«Che cazzo hai fatto agli occhi? Ma ti sei guardata?» chiese Luna a Gioiella, apparentemente incazzata, ma più preoccupata.

Gioiella aveva gli occhi come un pugile che avesse perso un incontro, combattuto fino all’ultimo round. Aveva ematomi su entrambe le palpebre, non riusciva nemmeno ad aprirli gli occhi, se non per una minima fessura.

«Angelina, vieni subito, lascia stare tutto il resto, prepara un decotto di camomilla, guarda qua che roba...» Da che era morta Ciccina Frensis, Angelina la sostituiva nella gestione della casa, delle pulizie, ma solo per mezza giornata, fino alle tre del pomeriggio. Era stata tassativa con suo padre: «Non voglio nessuno tra i piedi oltre le tre.» Ed era stata legge.

«Signorina Luna, se lo faccio di cardi l’impacco, ci sgonfiano subito a Gioielluzza gli occhi. Lasciatemi fare, ho esperienza io di queste cose, il cardo va bene per tutto, anche quando punge un’ape, che è terribile il gonfiore». E lei l’aveva lasciata fare.

Che cazzo poteva essere? Allergia? Una puntura d’insetto? Mai visto nulla di simile. Era spaventata, avrebbe voluto subito chiamare il dottore, ma Gioiella lo rifiutava categoricamente, temendo domande e diagnosi.

Aveva pianto, aveva pianto tanto, tutta la notte, come mai nella vita. Una diga che rompeva gli argini, portando a valle un’immensità d’acque pericolosissime, ed era fortuna se non ci scappavano morti.

Aveva ragione Angelina, pensò Luna, bisognava qualche volta cedere a chi ne sapeva di più, almeno di queste faccende. A sera, col decotto di cardi, già si vedevano gli occhioni neri di Gioiella, e le palpebre, ormai sgonfie, erano di nuovo nella loro darsena.

La notte che Luna aveva passato con Leo, Gioiella aveva murato le sue orecchie con gomitoli di garza, e gli occhi con uno scialle di lana, pesantissimo, lavorato ai ferri da Ciccina Frensis, nel tentativo disperato di bloccare ogni via d’accesso al dolore, alla gelosia, alla rabbia, all’impotenza, e non essere così raggiunta nel suo fortino di garza e lana.

Era, poi, scomparsa, col suo corpo tutto, sotto due coperte e una trapunta, senza chiudere occhio mai.

Pensiero sciocco, l’unico che le fosse venuto in mente, quello di scomparire tutta, nascondersi come da bambina, quando la terrorizzavano le ombre, la sua stessa ombra. Ma funzionava, allora, e lentamente, sotto la trapunta, prendeva sonno e calore.

Ma ora non era più una bambina, né erano ombre quelle contro cui lottare, scomparendo sotto due coperte e una trapunta.

Solo Gerri l’americano, con una spesa enorme, e una linea che serviva solo la sua proprietà e la sua fabbrica, aveva da mesi portato dentro casa la luce elettrica.

Avere la luce elettrica in casa faceva tanto America e, soprattutto, amplificava all’esterno l’impressione della ricchezza, del successo. Ma nessuna delle due ragazze ci s’era abituata, simili nell’amare la penombra della candela o la vaghezza del lume a petrolio.

Nessuna delle due parlava, quasi avessero tacitamente, per complicità di pelle, pattuito il silenzio. Parlava solo la musica, e nessuna di loro due disse alla musica di starsene zitta.

In penombra era il salotto coi suoi divani di broccato damascati.

Gioiella la guardò, ormai che le palpebre sgonfie le restituivano gli occhi. Sul viso di Luna non c’era nessuna traccia, nessuna cicatrice, niente di nuovo, niente di diverso. Era il viso di sempre. Gli occhi celesti, il naso piccolo, il mento con la fossetta. Quelle sporche cose, quelle che una donna faceva con un uomo, anche se le faceva per la prima volta, non alteravano, dunque, i lineamenti, non lasciavano cicatrici, come le lasciavano i coltelli o la falce. Quelle cose forse lasciavano solo segni dentro il cuore. Ma il cuore non era in mostra, come gli occhi, la faccia, la fossetta sul mento.

Luna ascoltava musica da un magnifico grammofono americano, fatto arrivare apposta dall’America. Gerri non perdeva occasione mai di tenere in qualche modo acceso il suo legame con l’America, fosse solo l’acquisto d’un grammofono, che si poteva benissimo acquistare anche a Palermo.

Ormai non più in ansia per gli occhi risanati di Gioiella, Luna pensò divertita al cazzo di Leo che, la notte prima, avrebbe potuto letteralmente prendere fuoco. Il minchione, disturbato dall’indifferenza che lei mostrava per il suo trofeo, lo aveva pericolosamente esposto alla fiamma della candela, come fosse un’opera d’Arte, perché lei ne stupisse come sempre ne stupivano le braccianti, con cui s’accucciava tra il grano. Ma per quanto ci tenesse al suo cazzo, fenomeno di madrenatura, l’America veniva prima di tutto, di tutti.

I gesti parlavano più delle parole. Cazzo che lei, invece, era affogata dalle parole, solo parole, vulcani di parole. Chissà poi se, potendo davvero scegliere, avrebbe poi scelto le parole.

C’era stato un tempo, solo qualche mese prima, in cui aveva pensato che solo la parola potesse sostituirsi alla vita, persino con migliori risultati della vita stessa. Ma anche questo era stato un pensiero precario, altalenante, secondo l’umore.