: quegli stessi saloni che avevano ospitato gli animali impagliati del conte Giacomo Pignatelli e che, prima di essere dati in affitto a un antiquario, come si vedrà, erano destinati ad aprirsi soltanto in una circostanza e soltanto per pochi giorni, per servire da alloggio di fortuna ad alcune centinaia di giovani venuti da chissà dove e vestiti in vari modi, ma soprattutto con calzoni alla zuava e camicie nere... ¦