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In cui l’ispettore Lognon scopre un corpo e si lamenta perché glielo portano via

Maigret sbadigliò, poi spinse i fogli all’estremità della scrivania.

«Una bella firma qui, ragazzi, e potete andarvene a dormire».

I «ragazzi» erano tre ossi duri, probabilmente i più cocciuti che fossero passati negli uffici della Polizia giudiziaria da un anno a quella parte. Uno di loro, che chiamavano Dédé, aveva l’aspetto di un gorilla, e quanto al più smilzo, che esibiva un bell’occhio nero, avrebbe potuto guadagnarsi da vivere come lottatore nelle fiere paesane.

Janvier porgeva loro i fogli e una penna: ora che si erano finalmente decisi a sputare il rospo non avevano più voglia di discutere. Non lessero neppure il verbale dell’interrogatorio e firmarono con aria schifata.

L’orologio di marmo segnava le tre e qualche minuto e la maggior parte dei locali del Quai des Orfèvres erano immersi nell’oscurità. Da un bel pezzo gli unici rumori che si sentivano erano un clacson in lontananza o i freni di un taxi che slittava sul selciato bagnato. Anche il giorno prima, al loro arrivo, gli uffici erano semideserti, perché mancava poco alle nove del mattino e non tutto il personale era presente. Stava già piovendo, una pioggia sottile e malinconica che continuava ostinata.

Erano più di trenta ore che stavano chiusi fra quelle quattro pareti, ora tutti insieme, ora separatamente, mentre Maigret e cinque dei suoi collaboratori si davano il cambio tempestandoli di domande.

«Sono degli imbecilli!» aveva detto il commissario non appena li aveva visti. «Sarà una faccenda lunga».

Gli imbecilli, generalmente di natura testarda, sono sempre i più restii a confessare. Pensano che se non rispondono, o rispondono a casaccio, a costo di contraddirsi ogni cinque minuti, riusciranno a cavarsela. Si credono più furbi degli altri, e iniziano immancabilmente a fare gli spacconi.

«Non illudetevi di fregarmi!».

Da alcuni mesi, i tre operavano nella zona intorno a rue La Fayette e i giornali li avevano battezzati «la banda del buco». Grazie a una telefonata anonima, la polizia li aveva finalmente pizzicati.

C’era ancora un fondo di caffè nelle tazze, e una piccola caffettiera di smalto su un fornelletto. Tutti avevano il volto tirato, il colorito terreo. Maigret aveva fumato così tanto che gli si era infiammata la gola, e pensava di proporre a Janvier, una volta spediti in gattabuia i tre uomini, di andare a mangiare da qualche parte una zuppa di cipolle. Il sonno gli era passato. Aveva avuto un momento di stanchezza intorno alle undici ed era andato a sonnecchiare nel suo ufficio. Adesso non aveva più voglia di dormire.

«Di’ a Vacher di portarli via».

Proprio nel momento in cui uscivano dall’ufficio degli ispettori, squillò il telefono. Maigret alzò il ricevitore, e una voce chiese:

«E tu chi sei?».

Il commissario aggrottò le sopracciglia e non rispose subito. All’altro capo del filo, la voce insistette:

«Jussieu?».

Era il nome dell’ispettore che avrebbe dovuto essere di turno e che Maigret aveva mandato a casa alle dieci.

«No. Maigret» borbottò.

«Le chiedo scusa, signor commissario. Sono Raymond, della Centrale».

La chiamata veniva dall’altro edificio, dove, in uno stanzone immenso, convergevano tutte le chiamate del Pronto Intervento. Non appena veniva rotto il vetro di una delle colonnine rosse installate un po’ dappertutto in città, alla Centrale si accendeva una lampadina sulla pianta di Parigi che occupava un’intera parete e un agente inseriva lo spinotto in uno dei fori del centralino per mettersi all’ascolto.

«Qui, Centrale...».

Si trattava ora di una rissa, ora di un ubriaco molesto, ora di un poliziotto in ricognizione che chiedeva rinforzi.

L’uomo della Centrale inseriva lo spinotto in un altro foro.

«Commissariato di rue de Grenelle? Sei tu, Justin? Manda una volante sul lungosenna, all’altezza del 210...».

Erano in due o tre, lì alla Centrale, a fare la notte e probabilmente, anche loro, a prepararsi del caffè. A volte, se si trattava di qualcosa di grave, avvertivano la Polizia giudiziaria. Altre volte, capitava che telefonassero al Quai des Orfèvres per contattare un collega. Maigret, infatti, conosceva Raymond.

«Jussieu è andato via» disse. «Avevi qualcosa di particolare da dirgli?».

«Solo che è stato appena trovato il cadavere di una ragazza in place Vintimille».

«Puoi darmi qualche dettaglio?».

«A questo punto gli uomini del secondo distretto devono già essere sul posto. Ho ricevuto la chiamata tre minuti fa».

«Ti ringrazio».

I tre marcantoni avevano lasciato l’ufficio. Janvier era di ritorno, con gli occhi un po’ arrossati come sempre quando faceva la notte e la barba lunga che gli dava un’aria malsana.

Maigret infilò il cappotto e prese il cappello.

«Andiamo?».

Scesero le scale uno dietro l’altro. La consuetudine voleva che andassero alle Halles a mangiare la zuppa di cipolle, ma davanti alle utilitarie nere di servizio allineate nel cortile Maigret ebbe un attimo di esitazione.

«Hanno appena trovato una ragazza morta in place Vintimille» disse.

Poi, come chi cerca un pretesto per non andare a dormire:

«Se dessimo un’occhiata?».

Janvier si mise al volante di una delle automobili. Il lunghissimo interrogatorio appena concluso li aveva così sfiancati che non avevano la forza di parlare.

Al momento Maigret non realizzò che il secondo distretto era il settore di Lognon, l’ispettore che i colleghi avevano soprannominato il Lagnoso. Ma, anche se ci avesse pensato, le cose non sarebbero cambiate, perché non era detto che quella notte Lognon fosse di turno al commissariato di rue de La Rochefoucauld.

Le strade erano deserte, lucide di pioggia: i lampioni erano circondati da un’aureola di goccioline e i rari passanti camminavano rasente i muri. All’angolo di rue Montmartre con i Grands Boulevards c’era ancora un caffè aperto e, più in là, si distinguevano le insegne luminose di due o tre locali notturni e alcuni taxi in attesa lungo i marciapiedi.

A pochi passi da place Blanche, place Vintimille era come un’oasi di pace. C’era un furgone della polizia e, vicino al cancello del minuscolo giardinetto, quattro o cinque uomini stavano in piedi intorno a una forma chiara distesa per terra.

Maigret individuò subito la sagoma piccola e magra di Lognon. Il Lagnoso si era allontanato dal gruppo per vedere chi stesse arrivando e, a sua volta, aveva riconosciuto Maigret e Janvier.

«Poveri noi!» borbottò il commissario.

Era chiaro che Lognon lo avrebbe ancora accusato di averlo fatto apposta. Quello era il suo quartiere, il suo territorio. Un delitto era stato commesso proprio mentre lui era di turno, fornendogli forse l’occasione di mettersi in luce, come aspettava ormai da anni. Ed ecco che un casuale susseguirsi di eventi portava sul posto Maigret quasi contemporaneamente a lui!

«Le hanno telefonato a casa?» domandò sospettoso, già convinto che si trattasse di una cospirazione ordita a suo danno.

«Ero in ufficio e ha chiamato Raymond. Sono venuto a dare un’occhiata».

Maigret era deciso a non andarsene prima di essersi fatto un’idea dell’accaduto, e al diavolo la suscettibilità di Lognon.

«È morta?» chiese indicando la donna stesa sul marciapiede.

Lognon annuì. C’erano tre agenti in divisa e una coppia di passanti che, come il commissario venne a sapere dopo, avevano notato il corpo e dato l’allarme. Se il fatto si fosse verificato solo cento metri più in là, ci sarebbe già stato un bell’assembramento, ma di notte è poca la gente che attraversa place Vintimille.

«Chi è?».

«Non lo sappiamo. Non ha documenti».

«Niente borsetta?».

«No».

Maigret fece tre passi e si chinò. La giovane donna era stesa sul fianco destro con una guancia sul marciapiede bagnato, e le mancava una scarpa.

«È stata ritrovata?».

Lognon fece segno di no. Era piuttosto sconcertante vedere le dita del piede attraverso la calza di seta. La ragazza indossava un abito da sera azzurro chiaro, di raso, e, forse per via della posizione, quell’abito sembrava troppo grande per lei.

Osservando il suo viso, Maigret pensò che non doveva avere più di vent’anni.

«Il dottore?».

«Lo sto aspettando. Dovrebbe già essere qui».

Maigret si girò verso Janvier.

«Dovresti chiamare quelli della Scientifica perché mandino i fotografi».

Sull’abito non c’erano tracce di sangue. Servendosi della torcia elettrica di uno degli agenti, il commissario illuminò il viso della morta e gli parve che l’unico occhio visibile fosse leggermente tumefatto e il labbro superiore gonfio.

«Niente cappotto?» domandò ancora.

Era marzo. L’aria era piuttosto mite, ma non tanto da consentire di andarsene in giro di notte, specie sotto la pioggia, con un abito leggero che lasciava nude le spalle e aveva solo due sottili spalline.

«Probabilmente non è stata uccisa qui» mormorò Lognon lugubre, lasciando intendere che aiutava il commissario per puro senso del dovere ma che il caso non lo riguardava.

Si teneva a bella posta in disparte. Quanto a Janvier, si era diretto verso un bar di place Blanche per telefonare. Nel frattempo, era arrivato un taxi con il medico di zona.

«Dia pure un’occhiata, dottore, ma non la sposti prima dell’arrivo dei fotografi. Non c’è alcun dubbio che sia morta».

Il medico si chinò, toccò il polso, il petto, e si rialzò, indifferente, senza dire una parola, per poi mettersi ad aspettare come gli altri.

«Andiamo?» domandò la donna che stava a braccetto del marito e cominciava ad avere freddo.

«Aspetta ancora un momento».

«Perché?».

«Non lo so, ma senz’altro faranno qualcosa».

Maigret si girò verso di loro.

«Avete dato nome e indirizzo?».

«Sì, a quel signore là».

E indicarono Lognon.

«Che ora era quando avete scoperto il corpo?».

I due si guardarono.

«Siamo usciti dal night che erano le tre».

«Tre e cinque» puntualizzò la donna. «Ho guardato l’orologio mentre tu ritiravi il cappotto al guardaroba».

«Non ha importanza. Non abbiamo impiegato più di tre o quattro minuti per arrivare qui, e stavamo per oltrepassare la piazza quando ho visto una macchia chiara sul marciapiede».

«Era già morta?».

«Penso di sì. Non si muoveva».

«Non l’avete toccata, vero?».

L’uomo fece segno di no.

«Ho mandato mia moglie ad avvertire la polizia. C’è una stazione di Pronto Intervento proprio all’angolo di boulevard de Clichy. Lo so perché abitiamo a due passi da lì, in boulevard des Batignolles».

Janvier tornò quasi subito.

«Saranno qui fra pochi minuti» annunciò.

«Moers non c’era, vero?».

Maigret, anche se non avrebbe saputo dire perché, aveva l’impressione che quello che si prospettava fosse un caso alquanto complicato. Aspettava, con la pipa in bocca, le mani affondate nelle tasche, e di tanto in tanto lanciava un’occhiata alla forma distesa per terra. L’abito azzurro, tutt’altro che nuovo, non aveva un aspetto fresco e la stoffa sembrava di qualità scadente. Avrebbe potuto essere il vestito di una delle tante entraîneuse che lavoravano nei locali di Montmartre. E anche la scarpa, una scarpa d’argento col tacco molto alto e di cui s’intravedeva la suola consunta, avrebbe potuto appartenere a una di loro.

La prima idea che veniva in mente era che un’entraîneuse, rincasando, fosse stata assalita e derubata della borsetta. Ma in quel caso non sarebbe sparita una delle scarpe, e l’aggressore non si sarebbe curato di portar via il cappotto della vittima.

«Dev’essere stata uccisa altrove» disse Janvier sottovoce.

Lognon, che tendeva l’orecchio, lo sentì e si limitò a sogghignare, perché era stato lui il primo a formulare quell’ipotesi.

Se era stata uccisa altrove, perché mai avevano portato il cadavere in quella piazza? Non era verosimile che l’assassino si fosse caricato la ragazza sulle spalle. Doveva aver usato un’automobile. Nel qual caso gli sarebbe stato facile nasconderla in un’area dismessa o gettarla nella Senna.

Maigret non voleva ammetterlo, ma quello che lo lasciava più perplesso era il volto della vittima. Per il momento, ne conosceva un solo profilo. Che fossero le contusioni a darle quell’espressione imbronciata? Sembrava una bambina, una bambina di cattivo umore. I capelli scuri, morbidissimi, buttati indietro, erano naturalmente ondulati. Sotto la pioggia, il trucco si era un po’ sciolto, e questo, anziché invecchiarla o imbruttirla, la rendeva ancora più giovane e attraente.

«Venga un attimo, Lognon» disse Maigret prendendolo in disparte.

«Dica, capo».

«Ha qualche idea in proposito?».

«Sa bene che non ho idee, io. Sono solo un poliziotto di quartiere».

«Ha mai visto questa ragazza?».

Lognon era quello che conosceva meglio di tutti la zona intorno a place Blanche e place Pigalle.

«No, mai».

«Potrebbe essere un’entraîneuse?».

«Se lo è, è un’occasionale. Le professioniste abituali le conosco più o meno tutte».

«Avrò bisogno di lei, Lognon».

«Non è obbligato a dirlo per farmi piacere. Dal momento che se ne occupa il Quai des Orfèvres, il caso non è più di mia competenza. Guardi che non protesto. È naturale che sia così. E ci sono abituato. Lei mi dia degli ordini e io farò del mio meglio».

«Forse non sarebbe male sentire fin d’ora i portieri dei locali notturni...».

Lognon lanciò un’occhiata al corpo disteso sul marciapiede e sospirò:

«Ci vado».

Era convinto che lo allontanassero volutamente. Lo videro attraversare la strada con il suo solito passo fiacco. Lui fece in modo di non voltarsi.

Arrivò l’auto della Scientifica. Intanto, uno degli agenti cercava di allontanare un ubriaco che si era avvicinato e strepitava, indignato, perché nessuno prestava aiuto alla «bella signorina».

«Tutti uguali, voialtri sbirri... Basta che uno beva un goccio di troppo...».

Scattate le fotografie, il dottore poté chinarsi sul corpo e girarlo sulla schiena, scoprendo interamente il volto che, visto così, sembrava ancora più giovane.

«Di che cosa è morta?» domandò Maigret.

«Frattura del cranio».

Il dottore teneva le dita affondate nei capelli della morta.

«È stata colpita alla testa con un oggetto molto pesante, un martello, una chiave inglese, un tubo di piombo, vallo a sapere. E prima ha preso altre botte in faccia, forse dei pugni».

«È in grado di determinare approssimativamente l’ora della morte?».

«Fra le due e le tre del mattino, direi. Il dottor Paul vi dirà qualcosa di più preciso dopo l’autopsia».

Era arrivata anche la camionetta dell’Istituto di medicina legale, e gli addetti si tenevano pronti con una barella per trasportare il corpo in direzione del pont d’Austerlitz.

«Andate pure!» sospirò Maigret.

Quindi cercò Janvier con lo sguardo.

«Andiamo a mangiare un boccone?».

Anche se nessuno dei due aveva più fame, sedettero al tavolo di una brasserie e, giusto perché lo avevano deciso un’ora prima, ordinarono una zuppa di cipolle. Maigret aveva dato disposizioni affinché una fotografia della morta venisse mandata ai giornali e quindi pubblicata, possibilmente, già nelle prime edizioni del mattino.

«Pensa di andare laggiù, capo?» domandò Janvier.

Maigret sapeva che il suo ispettore alludeva alla Morgue, ora ribattezzata Istituto di medicina legale.

«Sì, penso di passarci».

«Ci troverà il dottor Paul. Gli ho telefonato».

«Un calvados?».

«D’accordo».

A un tavolo vicino, due donne in abito da sera stavano mangiando una choucroute: erano di certo due entraîneuse e Maigret le osservava con attenzione come se cercasse di scoprire le differenze più sottili fra loro e la giovane morta.

«Torni a casa?».

«No, vengo con lei» decise Janvier.

Quando entrarono all’Istituto di medicina legale erano le quattro e mezzo. Il dottor Paul era appena arrivato e, con la sigaretta incollata al labbro inferiore, si stava infilando un camice bianco, come sempre quando doveva praticare un’autopsia.

«L’ha già esaminata, dottore?».

«Giusto un’occhiata veloce».

Il corpo era nudo sopra una lastra di marmo, e Maigret distolse lo sguardo.

«Che mi dice?».

«Fra i diciannove e i ventidue anni. Era in buona salute, ma ho il sospetto che fosse denutrita».

«Potrebbe essere un’entraîneuse?».

Il dottor Paul lo guardò con due occhietti maliziosi.

«Intende dire una di quelle ragazze che vanno a letto con i clienti?».

«Più o meno».

«Allora, la risposta è no».

«Come può essere così categorico?».

«Perché questa ragazza non è mai andata a letto con nessuno».

Janvier, che guardava soprappensiero il corpo della donna illuminato da un riflettore, arrossì e girò la testa da un’altra parte.

«Ne è sicuro?».

«Assolutamente».

Il dottore si infilò i guanti di gomma e iniziò a preparare gli strumenti su un tavolo smaltato.

«Rimanete qui?».

«No, aspettiamo di là. Ne avrà per molto?».

«Meno di un’ora. Dipende da quello che troverò. Vuole che analizzi anche il contenuto dello stomaco?».

«Sarebbe meglio. Non si sa mai».

Maigret e Janvier passarono nell’ufficio accanto, e lì si sedettero con l’aria compassata di chi sta in una sala d’attesa. Tutti e due avevano ancora davanti agli occhi l’immagine di quel giovane corpo bianco.

«Chissà chi è» mormorò Janvier dopo un lungo silenzio. «Ci si mette in abito da sera solo per andare a teatro o in certi locali notturni, oppure per una serata mondana...».

Dovevano avere tutti e due la stessa idea. Qualcosa non quadrava. Non sono molti i ricevimenti nei quali è d’obbligo l’abito da sera, ed è comunque raro vedervi un vestito a buon mercato e logoro come quello della sconosciuta.

D’altra parte, dopo quanto aveva affermato il dottor Paul, era difficile immaginare che la ragazza lavorasse in uno dei locali di Montmartre.

«Un matrimonio?» suggerì Maigret senza crederci troppo.

In fondo, anche quella è un’occasione per mettersi eleganti.

«Crede?».

«No».

E Maigret sospirò accendendosi la pipa:

«Aspettiamo».

Dopo dieci minuti di profondo silenzio, disse a Janvier:

«Ti dispiacerebbe andar dentro a prendere i suoi vestiti?».

«Devo proprio?».

Il commissario annuì con un cenno della testa.

«A meno che tu non te la senta».

Janvier aprì la porta, sparì per non più di due minuti, e quando tornò era così pallido che Maigret temette di vederlo vomitare. Comunque, teneva in mano l’abito azzurro e degli indumenti intimi bianchi.

«Ha quasi finito?».

«Non lo so. Ho preferito non guardare».

«Passami il vestito».

Era stato lavato spesso, e scucendo un po’ l’orlo si vedeva chiaramente che si era stinto. Su un’etichetta si leggeva: «Mademoiselle Irène, rue de Douai 35 bis».

«È vicino a place Vintimille» osservò Maigret.

Esaminò quindi le calze – un piede era bagnato fradicio –, le mutandine, il reggiseno, il reggicalze.

«È tutto quello che aveva addosso?».

«Sì. La scarpa viene da un negozio di rue Notre-Dame-de-Lorette».

Sempre in quel quartiere. Non fosse stato per l’affermazione del dottor Paul, tutto sembrava corrispondere esattamente alla figura di un’entraîneuse o di una giovane donna in cerca di avventure a Montmartre.

«Chissà, forse Lognon scoprirà qualcosa...» suggerì Janvier.

«Ne dubito».

Erano entrambi a disagio perché non potevano fare a meno di pensare a quello che si stava svolgendo al di là della porta. Passarono tre quarti d’ora prima che si aprisse. Quando guardarono nella stanza, il corpo della donna non c’era più, e un addetto dell’Istituto di medicina legale stava chiudendo uno degli scomparti metallici nei quali si tengono i cadaveri.

Nel frattempo, il dottor Paul si toglieva il camice e si accendeva una sigaretta.

«Non ho scoperto granché» disse. «La morte è dovuta alla frattura del cranio. Non c’è stato un colpo solo, ma diversi, almeno tre, inferti con violenza. Però mi è impossibile stabilire di quale oggetto si sia servito l’aggressore. Potrebbe essere un attrezzo qualunque come anche un attizzatoio o un candeliere, insomma qualcosa di duro e pesante. La donna in un primo momento è caduta in ginocchio e ha cercato di aggrapparsi a qualcuno, perché le ho trovato sotto le unghie dei fili di una lana scura che manderò subito in laboratorio. Il fatto che si tratti di lana sembra indicare che si sia afferrata a un indumento maschile».

«Dunque c’è stata una lotta...».

Il dottor Paul aprì un armadio dove, insieme al camice, ai guanti di gomma e ad altri oggetti, teneva anche una bottiglia di acquavite pregiata.

«Mi fate compagnia?».

Maigret accettò senza finti pudori, e Janvier, seguendo il suo esempio, fece segno di sì con la testa.

«Volete sapere qual è la mia opinione? Prima di colpirla con un arnese qualunque, l’hanno picchiata in faccia, con il pugno o forse con il rovescio della mano. Mi sentirei di dire che le hanno mollato un bel paio di schiaffi. Non so se sia caduta in ginocchio a quel punto, ma sarei propenso a crederlo, ed è stato allora, probabilmente, che l’aggressore ha deciso di finirla».

«In altre parole non è stata aggredita alle spalle...».

«Sicuramente no».

«Dunque non si tratta di un rapinatore che l’ha colta di sorpresa mentre camminava...».

«Secondo me, no. E niente prova, tra l’altro, che il fatto sia avvenuto per strada».

«Il contenuto dello stomaco le ha rivelato qualcosa?».

«Sì. E anche l’analisi del sangue».

«Che cosa?».

Sulle labbra del dottor Paul spuntò un leggero sorriso che sembrava dire:

«Aprite bene le orecchie! Adesso ci rimarrete male!».

Fece una pausa a effetto, come quando raccontava una di quelle storielle di cui era specialista.

«La ragazza era praticamente ubriaca».

«Ne è sicuro?».

«Domani, nel mio referto, troverete la percentuale d’alcol rilevata nel sangue, e vi manderò anche il risultato dell’analisi completa del contenuto dello stomaco. L’ultimo pasto deve averlo fatto circa sei o otto ore prima di morire».

«A che ora è morta?».

«Intorno alle due del mattino. Piuttosto prima che dopo».

«Questo significa che il suo ultimo pasto risale intorno alle sei o alle sette di sera».

«Ma non l’ultimo bicchiere».

Era poco probabile che il corpo fosse rimasto a lungo in place Vintimille prima d’essere scoperto. Dieci minuti? Un quarto d’ora? Non di più, certamente.

Quindi, fra il momento della morte e quello in cui il corpo era stato abbandonato sul marciapiede erano passati almeno tre quarti d’ora.

«Gioielli?».

Il dottor Paul andò nella stanza accanto e tornò con un paio di orecchini d’oro con dei piccolissimi rubini a forma di fiore e un anello, anche questo con un rubino, solo un po’ più grande. Non era paccottiglia, ma non erano nemmeno gioielli di valore. In base allo stile, quei tre pezzi risalivano a una trentina d’anni prima, forse anche di più.

«È tutto? Ha esaminato le mani?».

Una delle peculiarità del dottor Paul era proprio quella di determinare la professione della gente in base alle deformazioni più o meno evidenti delle mani, il che, non di rado, aveva reso possibile l’identificazione di sconosciuti.

«Un po’ di faccende domestiche doveva sbrigarne, ma niente di più. E non faceva né la dattilografa né la sarta. Tre o quattro anni fa è stata operata di appendicite da un chirurgo di second’ordine. Per il momento non so dirvi altro. Adesso andate a dormire?».

«Credo proprio di sì» mormorò Maigret.

«Allora, buonanotte. Io resto. Riceverete il mio referto domattina intorno alle nove. Ancora un bicchierino?».

Quando Maigret e Janvier si ritrovarono fuori dall’edificio, a bordo delle chiatte ormeggiate al lungosenna già si distingueva un certo andirivieni.

«La lascio a casa, capo?».

Maigret annuì. Passarono davanti alla Gare de Lyon, dove era appena arrivato un treno. Il cielo schiariva. L’aria era più fredda che durante la notte. Alcune finestre erano illuminate, e di quando in quando si vedeva un uomo andare al lavoro.

«Non presentarti in ufficio prima di questo pomeriggio».

«E lei?».

«Probabilmente andrò a dormire anch’io».

«Buonanotte, capo».

Maigret salì le scale badando a non far rumore. Mentre armeggiava con la chiave nella serratura, la porta si aprì e la signora Maigret, in camicia da notte, girò l’interruttore e lo guardò aguzzando un po’ gli occhi abbagliati dalla luce.

«Hai fatto tardi... Che ore sono?».

Anche quando era profondamente addormentata, lui non riusciva a salire le scale senza che lei lo sentisse.

«Non lo so. Le cinque passate».

«Hai fame?».

«No».

«Su, vieni a letto. Vuoi una tazza di caffè?».

«No, grazie».

Si spogliò e s’infilò nel letto caldo, ma invece di addormentarsi continuò a pensare alla giovane morta di place Vintimille. Fuori, sentiva Parigi svegliarsi poco alla volta. Erano rumori isolati, alcuni vicini, altri lontani, che, dapprima distinti e distanziati, finivano poi per formare una sorta di sinfonia familiare. Le portinaie cominciavano a trascinare i bidoni della spazzatura sul bordo dei marciapiedi, e sulle scale echeggiarono i passi della giovane servetta del lattaio che lasciava le bottiglie davanti alle porte.

Infine, con mille precauzioni, la signora Maigret si alzò, e lui dovette fare un certo sforzo per non tradirsi, perché gli veniva proprio da sorridere. La sentì prima in bagno, poi in cucina dove accese il gas, e poco dopo il profumo del caffè si diffuse nell’appartamento.

Non lo faceva apposta a non dormire. Il sonno non veniva, probabilmente perché era troppo stanco.

Quando, in pantofole e vestaglia, entrò in cucina, sua moglie, che stava facendo colazione, trasalì. La lampada era ancora accesa anche se fuori già faceva giorno.

«Non dormi?».

«Come vedi».

«Vuoi far colazione?».

«Se è possibile».

Non gli domandò come mai avesse passato gran parte della notte all’aperto. Aveva notato che il suo cappotto era bagnato.

«Non hai preso freddo?».

Bevuto il caffè, il commissario alzò la cornetta del telefono e chiamò il secondo distretto.

«C’è l’ispettore Lognon?».

I locali notturni avevano chiuso da un pezzo e Lognon avrebbe potuto benissimo essere andato a dormire. Invece no, era in ufficio.

«Lognon? Sono Maigret. Ha trovato qualcosa?».

«Macché. Sono stato in tutti i cabaret, ho interrogato i tassisti che stazionano davanti ai locali».

Memore del breve accenno fatto dal dottor Paul, Maigret si aspettava qualcosa del genere.

«Può andare a dormire adesso».

«E lei?».

Nel linguaggio di Lognon, questo significava:

«Ecco, mi manda a casa a dormire per proseguire l’inchiesta a modo suo. Così poi tutti diranno: “Quell’idiota di Lognon non ha scoperto niente!”».

Maigret pensò alla signora Lognon, così magra e lamentosa, costretta dai suoi acciacchi a rimanere sempre chiusa nell’appartamento di place Constantin-Pecqueur. Quando l’ispettore tornava a casa, lo aspettavano solo gemiti e recriminazioni, le pulizie di casa e la spesa da fare.

«Sicuro di aver spazzato bene sotto la credenza?».

Maigret ebbe pietà del Lagnoso.

«Senta, ho avuto una certa informazione... Magari non ci porterà a nulla, ma...».

All’altro capo del filo Lognon taceva.

«Se proprio non ha voglia di dormire, passerò a prenderla fra un paio d’ore».

«Sarò qui in ufficio».

Maigret telefonò al Quai chiedendo che gli mandassero un’auto di servizio, ma solo dopo che l’autista fosse passato all’Istituto di medicina legale a prendere i vestiti della ragazza.

Una volta nella vasca da bagno, però, rischiò di addormentarsi e per un attimo ebbe la tentazione di telefonare a Lognon perché andasse da Mademoiselle Irène, in rue de Douai, senza di lui.

Non pioveva più. Il cielo era bianco, con una particolare luminosità giallastra che faceva sperare in un po’ di sole nel corso della giornata.

«Torni per pranzo?».

«Non so... Probabilmente».

«Credevo che avresti chiuso l’inchiesta nella nottata...».

«Quel caso è chiuso, infatti. Si tratta di un’altra inchiesta».

Aspettò, per uscire, di vedere l’auto di servizio fermarsi lungo il bordo del marciapiede. L’autista dette tre colpi di clacson, e dalla finestra Maigret gli fece segno che sarebbe sceso subito.

«A più tardi».

Dieci minuti dopo, mentre l’auto attraversava faubourg Montmartre, si era già dimenticato di aver passato la notte in bianco.

«Fermati da qualche parte, che ci beviamo un bianchino!» disse all’autista.