Di sua madre Gelsomina, Luna aveva solo qualche piccola scultura d’animaletti, qualche testina di legno, roba di molti anni prima, quand’era ancora una bambina e ci giocava.

Non le mancava una madre, come non le mancava un padre. Un padre vero, di quelli che leggevano nel cuore dei figli, senza fare domande, e non sbagliavano mai.

Ma solo nella finzione della poesia, del romanzo c’erano simili padri, non in natura. Scrivere di sentimenti era un fatto di bravura, viverli era un fatto di vocazione e di vita. Assai più complicato.

Le andava benissimo il suo, Gerri l’americano, sperso tra una fabbrica e l’altra, esaltato quanto coglione. Aveva idee chiarissime sull’argomento, non voleva gettare via neanche un attimo di sé, della sua vita, in sentimenti figliati da una vecchia insopportabile retorica sulla famiglia. Il cazzo di sentimento era solo una minaccia alla sua lucidità. Al suo equilibrio. Persino alla sua salute. Dunque niente sentimenti, che non fossero di letteratura, che non fossero di carta.

Era anche caparbia, curiosa, autoritaria, per niente incline alla commozione, come invece lo era Ciccina Frensis, ma forse solo per un fatto di vecchiaia, i vecchi piangono sempre, diceva con disprezzo Gerri.

Comunque fosse, vecchiaia o rincoglionimento, Ciccina Frensis, diventata tenera, insopportabilmente affettuosa, era però l’unica garanzia che tutto restasse com’era, sui binari di sempre, senza deragliamenti.

Emozionarsi poteva essere pericoloso, ancora peggio amare, meglio starne alla larga. Quello delle emozioni, dell’amore, era un terreno minato, su cui saltare in aria a ogni passo, e non c’era segnaletica per evitare d’andare in cocci.

Piovigginava quel pomeriggio di giugno alle 4, una fortuna. Poteva sbirciare fuori dalla vetrata, senza grossi rischi, e vedere chi c’era in cortile, di chi erano le voci che sentiva, dietro le due calate di tenda.

Tirò brusco la calata coprente di canapa, e li vide. Lo vide. Era alto, come alto, leggendo, s’era fatta l’idea che fosse un dio greco, o un eroe del tipo Achille. Non aveva più d’una ventina d’anni, ma sembrava più grande.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a concentrarsi sui singoli lineamenti del viso, occhi, bocca, naso, come faceva quando studiava su un libro d’Arte un dipinto, o un gruppo marmoreo. Il suo sorriso faceva scomparire tutto, annullava il viso stesso e declassava il resto a ruolo di dettaglio. Un sorriso invasore invadente, un sorriso bastardo, da bastardi.

Certo che vederlo in carne un ragazzo di quell’età, con quel cazzo di fisico, era tutt’altra cosa. Aveva braccia forti, muscoli potenti, sotto una tuta da lavoro della Gerri Soap.

Gioiella si riparava dalla pioggia sotto la tettoia, mentre lui sembrava non sentirla affatto la pioggia, che lieve seminava sul suo viso amplessi di strana luce, incrociando la sua carne bruna con la trasparenza delle gocce.

In quali circostanze un uomo non sente caldo né freddo, né incendio né gelo, se non quando è innamorato? Questo scrivevano fottuti poeti in fottute poesie, a meno che non fossero fottute cazzate. E ormai si era convinta che lo fossero. La vita, per chi se la poteva vivere, era ben altro. Della vita si riempiva la valigia vuota della gioventù. Era la vita il bagaglio. Un bagaglio che lei non avrebbe avuto mai, e solo per questo aveva dolosamente prolungato il tempo della fede nei poeti, un cazzo di fede.

Gioiella sembrava infastidita, seppur si mostrava impassibile come sempre. Ma la conosceva, e sapeva leggere assai bene sotto la sua maschera.

Si vedeva, invece, da come la guardava rincoglionito che il ragazzo era pazzo di lei. Un magnifico esemplare di maschio giovane, in cui ardevano giovani baccanti di sesso.

A quell’età, però, un ragazzo fa presto a cambiare idea, a quell’età un ragazzo segue i comandi del cazzo, non dei sentimenti, soprattutto se ce n’è un’altra, che gliela dà subito, che ci sta senza fare inutili storie, senza mettere tempo in mezzo, pensava Luna, nel tentativo di concedersi una possibilità, o almeno un’illusione.

In quel cazzo di sorriso c’era l’universo tutto, se voleva dirlo con una minghiata letteraria, e lei, che non aveva altro modo per conoscere l’universo, aveva già deciso per la minghiata. Come aveva deciso d’accogliere chi arrivava alla sua porta, per destino o avventura, come accoglieva gli uccelli che, di prima mattina, arrivavano sul davanzale della sua finestra e da quello capiva che era ormai giorno, ormai sole.

Il tipo aveva la tuta della Gerri Soap, quindi ci lavorava, ottima cosa. Poteva saperne di più, tenerlo d’occhio, mentre ormai già da qualche minuto lo spiava dietro i vetri e come chiara d’uovo, montata ad arte, le cresceva il disìo.

Solo pochi minuti e le sue carni adolescenti, i suoi sensi adolescenti, presero fuoco, com’era naturale. A quell’età di giovinezza il sangue correva a precipizio nelle vene come cavalli al palio della fiera.

«Tutto. Voglio sapere tutto di lui, Gioiella. Nome età da dove viene dove vive con chi vive.»

Gioiella richiuse quasi istintivamente il tendone di canapa, contrariata di trovarlo aperto. Era un’incosciente stupida imprudenza, un capriccio. Il sole poteva uscire da un attimo all’altro, da dietro quel pergolato di nuvole chiare, non chiedeva permesso il sole, faceva i suoi comodi, come voleva, quando voleva.

Era estate ormai, e quella era stata solo una burrasca pellegrina per abbeverare il grano e ingrassarlo, in attesa della mietitura. Quattro gocce passeggere, gocce sminghiate, solo in apparenza furiose.

«Come t’è venuto in mente» disse incazzata Gioiella e indicò la tenda pericolosamente aperta. «Anche se piove, pioviggina, anche se solo stizzìa, il Sole c’è. Sempre c’è. Non si vede, ma c’è, tu queste cose le sai meglio di me, tu le hai anche studiate sui libri.»

Tutto ha una doppia faccia, se uno ci sta attento, in natura come nell’animo umano. In apparenza Gioiella sembrava temere per la sorte di Luna, ma sotto sotto temeva assai più per la sua sorte.

Temeva che, per imprudenza di Luna, dovesse risponderne con la sua stessa vita, suicidandosi secondo il suo piano, già da anni perfezionato. E per quanto si dicesse pronta al gesto estremo, non lo era. La gioventù, infamia travestita da felicità, la richiamava potentemente alla vita.

«Leo si chiama, forse Leonardo, comunque alla fabbrica lo chiamano Leo. È un operaio di tuo padre, ci lavora da un paio di mesi, sostituisce uno che si è operato alla schiena e deve portare il busto di gesso.

«Per poco ancora resterà alla Gerri Soap, appena gli danno il visto per l’espatrio, parte. Va in America. Uno meno, lavoro non ne mangia affatto. Vuole tentare la strada del cinema, vuole fare il divo ed è convintissimo che ci riesce. Sicuro! In America non aspettano che lui! Lo aspettano a braccia aperte e cancinculo.»

Gioiella odiava anche solo sentirla la parola «America». Le aveva rubato sua madre l’America, dove tutti tutti volevano andare a cambiarsi la cazzo di vita.

Chissà, senza l’illusione di quel Continente, magari sua madre non si sarebbe mossa dal paese, in fondo era l’unico posto che avesse mai conosciuto.

Era stata un incubo nella sua vita questa cazzo d’America. Da che era nata, o quasi, non passava giorno che Gerri non parlasse d’America America America. Ce l’aveva sempre in pizzo di lingua, magari perché nessuno, essendoci andato, lo poteva contrastare su niente e lui le poteva sparare grosse, sempre più grosse, e lasciarli a bocca aperta gli operai analfabeti, che non si erano mai allontanati dal paese, se non per la visita di leva.

Ora anche questo manovale, belloccio, morto di fame, che non voleva saperne di lavorare, sognava l’America.

«È chiaro che ti vuole scopare, Gioiella, che sbava per te, che gli va a fuoco il cazzo per te. Gli scoppiavano le vene del collo, mentre fantasticava guardandoti il petto, e non sentiva nemmeno la pioggia, a quant’era fuso.»