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La servetta che non sa telefonare e la vecchia signora di rue de Clichy

Vagamente imbronciato e un po’ deluso, Maigret si era fermato in ufficio fino alle sette e aveva poi preso l’autobus per tornare a casa, in boulevard Richard-Lenoir. Qui, bene in vista su un tavolino, c’era un giornale con la fotografia della sconosciuta in prima pagina, ed era assai probabile che nel testo si accennasse al fatto che a occuparsi del caso era il commissario Maigret.

Sua moglie, tuttavia, non gli fece domande. E neppure cercò di distrarlo, tanto che a un certo punto, mentre stavano mangiando uno di fronte all’altra ed erano quasi arrivati al dessert, il commissario, sorpreso di trovarla così pensosa, le lanciò qualche occhiata.

Chissà se stavano pensando alla stessa cosa... Più tardi andò a sedersi nella solita poltrona, accese la pipa e dette una scorsa al giornale mentre la signora Maigret sparecchiava e lavava i piatti. Solo quando gli si sedette di fronte, con un cestino pieno di calze e calzini sulle ginocchia, lui la guardò un paio di volte di sfuggita e finì per borbottare con finta indifferenza:

«Mi domando in quali occasioni una ragazza sente l’urgente bisogno di procurarsi un vestito da sera».

Chissà perché, ebbe la certezza che anche sua moglie avesse continuato a rifletterci sopra. E avrebbe persino giurato, dal lieve sospiro di soddisfazione che si lasciò sfuggire, che aspettava solo che lui gliene parlasse.

«Forse non è necessario cercare tanto lontano» disse lei.

«Che cosa vuoi dire?».

«Che a un uomo, per esempio, non verrebbe mai in mente di mettersi lo smoking o il frac senza una ragione precisa. Per una ragazza, è diverso. Quando avevo tredici anni, ho lavorato ore e ore, di nascosto, per accomodare un vecchio vestito da sera che mia madre stava per buttare via».

La guardò, sorpreso, come se a un tratto avesse scoperto un lato sconosciuto del carattere di sua moglie.

«Qualche volta, di sera, quando tutti pensavano che dormissi, mi alzavo, indossavo quel vestito e mi guardavo allo specchio. E una volta che i miei genitori erano usciti l’ho infilato, mi sono messa le scarpe di mia madre, che naturalmente mi erano grandi, e sono andata fino all’angolo della strada».

Lui tacque per qualche minuto senza notare che sua moglie, facendogli quella confidenza, era arrossita.

«Ma avevi tredici anni» disse poi.

«Ricordi che ti ho parlato diverse volte di una mia zia, zia Cécile, che per qualche anno è stata molto ricca ma il cui marito ha perso tutto da un giorno all’altro? Tu non l’hai conosciuta. Be’, lei si chiudeva spesso in camera e passava delle ore a pettinarsi e vestirsi come per una serata all’Opéra. Se qualcuno bussava alla porta, diceva di avere l’emicrania. Un giorno ho spiato dal buco della serratura e ho scoperto la verità: si stava contemplando allo specchio dell’armadio e agitava il ventaglio sorridendo con civetteria».

«Altri tempi, mia cara...».

«Pensi che le donne siano cambiate?».

«Ci vuole una ragione più seria per precipitarsi alle nove di sera da Mademoiselle Irène, chiedere un vestito da sera avendo in tasca solo due o trecento franchi, indossarlo immediatamente e andarsene via sotto la pioggia».

«Quello che intendo dire è che può trattarsi di una ragione che un uomo non troverebbe seria».

Capiva ciò che sua moglie voleva dire, ma non ne era convinto.

«Hai sonno?».

Lui fece cenno di sì, e andarono a dormire presto. Al mattino tirava vento, il cielo minacciava pioggia, e la signora Maigret gli fece prendere l’ombrello. Una volta in ufficio, il commissario fu lì lì per non rispondere al telefono perché, quando questo prese a suonare, lui stava per uscire dalla stanza, diretto al consueto rapporto quotidiano. Era già sulla porta, ma tornò indietro.

«Pronto! Qui, commissario Maigret».

«C’è qualcuno che non vuol dire il suo nome e chiede di parlarle personalmente» annunciò il centralinista.

«Me lo passi».

Avuta la comunicazione, sentì una voce stridula, così forte da far vibrare il ricevitore, la voce di qualcuno che non ha molta dimestichezza con il telefono.

«È il commissario Maigret?».

«Sì, sono io. Chi parla?».

Silenzio.

«Pronto! Dica pure, l’ascolto».

«Posso dirle qualcosa sulla ragazza che è stata uccisa».

«Quella di place Vintimille?».

Ancora silenzio. Gli venne il sospetto che all’altro capo del filo ci fosse un bambino.

«Mi dica... Sa chi è?».

«Sì. So dove abitava».

Adesso Maigret era convinto che i silenzi che la sua interlocutrice lasciava cadere tra una frase e l’altra non fossero dovuti all’incertezza, bensì al fatto che il telefono la metteva in agitazione. Invece di parlare gridava, e teneva la bocca troppo vicina all’apparecchio. Una radio, da qualche parte, trasmetteva musica, e si coglieva anche il pianto di un neonato.

«Qual è l’indirizzo?».

«Rue de Clichy, numero 113 bis».

«Lei chi è?».

«Se vuole delle informazioni, non ha che da chiedere alla vecchia del secondo piano... Il suo nome è Crêmieux».

Al commissario arrivò un’altra voce che gridava:

«Rose!... Rose!... Che cosa...?».

Poi, quasi immediatamente, la sconosciuta riattaccò.

Maigret fece una breve puntata nell’ufficio del capo, dopodiché uscì portandosi dietro Janvier che era appena arrivato.

Il giorno prima l’ispettore aveva battuto invano tutta la città. Quanto a Lognon, che si era dedicato ai locali notturni e ai tassisti, non aveva dato segno di vita.

«Sembrava una giovane domestica appena arrivata dalla campagna» disse Maigret all’ispettore. «Ha un accento particolare, ma non capisco di quale regione».

Il 113 bis di rue de Clichy era un edificio borghese come la maggior parte delle case del quartiere. I due uomini si fermarono un momento dalla portinaia, una donna sui quarant’anni che li guardò entrare con occhio diffidente.

«Polizia giudiziaria» disse subito Maigret mostrando il distintivo.

«Che cosa volete?».

«Abita qui una certa signora Crêmieux?».

«Secondo piano a sinistra».

«È in casa?».

«A meno che sia uscita a fare la spesa... Ma non l’ho vista passare».

«Vive sola?».

La donna non sembrava avere la coscienza del tutto tranquilla.

«Un po’ sì e un po’ no».

«Come sarebbe?».

«Ogni tanto c’è qualcuno da lei».

«Un parente?».

«No. In fin dei conti non vedo perché dovrei stare zitta. Si arrangerà. Diciamo che le capita di subaffittare a qualche ragazza».

«Solo per brevi periodi?».

«Lei preferirebbe avere qualcuno di stabile, ovvio, ma col carattere che si ritrova, dopo un po’ le fa scappare. L’ultima doveva essere la quinta o la sesta».

«Perché non ce l’ha detto subito?».

«Perché la prima volta che ha preso in casa qualcuno, una ragazza che faceva la commessa alle Galeries, mi ha chiesto di dire che era sua nipote».

«Le ha dato una mancia?».

La donna alzò le spalle.

«Prima di tutto il proprietario non permette di subaffittare. Poi quando si affitta una camera ammobiliata si deve andare al commissariato e riempire un mucchio di scartoffie. E per finire non credo che la vecchia dichiari quelle entrate al fisco».

«È per questo che non ci ha avvertiti?».

La donna capì a cosa si riferiva il commissario. D’altronde su una sedia c’era ancora un quotidiano del giorno prima, con la fotografia della sconosciuta in bella evidenza.

«La conosce?».

«È l’ultima».

«In che senso?».

«L’ultima inquilina. L’ultima “nipote”, per dirla come la vecchia».

«Quando l’ha vista per l’ultima volta?».

«Non lo so. Non ci ho fatto caso».

«Sa come si chiamava?».

«La signora Crêmieux la chiamava Louise. Il cognome non lo so, perché quando abitava qui non ha mai ricevuto posta. Gliel’ho detto, non ero tenuta a sapere che era un’inquilina. La gente ha pur diritto di ospitare un parente. E adesso per questa storia rischio di perdere il posto. Suppongo che i giornali lo scriveranno».

«È possibile. Che tipo di persona era?».

«La ragazza? Un tipo qualunque. Quando le girava, mi faceva un cenno passando davanti alla guardiola, ma non si è mai presa la briga di rivolgermi la parola».

«Stava qui da molto?».

Janvier prendeva appunti su un taccuino, e questo fece una certa impressione sulla portinaia che cominciò a ponderare attentamente ogni risposta.

«Se ricordo bene, è arrivata poco prima di Capodanno».

«Aveva del bagaglio?».

«Solo una valigetta blu».

«Come ha conosciuto la signora Crêmieux?».

«Avrei dovuto immaginarlo che questa faccenda sarebbe finita male. È la prima volta che mi lascio abbindolare così, ma le giuro che, comunque vada a finire, sarà anche l’ultima. La signora Crêmieux abitava già qui quando era ancora vivo suo marito, un vicedirettore di banca. Anzi, ci stavano da prima che arrivassi io».

«Lui quando è morto?».

«Cinque o sei anni fa. Figli non ne avevano, e lei ha cominciato a lamentarsi, a dire che era terribile vivere sola in un appartamento tanto grande... Poi si è messa a parlare di soldi, della pensione che restava sempre la stessa mentre la vita diventava sempre più cara».

«È ricca?».

«A quattrini deve star bene. Un giorno mi ha confidato di possedere due case nel XX arrondissement. La prima volta che ha subaffittato mi ha fatto credere che si trattava di una parente arrivata dalla provincia, ma io ho mangiato la foglia e sono andata a trovarla. È stato allora che ha proposto di darmi un quarto dell’affitto che prendeva, e io sono stata così stupida da accettare. Però è vero che quell’appartamento è troppo grande per una persona sola».

«Metteva degli annunci sul giornale?».

«Sì. Senza l’indirizzo. Solo il numero di telefono».

«A che ambiente appartenevano le inquiline?».

«Non saprei dire esattamente. Di solito si trattava di ragazze perbene che lavoravano ed erano contente di avere una camera più grande di quelle dei meublé, per lo stesso prezzo o anche per meno. Una sola volta le è capitata una ragazza che sembrava a posto come le altre ma che invece di notte si alzava e si portava degli uomini in camera. L’ha cacciata dopo neanche due giorni».

«Mi parli dell’ultima».

«Che cosa vuole sapere?».

«Tutto».

La portinaia gettò meccanicamente un’occhiata alla fotografia sul giornale.

«Gliel’ho detto: la vedevo solo passare. Usciva al mattino verso le nove o le nove e mezzo».

«Sa dove lavorava?».

«No».

«Rientrava per pranzo?».

«La signora non permetteva di cucinare in camera».

«E quando rientrava?».

«Alla sera. Qualche volta alle sette, qualche volta alle dieci o alle undici».

«Usciva spesso? Aveva amici o amiche che venivano a prenderla?».

«No, non è mai venuto nessuno».

«L’ha vista qualche volta in abito da sera?».

La donna scosse il capo.

«Insomma era una ragazza come tante e non ci ho fatto molta attenzione. E poi lo sapevo che anche lei non sarebbe durata».

«Perché?».

«Gliel’ho detto. La vecchia vuole sì affittare una stanza, ma la cosa non deve disturbarla. Lei va a letto alle dieci e mezzo, e se disgraziatamente l’inquilina rientra un po’ più tardi le fa una scenata. In fondo, non è tanto un’inquilina che cerca, ma qualcuno che le tenga compagnia e giochi a carte con lei».

La donna non poteva capire il sorriso di Maigret, che aveva subito pensato alla commerciante di vestiti di rue de Douai. Élisabeth Coumar accoglieva ragazze alla deriva, forse per bontà d’animo, ma forse anche per non essere sola, e, visto che le dovevano tutto, ecco che diventavano in qualche modo delle schiave per un periodo più o meno lungo.

La signora Crêmieux prendeva delle inquiline, e in fondo era un po’ la stessa cosa. Chissà quante ce n’erano, a Parigi, di donne anziane o di zitelle che cercavano di procurarsi così un po’ di compagnia, e preferibilmente la compagnia di una persona giovane e spensierata.

«Se potessi restituire quei pochi soldi che mi ha fruttato tutta la faccenda ed evitare così di perdere il posto...».

«Ricapitolando, lei non sa né chi era la ragazza, né da dove veniva, né quello che faceva o chi frequentava...».

«Proprio così».

«Non le piaceva, vero?».

«Non mi piace la gente che ha pochi soldi come me e che si crede superiore».

«Era povera, secondo lei?».

«L’ho sempre vista con lo stesso vestito e lo stesso cappotto».

«Ci sono delle domestiche, qui nella casa?».

«Come mai me lo chiede? Ce ne sono tre. Quella degli inquilini del primo piano, quella del secondo a destra e poi...».

«Una di loro è giovane, appena sbarcata dalla campagna?».

«Si tratta certo di Rose».

«E qual è, delle tre?».

«Quella del secondo piano. I Larcher avevano già due bambini. La signora ne ha avuto un terzo un paio di mesi fa, e dato che da sola non ce la faceva ha fatto venire una servetta dalla Normandia».

«I Larcher hanno il telefono?».

«Sì. Il marito ha un buon posto in una compagnia di assicurazioni, e ultimamente hanno anche comprato un’automobile».

«La ringrazio».

«Se può evitare che il padrone di casa venga a sapere...».

«Ancora una domanda. Ieri, quando la fotografia della ragazza è uscita sui giornali, l’ha riconosciuta?».

Lei ebbe un attimo di esitazione, poi mentì.

«Non ero sicura. La prima foto che è stata pubblicata, be’, capirà...».

«La signora Crêmieux è venuta a parlarle?».

La donna arrossì.

«È entrata in portineria tornando dalla spesa, e mi ha detto che i poliziotti erano abbastanza ben pagati e che quindi non era il caso che la gente si mettesse a fare il loro lavoro. Ho capito cosa intendeva dire. Quando ho visto la seconda fotografia, quella lì, non sapevo se chiamarvi oppure no e, in fondo, tutto sommato, sono contenta che siate venuti, perché mi sono tolta un gran peso».

Maigret e Janvier presero l’ascensore e salirono al secondo piano. Al di là della porta sulla destra si sentivano voci di bambini, e un’altra voce, che Maigret riconobbe e che urlava:

«Jean-Paul!... Jean-Paul!... Lascia in pace la tua sorellina!...».

Il commissario suonò alla porta sulla sinistra. All’interno ci furono passi leggeri, furtivi, poi qualcuno domandò, senza aprire:

«Chi è?».

«La signora Crêmieux?».

«Cosa vuole?».

«Polizia».

Un silenzio piuttosto lungo, e infine un sussurro:

«Un momento...».

La donna si allontanò, probabilmente per mettersi un po’ in ordine. Quando tornò verso la porta, il rumore dei passi non era più lo stesso: con ogni probabilità si era messa un paio di scarpe al posto delle pantofole. Aprì di malavoglia e li guardò tutti e due con occhietti penetranti.

«Avanti. Ma non ho ancora finito di fare le pulizie».

Ciò nonostante indossava un abito nero piuttosto elegante ed era pettinata con cura. Doveva avere dai sessantacinque ai settant’anni, ed era piccola, magra, ancora piena di un’eccezionale energia.

«Ha un documento?».

Maigret le mostrò il distintivo, che lei osservò attentamente.

«Ah!... Il commissario Maigret...».

Li fece entrare in un salotto piuttosto grande, ma talmente ingombro di mobili e soprammobili che a stento vi si poteva circolare.

«Accomodatevi. Che cosa desiderate?».

Sedeva con una certa dignità, ma le dita contratte rivelavano la tensione nervosa.

«Siamo qui a proposito della sua inquilina».

«Non ho inquilini, io. Può capitarmi di ricevere qualcuno e di offrirgli ospitalità...».

«Lasci perdere, signora, siamo al corrente».

Lei non si perse d’animo, e lanciò al commissario uno sguardo pieno di perspicacia.

«Al corrente di cosa?».

«Di tutto. Comunque non siamo del ministero delle Finanze e non ci interessa indagare sulla sua dichiarazione dei redditi».

Nella stanza non c’erano giornali. Maigret tirò fuori di tasca una fotografia della sconosciuta.

«La riconosce?».

«Ha abitato qui con me per qualche giorno».

«Qualche giorno?».

«Diciamo qualche settimana».

«Diciamo piuttosto due mesi e mezzo, eh?».

«È possibile. Alla mia età il tempo conta così poco! Non può immaginare come passino in fretta i giorni!».

«Il suo nome?».

«Louise Laboine».

«È quello scritto sulla carta d’identità?».

«Non ho visto la sua carta d’identità. È il nome che mi ha dato quando si è presentata».

«Pensa che si chiamasse davvero così?».

«Non avevo ragione di non crederle».

«La ragazza ha letto il suo annuncio?».

«Gliel’ha detto la portinaia?».

«Non ha importanza, signora Crêmieux. Non perdiamo tempo. E comunque sono io che faccio le domande».

Con aria sostenuta lei disse:

«Bene. L’ascolto».

«Louise Laboine ha risposto al suo annuncio?».

«Mi ha telefonato per chiedere il prezzo della camera, e gliel’ho detto. Allora ha voluto sapere se non potevo abbassarlo un po’, e le ho consigliato di venire qui».

«Le ha poi fatto uno sconto?».

«Sì».

«Perché?».

«Perché ci casco sempre».

«Per quale motivo?».

«Quando si presentano, hanno un’aria così perbene, sono deferenti, premurose. Le ho domandato se alla sera usciva spesso e mi ha risposto di no».

«Sa dove lavorava?».

«In un ufficio, pare, ma non so quale. Ho capito solo dopo qualche giorno che tipo di ragazza fosse».

«E cioè?».

«Un tipo chiuso, una che quando ha deciso di non aprir bocca...».

«Non le diceva niente di sé? Non le parlava?».

«Il meno possibile. Viveva qui come fosse in albergo. Al mattino si vestiva e se ne andava, ed era tanto se mi rivolgeva un vago saluto quando m’incontrava».

«Usciva sempre alla stessa ora?».

«Ecco, è proprio questo che mi ha lasciato perplessa. I primi due o tre giorni è uscita di casa alle otto e mezzo, e ne ho dedotto che iniziava a lavorare alle nove. Poi per diversi giorni è uscita di casa alle nove e un quarto... Allora le ho chiesto se aveva cambiato lavoro».

«E che cosa ha risposto?».

«Non ha risposto. Era un tipo così. Quando si sentiva in imbarazzo, faceva finta di non aver sentito. La sera, poi, cercava di evitarmi».

«Doveva attraversare questo salotto per andare nella sua camera?».

«Sì. E siccome per lo più io di sera mi trattengo qui, la invitavo a fermarsi un momento per prendere una tazza di caffè o una tisana. Una sola volta si è degnata di farmi compagnia, e le assicuro che in un’ora non ha spiccicato più di cinque frasi».

«Di che cosa avete parlato?».

«Un po’ di tutto. Cercavo di sapere».

«Di sapere cosa?».

«Chi era, da dove veniva, dov’era vissuta prima».

«E ne ha cavato qualcosa?».

«Soltanto che conosceva il Midi. Le ho parlato di Nizza, dove io e mio marito passavamo ogni anno un paio di settimane, e ho capito che ci era stata anche lei. Quando le ho fatto delle domande sui suoi genitori, ha assunto un’aria vaga. Se l’avesse vista quando aveva quell’espressione, avrebbe perso le staffe anche lei, commissario».

«Dove consumava i pasti?».

«In linea di massima fuori. Non permetto che si cucini in camera perché c’è sempre il rischio di un incendio. Se si portano dietro un fornello a spirito, Dio sa quello che potrebbe succedere. Senza contare che in casa ho solo mobili antichi, mobili di famiglia piuttosto pregiati. Anche se la ragazza ha fatto molta attenzione, ho trovato in camera sua delle briciole di pane, e sono sicura che ha bruciato della carta oleata che conteneva dell’affettato».

«Passava le serate sola, chiusa in camera?».

«Generalmente sì. Usciva solo un paio di volte alla settimana».

«Si metteva elegante per uscire?».

«E come avrebbe potuto, dal momento che tutto il suo guardaroba consisteva in un vestito e un cappotto? Poi il mese scorso è successo quello che prevedevo».

«Che cosa aveva previsto?».

«Che un giorno o l’altro non avrebbe avuto di che pagare l’affitto».

«E non l’ha pagato?».

«Mi ha dato un acconto di cento franchi e mi ha promesso il resto per la fine della settimana. Quando è arrivato quel momento, ha cercato di evitarmi, ma io l’ho aspettata al varco e l’ho bloccata. Allora mi ha detto che avrebbe avuto il denaro nel giro di un paio di giorni. Non mi giudichi avara, commissario, e non creda che pensi solo ai soldi. Naturalmente ne ho bisogno, come tutti. Ma se solo si fosse comportata più umanamente, avrei avuto più pazienza».

«Le ha dato lo sfratto?».

«Sì, il giorno prima che sparisse. Le ho detto semplicemente che aspettavo una parente dalla provincia e che avevo bisogno della camera».

«Che reazione ha avuto?».

«Mi ha risposto:

«“Va bene!”».

«Le dispiace mostrarci la camera?».

L’anziana signora si alzò, sempre con aria sostenuta.

«Per di qua, prego. E vedrete con i vostri occhi che da nessun’altra parte quella ragazza avrebbe trovato una camera come questa».

Effettivamente la stanza era spaziosa, rischiarata da grandi finestre, e, come il salotto, ammobiliata in stile Ottocento. Il letto era in mogano massiccio e, nello spazio tra due finestre, si trovava una scrivania Impero che doveva essere quella del defunto signor Crêmieux e per la quale non si era trovata un’altra collocazione. Ricchi tendaggi di velluto ricadevano ai lati delle finestre, e sulle pareti facevano bella mostra di sé vecchie fotografie di famiglia racchiuse in cornici nere o dorate.

«L’unico piccolo inconveniente è il fatto di avere il bagno in comune, ma io aspettavo sempre che ci andasse prima lei, e non ci entravo mai senza bussare».

«Suppongo che, da quando se n’è andata, lei non abbia tolto niente».

«No di certo».

«Non vedendola tornare, ha rovistato tra i suoi effetti personali?».

«Oh, non c’era molto da rovistare. Sono solo venuta a vedere se si era portata via le sue cose».

«E se le era portate via?».

«No, come può constatare lei stesso».

Sul comò c’erano infatti un pettine, una spazzola per capelli, un nécessaire per manicure piuttosto modesto e una scatola di cipria a buon mercato. C’erano inoltre due tubetti di medicinali, uno che conteneva dell’aspirina e l’altro delle pastiglie di sonnifero.

Maigret aprì i cassetti, ma ci trovò solo un po’ di biancheria e, arrotolato in una sottoveste di seta artificiale, un ferro da stiro elettrico.

«Cosa le avevo detto!» esclamò la signora Crêmieux.

«Cioè?».

«Eppure l’avevo avvertita che non permettevo di lavare e stirare in camera... Ecco cosa faceva, alla sera, quando si barricava per un’ora in bagno! Ed ecco perché chiudeva a chiave la porta della sua stanza!».

Un altro cassetto conteneva carta da lettera dozzinale, due o tre matite e una stilografica.

Nell’armadio era appesa una vestaglia di cotone, e in un angolo c’era una valigia blu di fibra, chiusa a chiave. Non vedendo chiavi in giro, Maigret fece saltare la serratura con la punta del suo temperino mentre l’anziana signora si avvicinava. La valigia era vuota.

«È mai venuto qualcuno a chiedere di lei?».

«No, nessuno».

«E ha mai avuto l’impressione che qualcuno fosse entrato nell’appartamento in sua assenza?».

«Me ne sarei accorta. So esattamente dove si trova ogni oggetto!».

«Riceveva telefonate?».

«È successo una sola volta».

«Quando?».

«Circa due settimane fa. No. Un po’ di più. Forse un mese. Una sera, verso le otto, quando lei era già in camera, qualcuno ha chiesto di parlarle».

«Un uomo?».

«Una donna».

«È in grado di ricordare le parole esatte?».

«Hanno detto:

«“È in casa la signorina Laboine?”.

«Ho risposto che mi sembrava di sì, e sono andata a bussare alla sua porta.

«“Telefono, signorina Louise!”.

«“Per me?” ha risposto stupita.

«“Per lei, sì”.

«“Arrivo subito”.

«E quella volta ho avuto l’impressione che avesse pianto».

«Prima o dopo la telefonata?».

«Prima, quando è uscita dalla camera».

«Era vestita come se stesse per uscire?».

«No, era in vestaglia e a piedi nudi».

«È riuscita a sentire quello che ha detto?».

«Non ha detto quasi niente... Solo: “Sì... Sì... Va bene... Sì... Forse...”. E alla fine ha aggiunto: “A fra poco”».

«Ed è uscita?».

«Dieci minuti dopo».

«A che ora è rientrata quella sera?».

«È stata fuori tutta la notte. Me la sono vista tornare solo alle sei del mattino. L’aspettavo, decisa a metterla alla porta. Ha detto che aveva passato la notte ad assistere una parente malata, e non aveva l’aria di una che è andata a divertirsi. Si è infilata a letto ed è rimasta in camera per due giorni di fila. Le ho portato io da mangiare e le ho comprato l’aspirina perché sosteneva di avere l’influenza».

Chissà se l’anziana donna si rendeva conto che ogni sua frase evocava un’immagine nella mente di Maigret, che sembrava ascoltarla appena... A poco a poco egli ricostruiva la vita delle due donne in quell’appartamento buio e ingombro di mobili. Per una di loro la cosa non presentava difficoltà: l’aveva davanti agli occhi. Ma ben più difficile era immaginare gli atteggiamenti della ragazza, la sua voce, i suoi gesti, e soprattutto quello che poteva pensare.

Adesso conosceva il suo nome, ammesso che fosse quello vero. Sapeva dove aveva dormito negli ultimi due mesi, dove aveva trascorso parte delle sue serate.

Sapeva inoltre che, per due volte, si era recata in rue de Douai per prendere a nolo o in prestito un vestito da sera. La prima volta aveva pagato. La seconda non aveva in tasca che due o trecento franchi, giusto il prezzo di un taxi o di un pasto frugale.

Che la sua prima visita a Mademoiselle Irène fosse avvenuta a seguito della telefonata? Sembrava improbabile. Non si era presentata nel negozio così tardi, quella volta.

Inoltre era rientrata in rue de Clichy alle sei del mattino con indosso il solito vestito e il solito cappotto, e non poteva aver già restituito l’abito di raso azzurro, perché Mademoiselle Irène si alzava ben più tardi.

Se ne deduceva che due mesi prima intorno al 1° gennaio, la ragazza non era ancora completamente al verde, dato che aveva preso in affitto una camera. Soldi ne aveva pochi, comunque. Aveva cercato di spuntare un prezzo più basso. Al mattino usciva a ore più o meno regolari, dapprima verso le otto e mezzo, poi dopo le nove.

Come passava le giornate? E le serate in cui non rimaneva in camera?

Non leggeva. Non c’era un solo libro nella stanza, né una rivista. Se cuciva, era solo per rammendare le poche cose che aveva, perché in un cassetto c’erano giusto tre rocchetti di filo, un ditale, un paio di forbici, della seta beige per le calze e un astuccio con degli aghi.

Secondo il dottor Paul, aveva circa vent’anni.

«È l’ultima volta che subaffitto, glielo assicuro!».

«Suppongo che si facesse la camera da sé...».

«Per chi mi prende? Per la sua cameriera? Una di loro ci ha provato, ma le ho levato subito quell’idea dalla testa».

«Le domeniche come le passava?».

«Al mattino dormiva fino a tardi. Già dalla prima settimana ho notato che non andava a messa, e le ho domandato se era cattolica. Mi ha risposto di sì. Tanto per dire qualcosa, capisce? Qualche volta, è uscita poco dopo l’una del pomeriggio. Immagino che andasse al cinema. Ricordo di aver raccolto da terra, in camera sua, un biglietto d’ingresso».

«Di che sala si trattava?».

«Non ci ho fatto caso. Era un biglietto rosa».

«Uno solo?».

Di colpo Maigret fissò l’anziana donna con uno sguardo penetrante, come volesse impedirle di mentire.

«Che cosa c’era nella sua borsetta?».

«Come potrei...».

«Su, risponda. Le sarà certo capitato di darci un’occhiata quando la lasciava in giro».

«Non la lasciava quasi mai in giro».

«È bastata una volta. Ha visto la sua carta d’identità?».

«No».

«Non l’aveva?».

«Non nella borsetta. Ad ogni modo quella volta non c’era. Solo una settimana fa ho avuto occasione di guardare bene. Cominciavo ad avere dei sospetti».

«A che proposito?».

«Se avesse avuto un lavoro regolare, sarebbe stata in grado di pagare l’affitto. Era la prima volta che vedevo una ragazza della sua età possedere un unico vestito. E poi, insomma, non c’era verso di tirarle fuori qualcosa su quello che faceva, da dove veniva, dove viveva la sua famiglia...».

«Allora che cosa ha pensato?».

«Che... forse era scappata di casa. O che...».

«Cosa?».

«Non so. Non riuscivo a capire che tipo di persona fosse. Mi spiego? Con certa gente si intuisce immediatamente come ci si deve regolare. Con lei, no. Non aveva un accento particolare. Non dava neppure l’impressione di venire dalla campagna. Credo fosse istruita. E a parte quella sua abitudine di non rispondere alle domande e di evitarmi sempre, era piuttosto educata. Sì, credo che avesse ricevuto una buona educazione».

«Che cosa c’era nella borsetta?».

«Un rossetto, un portacipria, un fazzoletto e delle chiavi».

«Quali chiavi?».

«Quella dell’appartamento, che le avevo dato, e quella della sua valigia. C’era anche un vecchio portafoglio con del denaro e una fotografia».

«Di un uomo? Di una donna?».

«Di un uomo. Ma non è come pensa lei. Era una foto di almeno quindici anni fa, ingiallita e sciupata, di un uomo sulla quarantina».

«Può descriverlo?».

«Un bel tipo, elegante. Mi ha colpito il fatto che indossasse un completo molto chiaro, in tessuto leggero, come ne ho visti spesso a Nizza. E ho pensato a Nizza perché alle spalle dell’uomo c’era una palma».

«Ha notato qualche somiglianza?».

«Con lei? No. Ci ho pensato anch’io, ma se è suo padre, non gli assomigliava».

«Lo riconoscerebbe se lo incontrasse?».

«Se non è cambiato molto...».

«Con la ragazza ne ha parlato?».

«Come avrei potuto dirle che avevo visto la fotografia? Aprendo la sua borsetta? Le ho solo parlato di Nizza, del Midi...».

«Puoi portar via tutta questa roba, Janvier?» disse Maigret indicando i cassetti, la vestaglia appesa nell’armadio, la valigia blu. Nella valigia ci stava tutto, ma poiché la serratura era stata forzata dovettero chiedere alla vecchia uno spago per chiuderla.

«Crede che avrò delle noie, commissario?».

«Non con noi».

«Con quelli delle tasse?».

Maigret alzò le spalle, borbottò:

«Non è affar nostro».