C’era solo la biondina, col suo cazzo di nome, Luna. Che scherzi di minghia erano. Con un gesto della mano, come si faceva coi cani non coi cristiani, la figlia di Gerri l’americano gli chiedeva di seguirla, di sicuro in una grande stanza con un grande comodo letto.

Bene, si cominciava e subito, scongiurato ormai il pericolo che fosse solo lo scherzo di due stronze, snob depravate annoiate, col culo pieno di chi aveva già tutto, che, poi, magari gli ridevano in faccia e lo trattavano da stronzo perché s’era illuso, perché ci aveva creduto.

Non c’era traccia di Gioiella, di sicuro lo aspettava già nuda sotto la luce della candela. Alla penombra il suo corpo, nudo, attraversato da rami di luce, doveva essere eccitantissimo, e il suo cazzo s’eccitò subito, già solo al pensiero, anzi ancor prima del pensiero stesso.

Nella sua stanza, tre in avanti sul corridoio rispetto a quella di Luna, nascosta sotto una trapunta invernale pesante, eppure erano giorni caldi di scirocco, Gioiella viveva da sola gli spasimi della febbre, con brividi feroci al petto, alle spalle, alle braccia, alle gambe, ai ginocchi.

Non aveva l’influenza, né l’intossico. Era un male dell’anima a farla tremare tutta, come la terra quando la squassa la violenza, imprevista e infinita, d’un terremoto. Un male dell’anima, che il corpo faceva suo, frustato ovunque da dolore, da tremore, da brividi, da spaventosi sussulti, accartocciato tale che ne spariva l’altezza, ne sparivano gli arti. Restava solo un manichino abbandonato in una discarica, senza testa senza braccia senza gambe.

Nell’assedio di quel dolore, di quel tremore, il suo corpo si era, cosa incredibile, trasformato, era quasi scomparso.

Sembrava un numero da circo, quando, con mosse esperte veloci, sotto gli occhi sbalorditi di tutti, la ballerinetta contorsionista faceva sparire la sua testa nella cava delle sue stesse cosce, e di lei restava solo, raccolta ad arco, la schiena ossuta e lucente per i trucchi dell’unguento. L’inganno dei sensi faceva poi il resto.

Di Gioiella, oltre un metro e settanta d’altezza, nel letto c’era solo un pezzetto di carne pavida, che lasciava ossi sul materasso, attenta a non farsi sentire, a non farsi sfuggire neanche un solo lamento, un grido, un singhiozzo, soffocati sul nascere, sotto la coperta.

Il pensiero era sempre quello, un’ossessione da ventiquattr’ore ormai.

La braccava per visioni devastanti, per allucinazioni spaventose. Poteva forse essere una soluzione quella d’accecarsi con le sue stesse dita, strappandosi gli occhi, senza un grido? oppure trafiggersi le pupille con un chiodo lungo, di quelli sul muro del palmento, a cui s’appendevano i panieri della vendemmia? Lo aveva pensato, quasi realizzato, fermandosi appena un attimo prima.

Farle scomparire subito doveva, quelle immagini persecutorie, disintegrandole, come quando, a pietrate, distruggeva la sua immagine riflessa dentro l’acqua del pozzo. E il suo viso si eclissava, all’istante, maciullato in scomposta bellezza da una pietra, solo da una piccola pietra che sconsacrava la quiete dell’acqua. Ma la mente, l’anima, non erano un riflesso dentro l’acqua cheta d’un pozzo.

Aveva pure pensato a una più radicale soluzione che non fosse accecarsi. Ammazzarsi tutta, per ammazzare solo la sua pena, il suo tormento, centrandoli al cuore, da dove cominciava e finiva la vita. Gettarsi nel suo pozzo di mattoni rossi, annegare in quella magnifica tomba d’acque chete, che lei teneva pulitissima, sempre pronta, e custodiva come fosse il suo letto di sposa, per quando fosse arrivato il momento di morire, uccidendosi.

Come avevano potuto poche ore, minimi gesti, cambiarle la vita, una miserabile vita di cui aveva o s’illudeva d’avere il pieno controllo?

Eppure il sole c’era ancora, 24 ore dopo, eppure i gelsi erano là stremati di frutto, eppure la notte col suo azzòlo faceva il suo mestiere, come sempre. Quindi nulla era mutato oltre il confine della sua testa e del suo cuore.

Ormai, sopraffatta da un’angoscia spaventosa, da cui neppure il suo cinismo, la sua apparente indifferenza, potevano più proteggerla, voleva solo sparire, voleva solo morire.

Nel tempo d’un giorno, 24 ore, 1440 minuti, 86.400 secondi, aveva rivissuto, un milione di volte, quella scena, quelle luci, quei movimenti, quei dettagli. E un milione di volte l’aveva azzannata lo stesso lancinante dolore, sconosciuto solo 24 ore prima, che le sbranava cuore testa stomaco, e contro cui non valeva, di sicuro, l’acqua bollita con l’alloro di Ciccina Frensis, un toccasana per tutto.

Un paradiso e un inferno era stato, un paradiso e un inferno era, per una come lei, che non credeva nel Paradiso e non credeva nell’Inferno. Per una, come lei, che si era attrezzata a una vita piatta, indolore, sotto anestesia, una vita che nulla poteva mai molestare, dove nulla mai poteva succedere di nuovo, spaventoso, sconosciuto.

Una vita senza domande, se si escludeva l’irrisolta domanda del suo strano nome, sul perché si chiamasse Gioiella, come nessun’altra ragazza in paese. Ma non c’era stata mai risposta, il segreto era custodito in America da una madre, che aveva perso a quattro anni, che l’aveva venduta per pochi spiccioli a un finto americano.