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In cui tutto si svolge fra gente che pesa le parole e in cui, ancora una volta, c’è di mezzo il Lagnoso

La facciata, fra la bottega di un ciabattino e una lavanderia dove si vedevano le stiratrici all’opera, era così stretta che la maggior parte dei passanti non doveva neanche accorgersi che lì c’era un bar. Impossibile poi dare una sbirciatina all’interno, per via dei vetri fatti con fondi di bottiglia verdastri. Sopra la porta, dissimulata da una tenda rosso cupo, era sospesa una lanterna vecchio stile con la scritta «Pickwick’s Bar» dipinta in caratteri più o meno gotici.

Non appena Maigret ebbe varcato la soglia, in lui si produsse una sorta di trasformazione: sembrò irrigidirsi, diventare più impersonale, e un analogo cambiamento si manifestò automaticamente anche nell’atteggiamento di Janvier.

Il bar, disposto tutto per il lungo, era deserto. A causa dei fondi di bottiglia e della facciata particolarmente stretta, il locale era buio, con qualche sprazzo di luce qua e là sui rivestimenti di legno.

Un uomo in maniche di camicia, che al loro ingresso si era alzato, fece un movimento come per posare qualcosa, probabilmente un panino che stava mangiando seduto dietro il banco, nascosto alla vista di chi entrava.

Con la bocca ancora piena, li guardò avanzare verso di lui in silenzio e con un’espressione impassibile. Aveva capelli corvini, dai riflessi quasi blu, sopracciglia folte che gli davano un’aria cocciuta e una fossetta in mezzo al mento, profonda come una cicatrice.

In apparenza Maigret lo guardò solo di sfuggita, ma era evidente che i due uomini si erano riconosciuti e che non si affrontavano per la prima volta. Il commissario avanzò lentamente verso uno dei tanti sgabelli alti del locale, vi si sedette sbottonandosi il cappotto e spingendo indietro il cappello, e lo stesso fece Janvier.

Dopo un attimo di silenzio, l’uomo domandò:

«Bevete qualcosa?».

Maigret, un po’ incerto, guardò Janvier.

«Che ne dici?».

«Faccia lei, capo».

«Allora due pernod, se ne hai».

Serviti i pernod e posata sul banco di mogano una caraffa di acqua ghiacciata, Albert restò in attesa, e per un momento sembrò quasi che stessero giocando a chi sarebbe rimasto più a lungo in silenzio.

A romperlo fu il commissario.

«A che ora è venuto Lognon?».

«Non sapevo che si chiamasse Lognon. L’ho sempre sentito chiamare il Lagnoso».

«Che ora era?».

«Forse le undici... Non ho guardato l’orologio».

«Dove l’hai mandato?».

«Da nessuna parte».

«Che cosa gli hai detto?».

«Ho solo risposto alle sue domande».

Intanto Maigret infilzava delle olive in una coppetta appoggiata sul banco e le mangiava una via l’altra con aria distratta.

Non appena l’uomo si era alzato da dietro il banco, Maigret aveva immediatamente riconosciuto in lui un certo Albert Falconi, un còrso che aveva spedito in prigione almeno un paio di volte con l’accusa di tenere una bisca clandestina e di trafficare in oro con il Belgio. Inoltre c’era il fondato sospetto che avesse fatto fuori un tizio della banda dei Marsigliesi, ma non si erano trovate prove al riguardo ed era stato rilasciato.

Doveva avere trentacinque anni.

Da tutte e due le parti si evitavano parole inutili. Erano, in un certo senso, dei professionisti, e le frasi pronunciate avevano un peso e un senso ben precisi.

«Martedì, quando hai visto il giornale, hai riconosciuto la ragazza?».

Albert non disse né sì né no, e continuò a fissare il commissario con occhio impassibile.

«Quanti clienti c’erano qui, lunedì sera, quando è venuta?».

Maigret osservò il locale stretto e lungo. A Parigi esistono molti bar simili a quello, e a chiunque capiti di entrarci all’improvviso quando sono vuoti viene naturale domandarsi come possano sopravvivere. Il fatto è che questi locali contano su una clientela di habitué, tutta gente che proviene dallo stesso ambiente e che si ritrova regolarmente lì a ore fisse.

Albert, probabilmente, al mattino non apriva neanche. Quel giorno doveva essere appena arrivato e non aveva ancora finito di sistemare le bottiglie. Alla sera, in compenso, tutti gli sgabelli davanti al banco erano di sicuro occupati, e gli altri avventori avevano giusto lo spazio necessario per intrufolarsi rasente il muro. In fondo al locale s’intravedeva una scala ripida che portava allo scantinato.

Albert sembrava anche lui contare gli sgabelli, e finì col dire:

«Era più o meno pieno».

«È arrivata fra mezzanotte e l’una?».

«Direi proprio verso l’una».

«L’avevi già vista?».

«No. Era la prima volta».

Dovevano essersi voltati tutti a guardare Louise, squadrandola con curiosità. Le uniche donne che frequentavano quel bar erano delle prostitute, quindi molto diverse dalla ragazza. Senza dubbio l’abito da sera decisamente logoro e la cappa di velluto non della sua misura avevano suscitato un certo stupore.

«Che cosa ha fatto?».

Albert aggrottò le sopracciglia, come quando ci si sforza di ricordare.

«Si è seduta».

«Dove?».

L’uomo guardò di nuovo gli sgabelli.

«Più o meno dove sta lei. Era l’unico posto libero vicino alla porta».

«Che cosa ha bevuto?».

«Un martini».

«Ha subito ordinato un martini?».

«Quando le ho chiesto cosa prendeva».

«E poi?».

«È stata un bel po’ senza dir niente».

«Aveva una borsetta?».

«Una borsetta d’argento, sì. L’aveva appoggiata sul banco».

«Sono le stesse domande che ti ha fatto Lognon?».

«Non nello stesso ordine».

«Continua».

«Preferisco rispondere».

«Ti ha domandato se avevi una lettera per lei?».

Albert fece segno di sì.

«Dov’era la lettera?».

L’uomo si girò, come al rallentatore, e indicò un posto – fra due bottiglie di un liquore che non doveva essere molto richiesto – dove si trovavano alcune buste destinate ai clienti.

«Qui».

«Gliel’hai consegnata?».

«Prima le ho chiesto la carta d’identità».

«Perché?».

«Perché mi aveva raccomandato di farlo».

«Chi?».

«Il tizio che ha lasciato la lettera».

Non si sbilanciava, diceva il minimo indispensabile, e durante le pause si capiva che cercava di prevedere la domanda seguente.

«Jimmy?».

«Sì».

«Come fa di cognome?».

«Non lo so. Nei bar, di solito, la gente non si presenta con il cognome».

«Dipende dai bar».

Albert alzò le spalle, come a indicare che non si era offeso.

«Parlava francese?».

«E neanche male, per un americano».

«Che tipo era?».

«Lo sa meglio di me, no?».

«Tu dimmelo comunque».

«Mi ha dato l’impressione di uno che ha passato un po’ di anni al fresco».

«Uno piccolo, mingherlino, malaticcio?».

«Sì».

«Era qui lunedì?».

«No, se n’era andato da Parigi da cinque o sei giorni».

«E prima veniva ogni giorno?».

Albert annuì flemmatico, e vedendo i loro bicchieri vuoti prese a versare dell’altro pernod.

«Passava qui la maggior parte del suo tempo».

«Sai dove abitava?».

«In un albergo del quartiere, immagino, ma non so quale».

«Te l’aveva già consegnata, la busta?».

«No. Mi aveva solo detto che se la ragazza veniva a chiedere di lui dovevo dirle a che ora poteva trovarlo».

«Cioè quando?».

«Il pomeriggio a partire dalle quattro, poi quasi tutta la sera, fino a molto tardi».

«A che ora chiudi?».

«Alle due o le tre del mattino, dipende».

«Con te parlava?».

«Qualche volta».

«Di sé?».

«Un po’ di tutto».

«Ti ha detto che era uscito di prigione?».

«Me l’ha fatto capire».

«Sing Sing?».

«Credo. Se è nello Stato di New York, sulle rive dell’Hudson, è quella».

«Ti ha detto cosa conteneva la busta?».

«No. Solo che era importante. Aveva fretta di andarsene».

«Per via della polizia?».

«No. Di sua figlia. Si sposa la settimana prossima a Baltimora. Per questo non ha potuto fermarsi di più».

«Ti ha descritto la ragazza che sarebbe venuta?».

«No. Mi ha solo raccomandato di assicurarmi che fosse proprio lei. Per questo le ho chiesto di farmi vedere la carta d’identità».

«Ha letto la lettera qui al bar?».

«No, è andata giù».

«Cosa c’è, giù?».

«Le toilette e le cabine del telefono».

«Credi che sia andata là a leggersi la lettera?».

«È probabile».

«Ha portato con sé la borsetta?».

«Sì».

«Che faccia aveva quando è risalita?».

«Meno depressa di quella che aveva quando è entrata».

«Aveva bevuto prima di venire qui?».

«Non lo so. Può darsi».

«Dopo che cosa ha fatto?».

«È tornata a sedersi al bar».

«E ha ordinato un altro martini?».

«Non lei. L’altro americano».

«E chi sarebbe?».

«Un marcantonio con le orecchie a sventola e una cicatrice».

«Lo conosci?».

«Quello? Non so neanche come si chiama».

«Quand’è che ha cominciato a venire qui?».

«Più o meno nello stesso periodo di Jimmy».

«Si conoscevano?».

«Jimmy sicuramente non lo conosceva».

«E l’altro?».

«Mi ha dato l’idea che lo pedinasse».

«Veniva negli stessi orari?».

«Più o meno. Con un macchinone grigio che parcheggiava proprio davanti all’ingresso».

«Ti ha mai parlato di lui, Jimmy?».

«Mi ha chiesto se lo conoscevo».

«Gli hai risposto di no?».

«Già. E sembrava preoccupato. Secondo lui era uno dell’F.B.I. che lo teneva d’occhio e voleva sapere cosa ci faceva in Francia».

«E tu credi che sia così?».

«È un pezzo che non credo più niente».

«Quando Jimmy è ripartito per gli Stati Uniti, l’altro ha continuato a venire?».

«Sì. Regolarmente».

«C’era un nome, sulla busta?».

«Louise Laboine. E sotto: Parigi».

«I clienti potevano leggerlo, stando seduti al banco?».

«Assolutamente no».

«Non ti allontani proprio mai dal bar?».

«Non quando c’è gente. Non mi fido di nessuno».

«L’americano ha rivolto la parola alla ragazza?».

«Le ha chiesto se poteva offrirle qualcosa».

«Ha accettato?».

«Mi ha guardato come per chiedermi consiglio. Si capiva che non ci era abituata».

«Le hai fatto segno di accettare?».

«Non le ho fatto nessun segno. Mi sono limitato a servire due martini, poi me ne sono andato dalla parte opposta del banco, dove mi stavano chiamando, e a quei due non ho più badato».

«Sono andati via insieme?».

«Credo».

«In macchina?».

«Ho sentito avviare un motore».

«È tutto? Ed è quello che hai detto anche a Lognon?».

«Non proprio, perché lui mi ha fatto altre domande».

«Quali?».

«Per esempio, se il tizio aveva telefonato. Gli ho risposto di no. Poi, se sapevo dove abitava. E gli ho detto ancora di no. E infine se avevo idea di dove poteva essere andato».

Adesso Albert fissava con insistenza Maigret e aspettava.

«Allora?».

«Dirò anche a lei quello che ho detto al Lagnoso. Il giorno prima l’americano mi aveva chiesto qual era la strada migliore per Bruxelles. Gli ho consigliato di uscire da Parigi attraversando Saint-Denis, passare per Compiègne, poi...».

«È tutto?».

«No. Più o meno un’ora prima che arrivasse la ragazza, mi ha parlato ancora una volta di Bruxelles. Voleva l’indirizzo di un buon albergo. Gli ho risposto che io scendo sempre al Palace, davanti alla Gare du Nord».

«Che ora era quando hai dato queste informazioni a Lognon?».

«Circa l’una di notte. C’è voluto più tempo che con lei, perché intanto dovevo servire i clienti».

«Hai un orario ferroviario?».

«Se cerca i treni per Bruxelles, non occorre l’orario. L’ispettore è andato giù a telefonare alla stazione. Non c’erano più treni per quella notte. Il primo era alle cinque e trenta del mattino».

«Ti ha detto che avrebbe preso quello?».

«Non aveva bisogno di dirmelo».

«Secondo te che cos’ha fatto fino a quell’ora?».

«Lei cosa avrebbe fatto?».

Maigret rifletté. Erano saltati fuori due stranieri, che, a quanto pareva, avevano abitato tutti e due nel quartiere, e che, tutti e due, avevano scoperto il Pickwick’s Bar.

«Credi che Lognon abbia fatto il giro degli alberghi qui intorno?».

«È lei che indaga, no? Non sono responsabile del Lagnoso, io».

«Scendi giù, Janvier, e telefona per favore a Bruxelles. Senti se al Palace hanno visto Lognon. Dev’essere arrivato intorno alle nove e mezzo del mattino. Forse è lì che aspetta l’americano».

Durante l’assenza dell’ispettore Maigret non aprì bocca, e Albert, ritenendo concluso il loro colloquio, si era seduto dietro il banco e aveva ripreso a mangiare.

Il commissario non aveva nemmeno toccato il secondo bicchiere, ma in compenso aveva svuotato la coppetta di olive. Teneva lo sguardo fisso sulla prospettiva della sala, sugli sgabelli allineati, sulla scaletta in fondo, e sembrava riempire mentalmente quello scenario immaginando la gente che si trovava lì lunedì sera, quando Louise Laboine, in abito da sera azzurro, cappa di velluto e borsetta d’argento in mano, aveva fatto il suo ingresso.

Una ruga profonda gli attraversava la fronte. Per due volte aprì la bocca per parlare, ma entrambe le volte cambiò idea.

Passarono più di dieci minuti e Albert ebbe modo di finire il suo pasto, raccogliere le briciole di pane sul ripiano del banco e bere il caffè. Poi, afferrato uno straccio alquanto sudicio, si mise a spolverare le bottiglie sullo scaffale, e a quel punto riapparve Janvier.

«Lognon è al telefono, capo. Vuole parlargli?».

«È inutile. Digli che può tornare».

Janvier esitò, senza riuscire a nascondere la sua sorpresa. Si chiedeva se aveva capito bene, se Maigret aveva riflettuto abbastanza... Alla fine, abituato com’era a obbedire, fece dietrofront borbottando:

«Bene!».

Albert era rimasto impassibile, ma i lineamenti del suo viso si erano induriti. Continuava a spolverare meccanicamente le bottiglie a una a una, e pur dando le spalle al commissario poteva vederlo nello specchio che si trovava dietro le mensole.

Janvier tornò su e Maigret domandò:

«Ha protestato?».

«Ha cominciato a dire qualcosa ma si è fermato. Si è limitato a rispondere:

«“Se è un ordine...”».

Maigret si alzò, si abbottonò il cappotto, raddrizzò il cappello, e disse semplicemente:

«Vestiti, Albert».

«Cosa?».

«Ho detto: vestiti. Andiamo a fare una passeggiata al Quai des Orfèvres».

L’altro sembrava non capire.

«Non posso lasciare il bar...».

«Hai una chiave, no?».

«Ma insomma, che cosa volete da me? Vi ho detto quello che sapevo».

«Dobbiamo portarti con la forza?».

«Vengo, vengo. Ma...».

Albert si ritrovò seduto sul sedile posteriore dell’auto di servizio, da solo, e durante tutto il tragitto non aprì bocca. Guardava sdegnosamente davanti a sé, con il cipiglio di chi cerca di capire. Neanche Janvier parlava. Maigret, dal canto suo, fumava la pipa in silenzio.

«Sali!».

Quando furono davanti al suo ufficio, lo fece passare per primo. E chiese a Janvier in modo che Albert sentisse:

«Che ora è a Washington?».

«Devono essere le otto del mattino».

«Prima che tu abbia la comunicazione, anche se la chiedi urgente, saranno quasi le nove. Chiamami l’F.B.I. Se c’è Clark, vedi di averlo in linea. Vorrei parlargli».

Con calma si tolse cappello e cappotto e li ripose nell’armadio.

«Puoi levarti il cappotto, Albert. Ne abbiamo per un po’».

«Ancora non mi ha detto perché...».

«Quante ore sei rimasto in questo ufficio la volta dei lingotti d’oro?».

Albert non aveva bisogno di fare un grosso sforzo di memoria.

«Quattro».

«Hai notato niente sul giornale, martedì mattina?».

«La fotografia della ragazza».

«Ce n’era un’altra, di fotografia. Quella di tre tizi, tre duri... “La banda del buco”, li chiamavano. Be’, erano le tre del mattino quando hanno confessato, ed erano entrati in questo ufficio molto, molto prima. Trenta ore prima».

Maigret andò a sedersi al suo posto e mise in ordine le pipe, ma come se stesse cercando la migliore.

«Tu, invece, hai preferito sputare il rospo dopo quattro ore. Per me non fa differenza. Qui siamo in parecchi a darci il cambio e abbiamo tutto il tempo che ci serve».

Afferrò quindi il ricevitore del telefono e compose il numero della Brasserie Dauphine.

«Qui Maigret. Può mandarmi qualche panino e della birra?... Per quante persone?...».

Si ricordò che nemmeno Janvier aveva mangiato.

«Per due! E quattro birre. Subito, per favore».

Si accese la pipa, andò verso la finestra e lì si fermò un attimo a guardare il viavai di macchine e pedoni sul pont Saint-Michel.

Dietro di lui Albert si accese una sigaretta cercando di controllare il tremito della mano e con l’aria pensosa di chi soppesa il pro e il contro della situazione.

«Che cosa vuol sapere?» domandò alla fine, ancora esitante.

«Tutto».

«Ma le ho detto la verità».

«No».

Maigret non si girò neanche per guardarlo in faccia. Visto così, di spalle, aveva proprio l’aria di uno che non ha nient’altro da fare che aspettare fumando la pipa e osservando il traffico giù in strada.

Albert rimase di nuovo in silenzio. E per un bel pezzo: il ragazzo del ristorante ebbe il tempo di arrivare col suo vassoio e posarlo sulla scrivania.

Maigret andò ad aprire la porta dell’ufficio degli ispettori.

«Janvier!».

«Avrò Washington in linea fra una ventina di minuti» disse questi entrando.

«Vieni, serviti. È per noi due».

E intanto gli fece segno di andarsi a mangiare il panino e bersi la birra nell’ufficio accanto.

Quindi Maigret si mise comodo e cominciò a mangiare. I ruoli si erano invertiti. Poco prima, al Pickwick’s Bar, era Albert a fare uno spuntino dietro il suo banco.

Il commissario sembrava aver dimenticato la sua presenza. Masticava e beveva ogni tanto un sorso di birra come se non pensasse a nient’altro, mentre il suo sguardo vagava sui fogli sparsi sulla scrivania.

«È molto sicuro di sé, eh?».

Maigret annuì con la bocca piena.

«S’immagina forse che vuoterò il sacco?».

Il commissario alzò le spalle, come per dire che la cosa gli era indifferente.

«Perché ha richiamato indietro il Lagnoso?».

Maigret sorrise.

E a quel punto Albert smozzicò con rabbia la sigaretta che teneva in mano, bruciandosi probabilmente le dita, e grugnì:

«Merda!».

Era troppo teso per restarsene seduto. Si alzò, andò verso la finestra e appoggiò la fronte al vetro fissando a sua volta il viavai della strada.

Quando si girò, aveva preso una decisione e il suo nervosismo era sparito, i suoi lineamenti rilassati. Senza che nessuno lo avesse invitato a farlo, bevve un sorso di birra da uno dei bicchieri che restavano sul vassoio, si asciugò la bocca e tornò a sedersi al suo posto. Era l’ultimo gesto di sfida, tanto per salvare la faccia.

«Come ha indovinato?».

E Maigret rispose tranquillamente:

«Non l’ho indovinato. L’ho saputo subito».