1. L'Architetto
Quando gli operai tolsero le grate di canne e demolirono le impalcature, nel sole ancora caldo di una bella giornata di settembre, la nuova casa apparve finalmente com'era, troppo grande e troppo bianca rispetto al resto della città e alle casupole che la circondavano. Qualcuno, tra il non folto pubblico, applaudì; qualcuno andò a congratularsi con il proprietario, che se ne stava in disparte e guardava quella che sarebbe dovuta diventare la sua nuova abitazione facendo segno con la testa: no, no, no, come per dire che lui non aveva voluto niente del genere. Qualcuno, infine, che aveva pratica del mondo per averlo visto, se non proprio dal vero, almeno nelle immagini del «cosmorama» che arrivava tutti gli anni ad agosto, con la fiera, paragonò il nuovo, imponente edificio costruito sul viale esterno della città, dove un tempo c'erano stati i bastioni e i posti di guardia delle sentinelle, al Campidoglio di Washington e al palazzo dell'Ammiragliato di San Pietroburgo; ma, com'è naturale, si trattava di paragoni eccessivi. I più, parlarono dell'Architetto: che non era presente a quell'inaugurazione perché abitava in un'altra città ai piedi delle grandi montagne, e perché non era in buoni rapporti con il proprietario; e anche noi dovremo parlarne. In quanto padre della nostra protagonista, cioè della casa, l'Architetto è il primo personaggio umano - per lo meno: il primo in ordine d'apparizione - di questa vicenda, ed è anche un poco il nume tutelare della nostra storia; come si vedrà nelle pagine che seguono.
L'uomo che tutti nominavano a voce bassa e quasi con timore, e che noi già abbiamo incominciato a chiamare con il nome della professione anziché con quello anagrafico: l'Architetto, era stato un ragazzo e prima ancora un bambino negli anni in cui Napoleone metteva a ferro e fuoco l'Europa, e aveva sognato, come tutti i bambini della sua epoca, di diventare un generale e un imperatore più grande dello stesso Napoleone; poi però, crescendo, si era accorto di essere bravo a progettare edifici, e da quel momento non aveva avuto più dubbi su ciò che avrebbe fatto nella vita.
Sarebbe diventato il Napoleone dei progettisti, e il principe degli architetti! (Le opere dei condottieri passano, quelle degli architetti rimangono). Aveva studiato in tre città: Torino, Milano e Roma, e dappertutto aveva stupito i suoi professori con la grandiosità dei progetti («Chi li paga?») e con l'audacia delle soluzioni tecniche. Il suo aspetto fisico così come ce lo tramandano i ritratti di famiglia - era quello di un giovane allampanato con il viso lungo e un po' smorto, gli occhi chiari e la bocca larga e sottile, quasi priva di labbra. Diventato Architetto, il nostro personaggio aveva chiesto e ottenuto di mettersi sotto la protezione del suo più grande Collega, cioè dell'Architetto dell'Universo: che lo aveva accolto in una società, allora potentissima, detta dei «liberi muratori». Era stato nominato Architetto di corte, e aveva proposto al Re che regnava sulle montagne e su una parte della grande pianura, di costruirgli una nuova reggia e una nuova capitale; ma quel Re - che pure aveva fama di essere molto ambizioso - quando aveva visto i suoi primi disegni si era spaventato, e aveva ordinato di restituirli all'autore. «Sono il Re di un piccolo Stato di montagna, - aveva detto a chi glieli stava mostrando. - I miei sudditi mi si rivolterebbero contro e gli altri sovrani d'Europa riderebbero di me, se mi facessi costruire una residenza come questa che mi viene proposta, e che per la sua mole e le altre sue caratteristiche sarebbe forse più adatta ad essere abitata dai Faraoni d'Egitto».
L'Architetto, naturalmente, era rimasto deluso; ma non era uomo da sprecare il tempo in faccende di scarso rilievo, e così, per mettere a profitto la sua arte mentre attendeva che qualcuno gli commissionasse un'opera davvero degna di lui, pensò di dedicarsi ad abbellire una piccola città. La città di fronte alle montagne era cresciuta nei secoli disordinatamente, senza un progetto d'insieme e senza aspirazioni di grandezza; assecondando le vicende dei suoi abitanti, aveva finito per rifletterne l'indole terragna e la scarsa propensione per le cose dell'arte, se non addirittura il cattivo gusto. Il nostro progettista ci arrivò con le credenziali di un Re a cui non pareva vero di liberarsene in quel modo, e con quelle del suo più grande Collega; e incominciò a studiare le mappe e gli edifici ma soprattutto incominciò a studiare i suoi interlocutori, cioè gli uomini che avrebbero dovuto approvare i suoi progetti e trovare i soldi per realizzarli. Gli sembrarono, tutti fino all'ultimo, personaggi mediocri: aristocratici senza cervello e senza spina dorsale, dediti al gioco d'azzardo e a stupidissime storie d'alcova, o grassi borghesi che avevano riposto tutti i loro affetti nella borsa e nel ventre. Trafficavano con grembiulini e compassi, in gran segreto, perché così volevano i tempi e la loro condizione sociale, ma la luce e la grazia del sommo Artefice non erano mai arrivate nemmeno a sfiorarli. Li trattò con distacco; loro, invece, si incantarono ascoltando le sue promesse e i suoi discorsi forbiti, e furono ben contenti che un artista come lui, addirittura l'Architetto del Re!, fosse venuto ad alleviargli la noia della vita in provincia. Riconobbero di buon grado che la città dove vivevano era misera e brutta, e si dichiararono disposti a qualche sacrificio per migliorarne l'aspetto: seguendo il desiderio del loro amato sovrano, la volontà dell'Artefice dell'Universo e i progetti dell'Architetto, in cui - dissero riponevano la loro piena fiducia...
E così che incomincia la nostra storia. Il nostro primo personaggio, avendo avuto l'autorizzazione per fare tutto quello che voleva, o poco di meno, purché non toccasse gli interessi dei privati e le loro case, mise mano al duomo e alla basilica del Santo che erano - e sono ancora oggi - i due luoghi di culto più importanti dell'intera città. Il vecchio duomo era una chiesa medioevale, un poco malandata per il trascorrere dei secoli e bisognosa di qualche restauro.
L'Architetto ordinò di demolirla e la ricostruì dalle fondamenta in stile neoclassico, con una quantità e una varietà di colonne da far sfigurare, al confronto, qualsiasi tempio dell'antica Grecia. La basilica, invece, era un edificio molto più recente, ed era solida; ma aveva bisogno - dissero gli amministratori del Comune - di una cupola che la completasse nella parte superiore. Una cupola senza pretese, bassa e larga; perché il loro Santo era un Santo di provincia, che non aveva mai compiuto miracoli clamorosi e che, nei suoi quattordici secoli di onorata sepoltura, non aveva mostrato in nessuna occasione di prediligere lo sfarzo e la monumen-talità. Venne finanziato un primo progetto, di una cupola proporzionata con il resto dell'edificio; i lavori, però, non diedero alcun risultato, perché i soldi che dovevano servire per fare la cupola furono spesi fino all'ultimo centesimo per rinforzare le fondamenta e i muri laterali della basilica, come se sulla testa del Santo si fosse dovuta costruire una piramide, e non una semplice volta, un poco più alta di un soffitto normale... La chiesa rimase scoperchiata e i reggitori della nostra città, dopo essersi consultati tra loro, incominciarono a dare segni di sconforto: non avevano più soldi! Non potevano terminare i lavori! Corsero a esporre le loro ragioni all'Architetto, che li ascoltò come si ascoltano i bambini, senza dare peso a ciò che dicevano. I problemi di denaro - gli spiegò quando finalmente lo lasciarono parlare - non erano di sua competenza; lui aveva fatto eseguire a regola d'arte le opere necessarie per sostenere la cupola, che si erano rivelate più costose del previsto a causa della struttura dell'edificio. Ora le basi erano solide. Se gli amministratori volevano, in pochi mesi si poteva fare la cupola; se no, bisognava lasciare tutto così com'era, in attesa di nuovi finanziamenti...
Raschiando soldi qua e là su varie voci di bilancio, i notabili riuscirono a stanziare una nuova somma ancora più grossa della prima, che venne utilizzata per costruire sul tetto della basilica un doppio colonnato pensile non previsto nel progetto iniziale, e non incluso in nessun capitolo di spesa. I lavori tornarono a fermarsi e anche gli amministratori, a questo punto, dovettero arrendersi. Se avessero avuto a che fare con un altro architetto, si sarebbero rivolti a un tribunale per citarlo in giudizio; ma il nostro primo personaggio non era un architetto qualsiasi, e i suoi protettori - cioè il Re, innanzitutto, e poi anche il suo sommo Collega - non avrebbero permesso che lo si condannasse. La basilica rimase aperta nella parte superiore, con un portico a due piani sopra il tetto che nessuno al mondo sapeva a cosa dovesse servire. Il grand'uomo fu chiamato da altri clienti in altri luoghi, dove costruì colonnati corinzi in mezzo ai boschi, ville-palazzo in cima alle colline e castelli in aria, mandando in rovina, uno dopo l'altro, tutti quelli che avevano avuto l'infelice idea di rivolgersi a lui; e se le vicende umane fossero determinate dalla ragione, e non dalla follia, nessuno più tra gli abitanti della nostra città avrebbe dovuto interpellarlo, e i reggitori della cosa pubblica lo avrebbero dovuto evitare come si evitano le catastrofi, facendo scongiuri ogni volta che ne sentivano il nome. Le cose, invece, andarono in tutt'altro modo: perché gli amministratori cittadini, di lì a qualche decennio, richiamarono l'Architetto e gli diedero nuove somme di denaro, supplicandolo di finire la loro cupola, e perché anche i committenti privati continuarono a rivolgersi a lui; spinti, forse, da quella stessa attrazione che induce gli uomini a rovinarsi scommettendo al tavolo da gioco, o impazzendo per i begli occhi di una ballerina, o in un'altra maniera ugualmente ridicola...
La cupola del Santo restò ferma a settantacinque metri d'altezza; e anche noi, arrivati a questo punto della storia, dobbiamo fermarci per introdurre il secondo in ordine d'apparizione dei nostri personaggi, cioè il proprietario della casa. Il conte Basilio Pignatelli era un aristocratico napoletano: un gran signore, venuto - come lui stesso amava ripetere - a mettere la sua spada al servizio dell'unico Re italiano disposto a sacrificare la vita e il regno per quell'unità nazionale, che, negli anni di cui ci stiamo occupando, era ancora un sogno di pochi. Sul patriottismo del conte Pignatelli, sottufficiale e poi ufficiale del piccolo Re, non c'erano dubbi; ma alcune voci che lo avevano seguito nel suo viaggio da Napoli attribuivano il suo esilio a una storia di donne, misteriosa e terribile come quella che aveva causato, tanti secoli prima, l'allontanamento del poeta Ovidio dalla Roma di Augusto. Dopo un periodo di tirocinio nella capitale, il conte era stato incaricato di comandare un reggimento nella città di fronte alle montagne, e aveva comperato una casa per venire ad abitarci: una grande casa sul viale dei bastioni, che aveva bisogno urgente di molti restauri. Il primo incontro tra i nostri due personaggi avvenne a una festa di corte, e non fu particolarmente cordiale. L'Architetto, come i grandi artisti del Rinascimento italiano, aveva l'abitudine di giudicare le persone secondo il loro aspetto fisico: i belli - a suo modo di vedere - erano anche buoni e pieni di virtù, mentre i brutti dovevano per forza essere inetti e malvagi. Quando gli presentarono il conte Pignatelli, basso, scuro e con il viso grinzoso, gli sembrò una scimmia vestita da ufficiale; e, invece di stringere la mano che la scimmia gli stava porgendo, si limitò a concederle, a malincuore, due dita delle sue. Don Basilio, che non aveva mai sospettato d'essere brutto, cercò di approfittare dell'occasione per parlare al famoso Architetto della sua nuova casa e dei lavori che si sarebbero dovuti fare per renderla abitabile; ne ebbe una risposta sgarbata, che non lo scoraggiò. «Non mi occupo di questioni professionali fuori del mio studio, - gli disse il grand'uomo. - Se volete che vi ascolti, venite a trovarmi tra le quattro e le sei del pomeriggio di un qualsiasi giorno feriale». Fu, quello, l'inizio di un calvario che sarebbe durato più di tre anni e che avrebbe portato il nostro aristocratico napoletano a un passo dalla bancarotta e dalla tomba. L'Architetto, infatti, accettò di rimodernare la sua casa soltanto perché si rese conto che quell'edificio, alto sui bastioni della città e sulla grande pianura, si sarebbe visto da molto lontano e avrebbe formato un tutt'uno con la cupola del Santo: la sua cupola, quando finalmente fosse stata finita, invece di alzarsi su un indistinto ammasso di tetti e di casupole sarebbe stata collegata, per un'illusione di prospettiva, alla casa dell'uomo scimmia! Le demolizioni vennero eseguite a tempo di record, e non salvarono niente: i muri - disse il progettista - erano fradici d'acqua per un'infiltrazione sotterranea, e l'intero complesso era pericolante. Bisognava abbatterlo; scavare nuove cantine e fare un pozzo, anzi addirittura due pozzi, per raccogliere le acque piovane e quelle sorgive; rinforzare le fondazioni e cambiare l'orientamento della facciata, perché tutte le finestre potessero aprirsi su quel grande orizzonte che gli stava davanti, come palchi a teatro... Quando il conte Basilio Pignatelli vide che la sua casa non c'era più, e che si stava scavando una voragine là dove avrebbero dovuto essere sistemate le nuove cantine, incominciò a parlare da solo, a balbettare, a essere scosso dai tic. Una volta alla settimana, generalmente il martedì, andava a cercare l'Architetto: che, di solito, non lo riceveva. Gli faceva dire dall'uno o dall'altro dei suoi collaboratori di essere impegnato in altre faccende e di non avere niente di nuovo da comunicargli; tutto procedeva a gonfie vele, nel cantiere, e se si fossero verificati fatti tali da rendere necessaria la sua presenza, si sarebbe provveduto a chiamarlo! Le parole erano rassicuranti; la realtà, invece, non lo era per niente, e sfuggiva a qualsiasi controllo. Finite le demolizioni, la casa incominciò a crescere in un certo modo che nessuno di quelli che avevano visto il progetto si sarebbe aspettato, e meno di tutti il nostro povero conte. I muri erano enormi, i soffitti altissimi, lo scalone centrale si era allargato di un metro...
Quando arrivarono le grandi colonne di pietra per l'ingresso e per il cortile più piccolo, don Basilio, che già era sulla sessantina, fu sul punto di rendere l'anima: ebbe un principio d'infarto, ma fortunatamente si riprese dopo pochi giorni e pensò che, così, non poteva più andare avanti.
Bisognava che si tirasse fuori da quell'incubo; e, quindi, bisognava che si liberasse, nel più breve tempo possibile, di quell'uomo prepotente e villano che gli stava succhiando tutte le sue sostanze e che sembrava agire con un unico scopo, quello di rovinarlo! Citò in giudizio l'Architetto. Il tribunale nominò un collegio di periti, che diedero ragione al loro collega, e condannò il conte Pignatelli - il «conte Macaco», come lo aveva soprannominato il suo aguzzino e come ormai lo chiamavano tutti quelli che lavoravano per lui, perfino i muratori e i loro garzoni - a pagare anche le spese del processo. Il nostro aristocratico credette di dover perdere il senno; ma era un nobile d'antica prosapia e un militare, e aveva ancora un modo per venire a capo di quella faccenda. Una mattina, l'Architetto era appena uscito di casa e stava dirigendosi a piedi verso l'Accademia di Belle Arti, quando fu salutato e interpellato da due sconosciuti vestiti di scuro, che gli chiesero se fosse l'architetto Tal dei Tali e si presentarono come «ufficiali in pensione del Regio Esercito». Il grand'uomo, con aria infastidita, fece il gesto di dargli una monetina; ma l'ufficiale che gli era più vicino la respinse con sdegno, e gli intimò di ascoltare ciò che dovevano comunicargli. Si erano permessi di fermarlo per strada - gli disse - seguendo le regole del codice cavalleresco e per incarico del capitano Basilio Pignatelli, conte di Villafiorita, che lo sfidava a duello. Gli consegnò anche un biglietto da visita dello sfidante - il «cartello di sfida» - sul cui retro don Basilio aveva scritto di suo pugno il seguente messaggio: «Voi - seguivano nome e cognome del destinatario - siete una lurida sanguisuga e un verme schifoso, indegno di continuare a vivere». L'Architetto ascoltò senza battere ciglio. Lasciò cadere a terra il biglietto da visita e poi guardò con severità i due che gli stavano davanti, gli parlò come avrebbe parlato a dei ragazzini che gli avessero posto un quesito privo di senso. «Io non mi interesso di queste sciocchezze, - gli rispose. - Grazie al cielo, ho ben altre opere a cui dedicarmi! L'unica cosa che so, è che ci si batte soltanto con i propri pari, e mai con esseri di gran lunga inferiori...» Quello dei due ufficiali che fino ad allora era rimasto in silenzio, spalancò gli occhi per lo stupore. Lo ammonì: «Signore, badate a ciò che dite! Noi non avremmo mai accettato di rappresentare un vostro inferiore. Il capitano Pignatelli è un ufficiale dell'esercito di Sua Maestà, e appartiene alla migliore nobiltà del regno di Napoli. Avrebbe potuto farvi bastonare dai suoi servi: in fondo, anche voi siete un suo dipendente, sia pure di un genere un po' particolare...» «Io sono un architetto, - gli rispose il grand'uomo senza scomporsi. - Non riconosco altri titoli che quelli dell'ingegno e dell'arte, e non mi abbasso a contendere con chi ne è sprovvisto, come il vostro rappresentato e come voi stessi.
Potrei battermi con un altro architetto: le mie uniche armi, però, sarebbero la matita, la squadra e il compasso...» «Si parlerà di voi, in città, come di un vigliacco, - disse il più anziano dei due padrini. - Diventerete un famoso vigliacco: è questo che volete?» L'Architetto guardò l'orologio, confermò: «Il mondo intero parlerà delle mie opere e si dimenticherà di voi e delle vostre sciocchezze, più presto di quanto possiate pensare!
E adesso, signori, se volete scusarmi...»