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In cui si parla di uno strano padre e degli
scrupoli di Maigret
Durante la cena la signora Maigret parlò della figlia dei loro vicini di pianerottolo che, quel giorno, era andata dal dentista per la prima volta in vita sua e che se n’era uscita con un... Che cosa aveva detto, a proposito? Maigret non se ne rendeva conto, ma aveva ascoltato con orecchio distratto: guardava la moglie e si lasciava semplicemente cullare dalla sua voce come da una dolce musica, tanto che lei s’interruppe e gli domandò:
«Ma non ridi?».
«Hai ragione, è molto divertente».
Per un attimo si era come assentato. A volte gli capitava. In quei casi guardava l’interlocutore con occhi sgranati e un po’ troppo fissi, e chi non lo conosceva non poteva sapere di rappresentare, per quegli occhi, solo una sorta di muro o di sfondo.
La signora Maigret lasciò perdere e andò a lavare i piatti, mentre lui si sistemava nella solita poltrona e apriva il giornale. Cessato l’acciottolio delle stoviglie che proveniva dalla cucina, un gran silenzio calò nell’appartamento, interrotto a tratti dal fruscio delle pagine che il commissario girava e da due scrosci di pioggia, fuori.
Verso le dieci, vedendolo ripiegare con cura il giornale, sperò per un momento che sarebbero andati a dormire, ma Maigret scelse una rivista dalla pila e si rimise a leggere. Allora lei continuò a cucire, pronunciando di quando in quando una frase qualunque, tanto per rompere il silenzio. Poco importava che lui rispondesse o no, o che si limitasse a emettere un grugnito: faceva ancora più intimo.
Quelli del piano di sopra avevano spento la radio ed erano andati a letto.
«Aspetti qualcosa?».
«Forse una telefonata».
Féret gli aveva promesso di interrogare di nuovo la madre di Louise non appena questa fosse tornata da Montecarlo. Ma poteva darsi che Féret avesse avuto altro da fare. Alla vigilia della battaglia dei fiori, dovevano essere parecchio occupati, laggiù.
Più tardi la signora Maigret si rese conto che il marito non girava più le pagine. Ma aveva ancora gli occhi aperti. Aspettò a lungo prima di suggerire:
«E se andassimo a dormire?».
Erano le undici passate. Maigret, senza protestare, prese l’apparecchio telefonico, infilò la spina in camera da letto e lo appoggiò sul comodino.
Si spogliarono e andarono a turno in bagno, compiendo i piccoli riti quotidiani. Una volta a letto, Maigret spense la luce e si girò verso la moglie per darle un bacio.
«Buonanotte».
«Buonanotte. Cerca di dormire».
Continuava a pensare a Louise Laboine e agli altri personaggi che si erano via via materializzati, uscendo dall’anonimato per accompagnarlo in una sorta di corteo. Solo che adesso questi personaggi stavano diventando vaghi, grotteschi, e alla fine si confusero assumendo un ruolo che non era il loro.
In seguito a Maigret parve di giocare a scacchi, ma era così stanco e la partita durava da così tanto tempo che lui non riconosceva più le figure, scambiava la regina con il re, gli alfieri con i cavalli, e non sapeva più dove aveva piazzato le sue torri. Era angosciante, perché il capo lo stava osservando. Per il Quai des Orfèvres la partita era d’importanza capitale. Il suo avversario, infatti, altri non era che Lognon, che ostentava un sorriso sarcastico e, sicuro di sé, aspettava l’occasione per dare scaccomatto a Maigret.
Ma non doveva assolutamente andare così. Era in gioco il prestigio del Quai des Orfèvres. Per questo erano tutti dietro a lui, intenti a spiare le sue mosse, Lucas, Janvier, il giovane Lapointe, Torrence, e altri ancora che non riusciva a distinguere.
«Lei ha suggerito!» diceva Lognon a qualcuno che stava chino sulla spalla del commissario. «Ma non fa nulla».
Era solo, lui. Non aveva nessuno che lo aiutasse. Che cosa avrebbero detto tutti, se avesse vinto?
«Suggerite pure. Vi chiedo solo di non barare».
Perché pensava che Maigret intendesse barare? Era forse solito farlo? Aveva mai barato in vita sua?
Bastava ritrovare la regina, chiave della partita, e il gioco era fatto. La cosa migliore era esaminare di nuovo le caselle a una a una. La sua regina non poteva essersi perduta.
Squillò il telefono. Il commissario allungò il braccio e annaspò un attimo prima di trovare l’interruttore.
«Una chiamata per lei da Nizza».
La sveglia segnava l’una e dieci.
«È lei, capo?».
«Solo un momento, Féret».
«Ho fatto male a svegliarla?».
«No, no, al contrario».
Mandò giù un sorso d’acqua. Poi, dato che la pipa si trovava sul comodino e aveva ancora del tabacco dentro, la accese.
«Bene! Adesso puoi cominciare».
«Ero incerto sul da farsi. Della faccenda so solo quello che ne hanno scritto i giornali, e mi è difficile giudicare ciò che è importante e ciò che non lo è».
«Hai visto la Laboine?».
«L’ho lasciata adesso. È tornata da Montecarlo solo alle undici e mezzo, e sono andato a casa sua. Vive in una specie di pensione che, a prima vista, dà l’idea di essere occupata per lo più da vecchie pazze come lei. La cosa strana è che sono quasi tutte delle ex attrici. C’è anche un’ex cavallerizza che lavorava in un circo, e la padrona, stando a quello che racconta, ha cantato addirittura all’Opéra. Difficile spiegarle l’atmosfera che si respira là dentro. Nessuno dormiva. Di sera quelle che non vanno al casinò giocano a carte in un salotto dove tutto sembra risalire al secolo scorso. Si ha un po’ l’impressione di essere al Museo Grévin. Ma la annoio?».
«No».
«Le riferisco questi particolari perché so che a lei piace avere un quadro completo della situazione. E dato che non è potuto venire...».
«Continua».
«Adesso conosco un po’ la sua storia. Suo padre faceva il maestro in un paesino della Haute-Loire. A diciotto anni è andata a Parigi e per due anni ha fatto la comparsa allo Châtelet. Alla fine le affidavano anche qualche passo di danza nel Giro del mondo in 80 giorni o in Michele Strogoff. Dopodiché è passata alle Folies-Bergère, ha fatto una tournée in Sudamerica ed è rimasta lì diversi anni. Impossibile ottenere da lei date esatte, perché si confonde di continuo.
«È sempre lì, capo? Mi sono domandato ancora una volta se si drogasse. Osservandola meglio, ho capito che non si tratta di questo. Non è intelligente, ecco tutto, e forse non ha neppure tutte le rotelle a posto».
«È mai stata sposata?».
«Ci arrivo. Verso i trent’anni ha cominciato a lavorare nei locali notturni dell’Est. È stato prima della guerra. Bucarest, Sofia, Alessandria... Si è fermata parecchi anni al Cairo e pare si sia spinta fino in Etiopia.
«Le ho strappato queste informazioni a una a una. Si era lasciata cadere in una poltrona e si massaggiava le gambe gonfie. A un certo punto mi ha chiesto il permesso di togliersi il busto. Insomma...».
A Maigret quell’espressione ricordò la signorina Poré, la zia di Jeanine Armenieu, e il suo interminabile monologo.
La signora Maigret aveva aperto un occhio e lo osservava.
«Quando aveva trentotto anni, ha incontrato un certo Van Cram a Istanbul».
«Che nome hai detto?».
«Julius Van Cram, un olandese, si direbbe. A sentir lei, un autentico gentleman che viveva al Pera Palace».
Maigret aveva aggrottato le sopracciglia: quel nome gli ricordava qualcosa, e sicuramente non era la prima volta che lo sentiva.
«Sai l’età di questo Van Cram?».
«Era molto più anziano di lei. All’epoca doveva essere sulla cinquantina, quindi oggi avrebbe circa settant’anni».
«È morto?».
«Non lo so. Ma aspetti! Cerco di riferirle i fatti con ordine, per non dimenticare niente. La Laboine mi ha fatto vedere una sua foto di allora, e devo ammettere che era ancora una gran bella donna, già matura ma molto piacente».
«Van Cram che cosa faceva?».
«Sembra che a lei la cosa non interessasse. Mi ha detto che parlava correntemente diverse lingue, soprattutto l’inglese e il francese. Ma anche il tedesco. E partecipava ai ricevimenti delle ambasciate. Poi si era innamorato di lei e per un certo periodo erano vissuti insieme».
«Al Pera Palace?».
«No. Lui l’aveva sistemata in un appartamento vicino all’hotel. Mi scusi, capo, se non sono più preciso, ma sapesse la fatica che ho fatto per tirarle fuori tutte queste informazioni! S’interrompeva ogni momento per raccontarmi vita morte e miracoli di qualche donna che aveva conosciuto in questo o quel locale, dopodiché si metteva a piagnucolare:
«“So che mi giudicherà una cattiva madre...”.
«Alla fine mi ha offerto un bicchierino di liquore. Drogarsi, non si droga, ma ho l’impressione che in compenso le piaccia alzare il gomito.
«“Mai prima di andare al casinò!” ha dichiarato. “E neppure mentre gioco. Un bicchierino dopo, quello sì, per allentare la tensione nervosa”.
«Mi ha spiegato che di tutte le attività umane il gioco è la più stressante.
«Ma torniamo a Van Cram. Qualche mese dopo si è accorta di essere incinta. Era la prima volta che le capitava, e non riusciva a crederci.
«Ne ha parlato al suo amante, pensando che questi le avrebbe consigliato di sbarazzarsi del bambino».
«E lei era pronta a farlo?».
«Chissà. Ne parla come di un brutto scherzo che le ha giocato il destino.
«“Avrei potuto restare incinta centomila volte, prima, e invece mi è successo a trentotto anni!”.
«Le sue parole sono state esattamente queste. Van Cram non ha battuto ciglio, e qualche settimana dopo le ha proposto di sposarlo».
«Dove si sono sposati?».
«A Istanbul. Ed è qui che la faccenda si complica. Credo che fosse davvero innamorata. Lui l’ha portata in un ufficio, non s’è capito bene dove, e lì le hanno fatto firmare delle carte e prestare giuramento. Dal momento che lui le assicurava che erano regolarmente sposati, lei ci ha creduto.
«Qualche giorno dopo Van Cram le ha proposto di partire per la Francia e di stabilirsi lì».
«Insieme?».
«Sì. Hanno preso una nave italiana diretta a Marsiglia».
«Lei aveva un passaporto a nome Van Cram?».
«No. Gliel’ho chiesto anch’io. Pare che non avessero avuto il tempo di aggiornare il suo passaporto. Sono rimasti a Marsiglia due settimane, e da lì si sono trasferiti a Nizza, dove è nata la bambina...».
«Vivevano in albergo?».
«Avevano preso in affitto un bell’appartamento nei pressi della Promenade des Anglais. Due mesi dopo Van Cram è uscito per comprare le sigarette e chi s’è visto s’è visto».
«Non le ha più dato sue notizie?».
«Le ha scritto diverse volte, un po’ da tutti gli angoli del mondo: Londra, Copenaghen, Amburgo, New York... E ogni volta le mandava del denaro».
«Parecchio?».
«Alle volte sì. Altre volte quasi niente. Le chiedeva di dargli sue notizie e di parlargli soprattutto della bambina».
«Lo ha fatto?».
«Sì».
«Fermo posta, suppongo».
«Proprio così. Ed è da allora che ha cominciato a giocare. La bambina è cresciuta, è andata a scuola».
«Ha mai visto suo padre?».
«Aveva due mesi quando lui se n’è andato, e da allora non è più tornato in Francia, almeno per quanto ne sa la Laboine. L’ultimo invio di denaro, un anno fa, era piuttosto cospicuo, ma lei ha perso tutto in una notte».
«Van Cram non le ha mai domandato dove fosse la figlia? Sapeva che aveva lasciato Nizza per Parigi?».
«Sì. Solo che la madre ignorava l’indirizzo della ragazza».
«È tutto, vecchio mio?».
«Più o meno, sì. Non mi è sembrata molto sincera quando ha sostenuto di non saper niente circa i mezzi di sussistenza del marito... A proposito, stavo dimenticando la cosa più importante... Qualche anno fa, quando ha dovuto rinnovare la carta d’identità, ha pensato di farsela rilasciare con il nome di Van Cram. Allora le hanno chiesto il certificato di matrimonio, e lei ha mostrato l’unico documento in suo possesso, redatto in turco. Dopo averlo esaminato ben bene, gli impiegati l’hanno inoltrato al consolato di Turchia. Alla fine è saltato fuori che il documento non aveva alcun valore legale e che lei non risultava affatto sposata».
«La cosa l’ha addolorata?».
«No. L’unica cosa che possa addolorarla è vedere il rosso uscire dodici volte quando lei ha continuato a raddoppiare la posta sul nero. A sentirla parlare si ha l’impressione di avere di fronte una persona irreale, una che vive in un altro mondo. Quando le ho parlato della figlia, non ha mostrato la minima emozione. Si è limitata a dire:
«“Spero per lei che non abbia sofferto troppo...”».
«Suppongo che adesso tu vada a dormire...».
«Purtroppo no! Devo correre a Juan-les-Pins, hanno pizzicato un baro al casinò... Ha ancora bisogno di me, capo?».
«Per il momento, no. Un attimo. Ti ha fatto vedere qualche fotografia dell’ex marito?».
«È quello che le ho chiesto. Ma pare che ne avesse una sola, che lei stessa gli aveva scattato a sua insaputa, perché Van Cram detestava essere fotografato. Quando la ragazza è partita per Parigi, deve averla portata con sé, perché la fotografia è sparita».
«Grazie».
Maigret riattaccò, ma invece di rimettere la testa sul guanciale e spegnere la luce si alzò per caricare un’altra pipa.
La vedova Crêmieux aveva effettivamente accennato a una fotografia che Louise teneva nel portafoglio, ma lui non vi aveva dato importanza, concentrato com’era sulla ragazza.
Se ne stava fermo lì, in pigiama, i piedi nudi nelle pantofole. La signora Maigret sapeva che non era il momento di far domande. Forse ancora suggestionato dal sogno, il commissario pensava a Lognon. Poco prima, senza dare troppa importanza alla cosa, non gli aveva forse detto: «La terrò al corrente»...
E l’esistenza di Van Cram poteva cambiare il corso delle indagini.
«Gli telefonerò domattina» mormorò sottovoce.
«Come dici?».
«Niente. Parlavo fra me».
Cercò il numero di telefono del Lagnoso. Meglio farlo subito, così non avrebbe avuto niente da rimproverarsi.
«Pronto!... Potrei parlare con suo marito, per favore? Mi scusi se l’ho svegliata, ma...».
«Non dormivo. Non dormo mai più di un’ora o due per notte».
Era la signora Lognon, acida e lamentosa allo stesso tempo.
«Sono il commissario Maigret».
«Sì, l’ho riconosciuta dalla voce».
«Vorrei parlare un momento con suo marito».
«Credevo foste insieme. Ad ogni modo mi ha detto che stava lavorando per lei».
«A che ora è uscito?».
«Subito dopo cena. Ha mangiato in fretta e furia ed è scappato via avvertendomi che probabilmente sarebbe rimasto fuori tutta la notte».
«Non le ha detto dove andava?».
«Non me lo dice mai».
«La ringrazio».
«Ma è vero o no che lavora per lei?».
«Ma sì!».
«Allora come mai lei non sa dove...».
«Non posso essere al corrente di tutti i suoi movimenti».
La signora Lognon non parve convinta: probabilmente lo sospettava di mentire per coprire il marito e stava per fare altre domande. Ma a quel punto Maigret riattaccò. Subito dopo chiamò il commissariato del secondo distretto. Gli rispose un certo Ledent.
«Lognon è lì?».
«Stanotte non s’è visto».
«Ti ringrazio. Se venisse, digli di telefonarmi a casa».
«D’accordo, commissario».
Allora ebbe un pensiero malevolo, un po’ come nel sogno. All’improvviso, il fatto che Lognon fosse in giro senza che lui avesse la minima idea di quello che stava combinando lo infastidì. Non c’era più da investigare nei locali notturni, né da interrogare i tassisti. E, quanto al Roméo, sembrava che da lì non si potesse ricavare più niente.
Eppure Lognon passava la notte a caccia di qualcosa. Che stesse battendo una pista nuova?
Maigret non era invidioso dei suoi colleghi, men che meno dei suoi ispettori. Quando un caso veniva risolto, quasi sempre ne attribuiva il merito a loro. Ed era raro che fosse lui a rilasciare dichiarazioni alla stampa. Quello stesso pomeriggio, ad esempio, a ricevere i giornalisti accreditati al Quai aveva mandato Lucas.
In quel momento, però, ebbe un moto di stizza. Perché era vero, come nella partita a scacchi del sogno, che Lognon era solo mentre lui poteva contare sull’intera organizzazione della Polizia giudiziaria così come sulla collaborazione delle varie squadre mobili e di tutto l’apparato poliziesco.
Arrossì del pensiero che aveva avuto, ciò nondimeno ebbe la tentazione di vestirsi e raggiungere subito il Quai des Orfèvres. Adesso che sapeva chi era il personaggio raffigurato nella fotografia che Louise Laboine aveva sottratto alla madre e religiosamente conservato, Maigret voleva mettersi al lavoro.
Sua moglie lo vide andare in sala da pranzo, aprire la credenza e versarsi un bicchierino di prunella.
«Non torni a letto?».
Sarebbe stato logico uscire, andare in ufficio, e anche il suo istinto lo spingeva a farlo. Se vi rinunciò, fu per lasciare a Lognon la possibilità di giocare la sua carta e punirsi per l’indegno pensiero che aveva avuto.
«Questo caso ti preoccupa, vero?».
«Sì, è piuttosto complesso».
Strano, però: fino a quel momento non aveva pensato all’assassino, ma alla vittima, e l’inchiesta si era concentrata solo su di lei. Ora che della ragazza si sapeva finalmente un po’ di più, sarebbe stato possibile chiedersi chi l’avesse uccisa.
Cosa diavolo stava facendo Lognon in giro? Maigret andò a guardar fuori dalla finestra. Luna piena e cielo sereno. Non pioveva più. I tetti luccicavano.
Vuotò la pipa, si cacciò a letto, baciò la moglie:
«Svegliami alla solita ora».
Questa volta fu un sonno senza sogni. Quando prese il caffè, seduto nel letto, fuori c’era il sole. Lognon non aveva telefonato, il che pareva indicare che non era passato in ufficio e non era neppure tornato a casa.
Una volta al Quai des Orfèvres, Maigret assistette al rapporto mattutino senza prendere parte alla conversazione, e non appena la riunione fu conclusa salì al Casellario giudiziale. Lì, su chilometri di scaffali, erano allineati i fascicoli di tutti coloro che avevano avuto dei guai con la giustizia. L’addetto indossava un camice grigio che lo faceva sembrare un magazziniere, e nell’aria aleggiava l’odore di carta invecchiata tipico delle biblioteche pubbliche.
«Guarda un po’ se hai qualcosa sotto il nome di Van Cram, Julius Van Cram».
«È roba recente?».
«Dovrebbe risalire a vent’anni fa, o anche più».
«Aspetta qui?».
Maigret si mise a sedere. Dieci minuti dopo l’incaricato gli porgeva un fascicolo a nome Van Cram, ma si trattava di un Joseph Van Cram, impiegato delle assicurazioni a Parigi, in rue de Grenelle, condannato due anni prima per falso in atti e uso dei medesimi, e che comunque aveva solo ventotto anni.
«Nessun altro Van Cram?».
«Solo un Von Kramm, con la K e due m, che è morto a Colonia ventiquattro anni fa».
C’erano altri faldoni, più in basso, che riguardavano non solo persone condannate, ma tutti coloro dei quali la polizia, a un certo punto, aveva dovuto occuparsi. E lì comparivano di nuovo il Van Cram assicuratore e il Von Kramm di Colonia.
Dopo aver esaminato la lista degli avventurieri internazionali e scartato tutti quelli che non erano mai vissuti nel Vicino Oriente e la cui età non corrispondeva a quella del marito della Laboine, Maigret finì per ritrovarsi in mano solo poche schede, una delle quali riportava i seguenti dati:
«Hans Ziegler, alias Ernst Marek, alias John Donley, alias Joey Hogan, alias Jean Lemke (il nome vero e l’origine sono ignoti). Specializzato in truffa all’americana. Parla correntemente il francese, l’inglese, il tedesco, l’olandese, l’italiano e lo spagnolo. Anche un po’ di polacco».
Trent’anni prima la polizia di Praga aveva diffuso in tutti i paesi la fotografia di un certo Hans Ziegler, il quale, con l’aiuto di un complice, si era procacciato in modo fraudolento una grossa somma di denaro. Diceva d’esser nato a Monaco e all’epoca aveva dei baffi biondi.
Poco dopo la polizia di Londra individuava lo stesso uomo, che però si spacciava per John Donley, nato a San Francisco, e che poi, a Copenaghen, era stato arrestato sotto il nome di Ernst Marek.
Rispuntava fuori da molte altre parti con identità via via diverse, Joey Hogan, Jules Stieb, Carl Spangler...
Con gli anni anche l’aspetto mutava. All’inizio era alto e magro malgrado l’ossatura robusta. A poco a poco si era appesantito, acquistando nel contempo una certa distinzione.
Era un tipo prestante e vestiva con ricercatezza. A Parigi scendeva ogni volta in un grande albergo degli Champs-Élysées, a Londra al Savoy. Ovunque frequentava ambienti esclusivi e ovunque la sua strategia non subiva variazioni, basata com’era su una tecnica lungamente sperimentata da altri ma che lui applicava con estro brillante.
Lavoravano in due, ma del complice si sapeva soltanto che era più giovane e parlava con accento mitteleuropeo.
Sceglievano la vittima in un bar elegante: un uomo facoltoso, preferibilmente un industriale o un commerciante di provincia.
Dopo un paio di bicchieri bevuti insieme, Jean Lemke, o Jules Stieb, o John Donley, secondo i casi, si rammaricava di non conoscere il paese.
«Devo assolutamente trovare una persona di fiducia» diceva. «Mi è stato affidato un incarico delicato e mi chiedo se riuscirò a portarlo a buon fine. Ho una gran paura di farmi imbrogliare!».
Il seguito poteva variare, ma la sostanza era sempre la stessa. Una vecchia signora molto ricca, preferibilmente americana se la truffa si svolgeva in Europa, gli aveva consegnato una somma cospicua da distribuire a un certo numero di persone meritevoli. Il denaro lo aveva su in camera, tutto in contanti. Ma come poteva, lui che non conosceva il paese, trovare i destinatari più degni?
Ah! Già. La vecchia signora aveva specificato che una parte della somma, un terzo diciamo, o un quarto, poteva essere detratta dal totale per coprire le spese.
Chissà, forse il suo nuovo amico – perché era un amico, vero?, e una persona onesta – sarebbe stato così gentile da aiutarlo... Naturalmente avrebbe diviso con lui un terzo della somma cui aveva accennato... Che era un bel gruzzoletto.
Ma lui aveva il dovere d’esser prudente, di esigere alcune garanzie... L’amico doveva dunque, da parte sua, versare in banca una certa somma, così da provare la sua buonafede...
«Mi aspetti un attimo... O, meglio ancora, salga in camera con me...».
Le banconote c’erano davvero. Divise in un numero davvero impressionante di mazzette, riempivano un’intera valigetta.
«Le prendiamo con noi e passiamo dalla sua banca dove lei ritira la somma...».
L’ammontare di questa variava a seconda dei paesi.
«Verseremo il tutto sul mio conto. Io le consegno la valigetta e lei non dovrà fare altro che distribuirne il contenuto dopo aver prelevato la sua parte».
Nel taxi, la ventiquattrore con le banconote stava in mezzo ai due. La vittima ritirava i fondi. Davanti alla sua banca, generalmente un grande istituto del centro, Lemke, alias Stieb, alias Ziegler, ecc., affidava la valigetta al compagno.
«Ci vorrà un attimo...».
E prendeva il volo con i fondi della vittima, che naturalmente non lo rivedeva più e si accorgeva ben presto che le mazzette di banconote, con l’eccezione del primo strato, erano solo carta di giornale.
Per lo più, quando l’uomo veniva arrestato, non aveva con sé niente di compromettente. Il frutto della truffa era sparito, portato via da un complice cui l’aveva passato approfittando della ressa di persone che affollavano la banca.
In un solo fascicolo, inviato dalla polizia danese, si diceva inoltre:
«Secondo alcune informazioni che ci è stato
impossibile verificare, il soggetto in questione sarebbe in realtà
un certo Julius Van Cram, olandese, nato a Groninga. Rampollo di
buona famiglia, all’età di circa ventidue anni Van Cram ha lavorato
in una banca di Amsterdam di cui suo padre era amministratore.
All’epoca parlava già diverse lingue, aveva ricevuto un’ottima
educazione e frequentava lo Yacht Club di Amsterdam.
«Due anni dopo è sparito, e qualche settimana più tardi alla banca
si sono accorti che aveva sottratto una parte dei fondi».
Disgraziatamente era stato impossibile procurarsi una fotografia di questo Van Cram, e la polizia non disponeva neppure delle sue impronte digitali.
Mettendo a confronto le date, Maigret fece un’altra scoperta interessante: a differenza della maggior parte dei delinquenti e truffatori, costui metteva raramente a segno due colpi di seguito. Impiegava settimane, a volte mesi, nella preparazione del colpo, e si trattava sempre di una somma importante.
Dopodiché passavano di solito diversi anni prima che ricomparisse all’altro capo del mondo, nuovamente impegnato nella sua specialità con la stessa destrezza, la stessa precisione nei dettagli.
Questo poteva indicare che l’uomo aspettava, per ricominciare, che i fondi fossero esauriti. Aveva da parte un malloppo per i tempi magri? Un gruzzolo nascosto?
L’ultimo colpo risaliva a sei anni prima ed era stato compiuto in Messico.
«Ti dispiace venire un momento, Lucas?».
Lucas guardò con un certo stupore i fascicoli che ingombravano la scrivania.
«Dovresti spedire un po’ di telegrammi. Ma prima manda qualcuno dalla vedova Crêmieux, in rue de Clichy, e assicurati che quest’uomo sia effettivamente quello di cui lei ha visto la fotografia nella borsetta della sua inquilina».
Consegnò all’ispettore la lista dei paesi in cui l’individuo in questione aveva operato, e i diversi nomi che aveva via via adottato.
«Telefona anche a Féret, a Nizza. Che torni dalla Laboine e cerchi di farsi dare la data e il luogo di provenienza dei vaglia che lui le spediva. Dubito molto che abbia conservato le ricevute, ma è meglio non lasciare niente di intentato».
S’interruppe di colpo.
«Notizie di Lognon?».
«Doveva telefonare?».
«Non so. Chiama casa sua».
Maigret parlò di nuovo con la signora Lognon.
«Suo marito è rientrato?».
«No. Non sa ancora dov’è?».
Era preoccupata e anche Maigret cominciava a esserlo.
«Molto probabilmente» disse per rassicurarla «il pedinamento che sta effettuando lo avrà portato fuori città».
Aveva parlato di pedinamento del tutto a caso, e dovette subire le lagnanze della signora Lognon: ecco, era sempre a suo marito che si affidavano le missioni più ingrate e più pericolose...
Poteva forse risponderle che ogni volta che Lognon si era cacciato in una brutta situazione lo aveva fatto di sua personale iniziativa e per lo più contravvenendo alle istruzioni ricevute?
Ci teneva così tanto a far bene, aveva una tale smania di distinguersi che si gettava a capofitto nelle indagini, persuaso ogni volta di poter finalmente dimostrare la sua bravura.
La sua bravura la riconoscevano tutti. Ma lui si ostinava a ignorarlo.
Maigret chiamò il secondo distretto, ma neanche lì avevano notizie del Lagnoso.
«Qualcuno l’ha visto in giro?».
«Non credo, nessuno mi ha detto niente».
Intanto, nell’ufficio vicino, Lucas, che aveva mandato un collega in rue de Clichy, dettava i telegrammi al telefono. Janvier, fermo sulla soglia, aspettava che Maigret posasse il ricevitore per chiedergli istruzioni.
«Credo che il commissario Priollet voglia vederla. È passato poco fa, ma lei non era in ufficio».
«Ero su, al Casellario».
Maigret si recò da Priollet, che stava interrogando uno spacciatore dalle narici contratte e gli occhi bordati di rosso.
«Non so se la cosa t’interessa ancora. Forse ti hanno già informato. Questa mattina mi hanno segnalato che Jeanine Armenieu ha abitato per parecchio tempo in un appartamento di rue de Ponthieu».
«Sai anche a che numero?».
«No, ma non è lontano da rue de Berri e sotto c’è un bar».
«Ti ringrazio. Qualcosa su Santoni?».
«Niente. Credo proprio che non ci siano elementi a suo carico, e al momento lui e la moglie stanno facendo i piccioncini a Firenze».
Maigret trovò ancora Janvier che lo aspettava nel suo ufficio.
«Prendi cappello e cappotto».
«Dove andiamo?».
«Rue de Ponthieu».
Là, probabilmente, avrebbe saputo qualcosa di più sulla morta. La ragazza restava la sua principale preoccupazione. Ma adesso c’era quel benedetto Lognon che cominciava a svolgere un ruolo importante. E per disgrazia su quel ruolo c’era il mistero più fitto.
«Chi ha detto: “Soprattutto, niente zelo” aveva dannatamente ragione» borbottò il commissario infilandosi il cappotto.
Era poco probabile che il Lagnoso stesse ancora scarpinando su e giù per le strade e andando da un indirizzo all’altro. Il giorno prima alle cinque non aveva nessuna pista. O almeno così sembrava di capire, anche se, con lui, non era facile riuscirci.
Era rincasato per cena e poi era subito uscito di nuovo.
Prima di lasciare il Quai, Maigret fece capolino nell’ufficio degli ispettori.
«Qualcuno telefoni alle stazioni, non si sa mai, e si assicuri che Lognon non abbia preso un treno».
Nel corso di un pedinamento, per esempio. Era possibile. E, in quel caso, forse non aveva avuto modo di telefonare al Quai o al suo ufficio.
Questo voleva anche dire, però, che aveva delle informazioni che gli altri non avevano.
«Andiamo, capo?».
«Andiamo».
Maigret, immusonito, fece fermare l’auto in place Dauphine per bere un bicchierino.
Non era invidioso di Lognon, no. Tanto meglio se scopriva l’assassino di Louise Laboine. E tanto di cappello se lo arrestava!
Ma, porca miseria, avrebbe anche potuto dare sue notizie, come fanno tutti.