Il giorno del Battesimo, Gelsomina, per la scena della cerimonia e le foto, era stata vestita come una signorona dell’alta società palermitana.
Abito e soprabito in prezioso macramè, scelto dal marito in persona, sempre a Palermo, nella migliore sartoria. A vederla sembrava normale, anzi bellissima, almeno un palmo più alta di lui e con un magnifico chignon di boccoli biondi, acconciati da una brava parrucchiera, venuta da fuori.
Bellissima era, e lui proprio per quella bellezza, per quella giovinezza, si era fottuto, pensò Gerri, impegnato a tenere tutto sott’occhio, ogni più piccolo dettaglio della cerimonia.
Ma, pur avendo al braccio una preziosa borsetta di seta e passamaneria, da vera signora, quella pazza di Gelsomina non si era portata appresso, in chiesa e di nascosto, una grande sacca di pezza, con due tre teste di sughero, già scolpite, già pronte per il Cimitero?
Gliel’aveva fatta sotto il naso, cazzo, un attimo che aveva girato il culo e le aveva tolto gli occhi di dosso.
Il sangue gli si fece acido, rischiava l’infarto. Ma, cazzo, poteva vigilare su ogni cosa, fiori, ricevimento, invitati, bomboniere, confetti, vestiti, ceri, pubblico e, contemporaneamente, non perdere mai d’occhio gli affari, la fabbrica, il bisinès?
Era troppo e, poi, queste erano cose da femmina. Fortuna che in America aveva imparato lo stile unisecsi, fare da maschio e da femmina, al bisogno. Ma nella sua strampalata famiglia il bisogno era una costante, non un’emergenza.
Il veleno dell’amarezza arrivò subito al cuore, che vi galleggiò pericolosamente, ma un attimo dopo pensò che, abbagliati da tanto lusso, nessuno aveva fatto caso a Gelsomina, se non lui.
«Che magnificenza, che cerimonia di lusso, che ricevimento regale, compare. Neanche i principi di Salaparuta potrebbero fare di più e meglio. Voi sì che sapete vivere alla grande.»
Quando il notaio lo disse, davanti a tutti, Gerri si sentì ripagato in pieno per la sua efficienza da vero imprenditore. Aveva curato ogni minimo dettaglio del cerimoniale, non aveva lasciato nulla al caso né a Ciccina Frensis, che era donna solo nei certificati dell’anagrafe, ma non certo donna di classe.
Il pranzo strabiliante, le portate non si contavano, era stato servito nel grande giardino della casa. Trenta camerieri per trenta invitati, di modo che ogni ospite avesse un suo tutore per l’acqua, il tovagliolo pulito, la forchetta, il coltello d’argento. Pochissimi gli ospiti, perché tutti gli esclusi, pur se ricchi e assai noti, si sentissero merda e, comunque, inferiori a lui, solo in quanto esclusi. Anche quello era un magnifico sociologico concetto imparato e importato dall’America.
Per tutto il tempo c’era stata musica, un’orchestra magnifica con quaranta orchestrali, disposti su un grande scenografico palco, costruito solo per l’occasione.
Nell’aria calda di giugno odori di fresie gigli aragoste scampi duellavano furiosamente. La bimba, ben protetta dalle zanzare con una tendina di tulle, dormiva col sole alle spalle, senza mai piangere, nella sua carrozzina di lusso di pelle blu, su ruote altissime, all’uso americano. Poggiato sul petto piccino, perché gli invitati potessero ammirarlo, il collier d’oro e brillanti, dono di battesimo della madrina Caterina.
Gli ospiti si erano forse accorti dell’assenza al pranzo di Gelsomina, ma nessuno sembrava farci caso, nessuno faceva domande. Nessuno la teneva in considerazione, se non in quanto piccolo trascurabile fastidio, capitato a un uomo che del resto aveva tutto e non aveva nessun’altra macchia.
Oramai era storia consolidata che Gelsomina avesse perso del tutto la testa, a causa del parto. O forse era stata sempre così dalla nascita, e Gerri l’aveva sposata non immaginando mai il grave difetto.
Si raccontava in paese che, di lunapiena, se ne stava tutta la notte in cortile a parlare con quella che ormai pensava fosse la Madonna, la sua amica Madonna.
«Un uomo non si giudica mica dalla moglie che ha, caro compare Gerri» gli disse in complicità il notaio, pensando anche alla sua, per fortuna morta giovanissima. «Le mogli sono come i cocomeri, prima di spaccarli in due nessuno sa cosa c’è dentro, se la polpa è rossa e dolce, oppure se ha sapore di zucca, di cucùzza, come la chiamiamo noi in paese. Un uomo non si giudica mai dalla moglie che ha, quello è un fatto di sorte, ed è comunque un fatto trascurabile. Un uomo si giudica invece solo dalla sua tempra, solo dai suoi affari. E voi siete un numero uno, nella tempra e negli affari.»
Il notaio Zambò lo rassicurava riguardo alla disgrazia d’una simile moglie, ma a lui non gliene fotteva un cazzo. Anche il notaio, che pure aveva studiato fino alla laurea, era rimasto paesanotto, tutto d’un pezzo, se davvero pensava che lui potesse avere quel tipo di paura, quel tipo di pensiero di merda.
Si vedeva che non aveva passato lo Stretto, che stava col culo scotto sulla poltrona a pubblicare atti, che non c’era mai stato in America, e quindi non si era evoluto. Aveva la più grossa clientela della provincia, ma nella testa era rimasto un coatto di paese. Sorte comune a quanti non viaggiavano, non conoscevano mentalità nuove, evolute, non respiravano il Futuro, la Modernità.
Di fronte a una fabbrica come la sua, la Gerri Soap, che vantava modernissime attrezzature per la bollitura, la cottura, il lavaggio, l’asciugatura, la confezione del sapone, attrezzature faraoniche, più impressionanti dei Fori Imperiali e del Colosseo stesso, scompariva ogni debolezza, anche solo l’ipotesi d’una sua debolezza. Un’organizzazione imprenditoriale di quel tipo cancellava ogni neo, ogni pecca, ove ci fosse stato un neo o una pecca. Faceva scomparire persino una moglie pazza e una figlia, femmina e rachitica.
Però Luna, se non aveva i chili giusti, aveva gli occhi giusti, la pelle giusta, il nasino giusto, la boccuccia giusta. Occhi celestone, proprio come quelli delle bambole americane, che sembravano di carne vera, e avevano occhi di vetro più belli ed espressivi degli occhi veri di natura.
Minghia! una bambola sembrava, Luna, nella veste del battesimo. Fosse effetto del tulle, del merletto, poco importava.
Cazzo! Che idea geniale gli era venuta in mente per pubblicizzare la nuova linea di saponette profumate, e in un attimo. Una botta di genio, tipica del suo talento. Il nome della linea era lì «Luna», davanti ai suoi occhi, senza spenderci una sola lira.
Pronto era, perfetto come nessun altro, Baby Luna o Luna Doll. Che genio! E senza faticare, senza spremersi le meningi. Senza spendere un centesimo! Un talento naturale il suo, per la pubblicità.