Era nata una femmina. Gerri l’americano l’aveva capito subito che non era nato un maschio. Sua sorella Ciccina Frensis, presente al parto fin dai primi dolori, gli aveva detto, sottovoce e con un certo disagio, solo «entra Gerri».

Mentre gli avrebbe detto «màsculu», a gran voce, se fosse stato un maschio. Ma lui era un uomo di mondo, cazzo, era stato in America trent’anni, si era evoluto. Non era più un fottuto minghione siciliano. Era un imprenditore, ormai, e il suo portamento da ricco, i suoi stivali di pelle, il suo macchinone, unico in paese, avevano occultato nel suo più profondo, profondo più d’una voragine spaventosa, di quelle che s’aprivano quando scoppiava una bomba, il ricordo del garzone Girolamo che era stato.

Un disadattato garzone di campagna, con pochissimi muscoli, un corpo esile, e sulla faccia una sindone di terra, fango e vino, che pareva sangue, quando, a tempo di vendemmia, scalzo, pestava per settimane montagne d’uva nel palmento, e lo perdeva tutto il suo colore di bambino, diventava colore del vino, terrorizzato di restarci a vita, per un sortilegio, una maledizione, colore del vino.

Con questa ossessione, vomitava tutto il giorno, vomitava colate d’acido sull’uva maciullata, sui torrentelli di succo, spaventato angosciato di perderci anche le budella assieme al vomito.

Gli faceva impressione quel colore di sangue, lo intossicava quell’odore aspro di vino, gli toglieva il fiato, gli cuoceva il cervello.

Non l’ammazzava mai, però, mentre lui avrebbe voluto morirci, una volta o l’altra. E ci sperava, pregava, implorava. Invece no, la morte, chissà perché anche la morte, morte buttana, si era accanita contro lui, povero ragazzo senza colpa, che non bestemmiava mai, come invece bestemmiavano tutti i garzoni, e lo voleva uccidere, poco a poco, giorno dopo giorno, un tormento lento e straziante.

Di ritorno dall’America, ricco di dollari ed evoluto, aveva costruito nel suo paesone arretrato, dove nulla mai mutava, dove tutto restava appeso alle rocce incancrenite dal Tempo, una fabbrica di sapone, la prima in Sicilia. Sapone a pezzi magnifico, un’opera d’arte, un prodotto nuovo, stile americano, mentre ancora in Sicilia, che vergogna, usavano la cenere per lavare e lavarsi, le poche volte che lavavano e si lavavano.

Nella sua fabbrica si produceva sapone a pezzi per la biancheria, sapone in polvere per piatti e bicchieri, saponette per lavarsi faccia mani petto culo ascelle, persino i piedi. Prodotti moderni, all’avanguardia, che portavano il suo nome, non quello della nascita, Girolamo, brutto rozzo nome di paese, ma quello americano, Gerri, che lo aveva battezzato alla sua nuova, magnifica, evoluta vita imprenditoriale, ormai realtà, la Gerri Soap.

Lo aveva capito prima di tutti che la fabbrica, la produzione industriale, l’imprenditoria erano il futuro, mentre la zappa, il forcone, la vigna, erano il passato, un passato barbaro, un passato del cazzo, che però non c’era riuscito a farlo fesso. E quel cazzo di passato lo aveva ormai definitivamente seppellito, assieme ai suoi puzzolenti fantasmi.

La pubblicità era l’anima dell’impresa. In America, a Chicago, dove aveva imparato da operaio semplice, poi capoturno, infine capofabbrica, c’era in ogni fabbrica un ufficio che si occupava solo di creare pubblicità, la migliore a fare vendere, a fare bisinès.

Solo la pubblicità faceva la differenza, a parità di prodotto, e il prodotto sapone, in tutte le sue forme, era diffusissimo in America, per quanto invece era sconosciuto in Sicilia. La pubblicità, se fatta bene, era proprio come una poesia, di quelle che si imparano a memoria da bambini, quando la mente è affamata, e non si dimenticano mai più da adulti. Restava nella testa per sempre, e produceva sempre nuovo bisinès. Se alla pubblicità della frase d’effetto, si univa la musica, tanto meglio. Un ritornello, una canzonetta se la ricordavano facilmente tutti, anche a essere analfabeti, se solo fossero stati un tantino intonati.

«Sì.» Sua sorella Ciccina, Francesca all’anagrafe, che in America si sarebbe chiamata Frensis, disse solo «sì». Era una femmina. E lo disse davanti alla levatrice del nord, una bella ragazzona sui trent’anni. Bionda. Alta. Lui adorava le bionde alte. Ce n’erano pochissime in Sicilia. Se erano bionde non erano alte, se erano alte non erano bionde. Lei, la signorina levatrice nordica, era bionda e alta. Proprio il suo tipo.

Non doveva perdere l’occasione di dimostrare a una del Nord, emancipata tanto da trasferirsi per lavoro a due giorni di treno dalla sua terra, che anche lui era emancipato, evoluto, americano, proiettato sul bisinès.

Maschio e femmina erano uguali, ormai, almeno in America. Non faceva differenza nascere una o l’altro. Non lo pensava veramente, ma lo disse.

A voce alta lo disse, forte e determinato, per fare scena, come se ci credesse veramente, mentre sua moglie Gelsomina parlava, a tu per tu, con la Madonna e, ormai ristorata dalle fatiche del parto, riprendeva persino colore. Ma, mentre subito aveva chiesto un coltellino e un pezzo di sughero, non aveva chiesto affatto di vedere sua figlia, già lavata e vestita dentro la culla.

Dal letto grande, però, sollevata sulla schiena, con acrobatiche torsioni del busto, inadatte dopo un simile parto, in un certo senso prendeva già le misure alla bambina.

A occhio valutava di quanti centimetri di circonferenza potesse avere la testa, magari pensando già a una scultura provvisoria nel sughero, un bozzetto, per poi farne una definitiva, incidendo a regola d’arte, un bel tocco di nocciòlo o castagno.

Misure di neonato, perfette per un angioletto, quel bel faccino, quei lineamenti fini, quella carnagione chiara.

Bella, era proprio bella la bambina, ma per il legno. Una modella ideale proprio per uno di quegli angioletti, che si mettevano sulla tomba dei bimbi nati morti, o di quelli che morivano di pochi mesi, per una sommaria diagnosi, una generica botta di latte, quando non si capiva di che cosa fossero realmente morti.

L’idea comune era che il Signore ogni tanto reclutava angioletti nuovi, man mano che gli altri invecchiavano, e li sostituiva ai vecchi.

In Paradiso era bello vedere la bellezza, la giovinezza, e questo principio valeva anche per gli angeli. Angeli belli con viso di bimbi belli. Non per niente, in vista del Paradiso e delle sue meraviglie, si finiva in ultimo con l’accettarla la morte, senza più averne terrore, quella morte che, pure, faceva una paura immensa da giovani.

I preti usavano il Paradiso anche per vendere, a buon prezzo, qualche assoluzione, quando, dietro il confessionale, il peccato sparato era bello grosso, un peccato capitale.

Ci volevano andare tutti in Paradiso, perché si stava bene, il clima era mite, eccellente, il panorama magnifico. C’era sempre da mangiare, a volontà, per tutti i residenti, e si viveva in pace, soddisfatti tutti, ricchi e poveri, buoni e delinquenti.

I buoni dovevano guadagnarselo il Paradiso con la virtù della misericordia e dell’agire da buoni, invece ai delinquenti, ma solo ai delinquenti che potevano pagare bene, si faceva un grande sconto sull’attestato delle buone azioni. Per loro si chiudeva uno o tutt’e due gli occhi, e gli si garantiva lo stesso il Paradiso.