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In cui il Lagnoso incontra una vecchia conoscenza e Lapointe viene incaricato di una strana missione

L’ispettore Lognon era fermo sul marciapiede di rue de La Rochefoucauld, e, anche da lontano, sembrava che curvasse le spalle sotto il peso della fatalità. Indossava invariabilmente completi grigio topo che non venivano mai stirati; anche il cappotto era grigio e il cappello di un brutto marrone. Quella mattina aveva un colorito giallastro e sembrava vittima di un gran raffreddore di testa, ma non perché avesse passato la notte in piedi. Era il suo aspetto abituale, e anche quando usciva dal letto offriva probabilmente lo stesso spettacolo desolante.

Maigret gli aveva detto al telefono che sarebbe passato a prenderlo, ma non gli aveva chiesto di farsi trovare in strada. E lui stava a bella posta sul bordo del marciapiede, come se fosse piantato lì da ore. Non solo gli portavano via l’inchiesta, ma gli facevano perdere tempo, e, dopo una notte in bianco, lo lasciavano lì a intirizzirsi.

Mentre gli apriva la portiera, Maigret lanciò uno sguardo alla facciata del commissariato, la cui bandiera, tutta sbiadita, pendeva floscia nell’aria immobile: era lì, in quell’edificio, che molto tempo prima aveva iniziato la sua carriera, non come ispettore ma come segretario del commissario.

Lognon sedette in silenzio, guardandosi bene dal chiedere dove lo stessero portando. L’autista, precedentemente istruito, girò a sinistra e si diresse verso rue de Douai.

Parlare a Lognon era sempre una faccenda delicata perché, qualsiasi cosa uno dicesse, lui trovava modo di cogliervi un intento vessatorio.

«Ha letto i giornali?».

«Non ne ho avuto il tempo».

Maigret tirò fuori dalla tasca quello che aveva appena comprato. In prima pagina spiccava la fotografia della sconosciuta, di cui si vedeva solo la testa, con l’occhio e il labbro tumefatti. Ciò nonostante, sembrava abbastanza riconoscibile.

«Spero che a questo punto qualcuno cominci a telefonare al Quai» riprese il commissario.

Intanto Lognon pensava:

«In altre parole ho passato una notte in bianco, sono andato da un locale all’altro e da un tassista all’altro per niente. Basta far pubblicare la fotografia sul giornale e aspettare le telefonate!».

Ma non sogghignava. Era difficile da spiegare: il suo viso assumeva un’espressione lugubre e rassegnata, come se avesse deciso di costituire un rimprovero vivente per un’umanità crudele e male organizzata.

Non poneva domande. Lui non era che una modestissima rotella dell’ingranaggio investigativo, e non si danno spiegazioni a una rotella.

In rue de Douai, deserta, c’era solo una portinaia, ferma sulla soglia del suo palazzo. Parcheggiarono davanti a un negozio dalla facciata color malva con un’insegna sulla quale si leggeva, in caratteri inglesi: «Mademoiselle Irène». E sotto, più in piccolo: «Creazioni d’alta moda».

Nella vetrina polverosa c’erano solo due vestiti, uno bianco ornato di lustrini, e uno da città di seta nera. Maigret scese dall’auto con il pacco, avvolto in una carta scura, che gli aveva mandato l’Istituto di medicina legale, fece segno al Lagnoso di seguirlo e disse all’autista di aspettare.

Quando tentò di aprire la porta del negozio, si accorse che era chiusa e che la maniglia era stata tolta. Erano già le nove e mezzo passate. Il commissario incollò la faccia al vetro e, scorgendo della luce all’interno, prese a bussare.

Passarono parecchi minuti, come se dentro non ci fosse nessuno e tutto quel picchiare cadesse nel vuoto. Vicino a Maigret, Lognon aspettava immobile, senza aprir bocca. E neppure fumava: aveva smesso da anni, da quando sua moglie, sempre malaticcia, si era lamentata che il fumo le dava un senso di soffocamento.

Alla fine una sagoma si profilò sul fondo. Una ragazza piuttosto giovane, avvolta in una vestaglia rossa che teneva incrociata sul petto, guardò entrambi. Poi sparì, probabilmente per andare a parlare con qualcuno, tornò, attraversò il negozio ingombro di abiti e cappotti e finalmente si decise ad aprire la porta.

«Che cosa c’è?» domandò osservando con occhio diffidente Maigret, poi Lognon e quindi il pacco.

«Mademoiselle Irène?».

«Non sono io».

«Ma è qui?».

«Non siamo ancora aperti».

«Vorrei parlare con Mademoiselle Irène».

«Chi devo dire?».

«Commissario Maigret, della Polizia giudiziaria».

Non parve sorpresa né spaventata. Vista da vicino, non dimostrava più di diciotto anni. Forse non era ancora ben sveglia, o forse quell’apatia le era naturale.

«Vado a vedere» disse, dirigendosi verso l’altra stanza.

La sentirono parlottare con qualcuno. Poi ci furono dei rumori, come se il suo interlocutore si stesse alzando dal letto. A Mademoiselle Irène bastarono pochi minuti per darsi una pettinata e infilarsi a sua volta una vestaglia.

Era una donna di una certa età, dalla faccia smorta, gli occhi azzurri sporgenti, i capelli radi, di un biondo che alla radice rivelava il bianco. Dapprima si limitò a sporgere la testa per guardarli, e quando finalmente si avvicinò aveva in mano una tazza di caffè.

Non si rivolse a Maigret, ma a Lognon:

«Ancora tu! Ma cosa vuoi da me?».

«Io niente. È il commissario che desidera parlarle».

«Mademoiselle Irène?» domandò Maigret.

«Se è il mio vero nome che vuole sapere, mi chiamo Coumar, Élisabeth Coumar. Ma per la mia attività Irène suona meglio».

Nel frattempo Maigret, che si era avvicinato al banco, stava aprendo il pacco per tirarne fuori il vestito azzurro.

«Riconosce questo vestito?».

La donna non si mosse per guardarlo più da vicino e disse senza esitare:

«Certamente».

«Quando l’ha venduto?».

«Non l’ho venduto».

«Ma viene dal suo negozio...».

Non li aveva invitati a sedersi, e non sembrava né turbata né preoccupata.

«E con questo?».

«Quando l’ha visto per l’ultima volta?».

«È così importante?».

«Può essere molto importante, sì».

«Ieri sera».

«A che ora?».

«Poco dopo le nove».

«Tiene aperto il negozio fino alle nove di sera?».

«Non chiudo mai prima delle dieci. Capita quasi ogni giorno che delle clienti debbano fare un acquisto all’ultimo momento».

Probabilmente Lognon era già al corrente di tutto questo, ma aveva assunto un’aria distaccata, come se la cosa non lo riguardasse.

«Suppongo che la sua clientela sia costituita soprattutto da entraîneuse e artiste di cabaret...».

«Sì, ma non solo. Ci sono anche quelle che si alzano alle otto di sera e a cui manca sempre qualcosa per vestirsi: le calze, una cintura, un reggiseno. Oppure si accorgono che il vestito che avevano addosso la notte precedente si è strappato...».

«Prima, lei ha detto di non aver venduto questo vestito...».

La donna si girò verso la ragazza che era rimasta sulla soglia della seconda stanza.

«Viviane! Dammi un’altra tazza di caffè».

La giovane venne a prenderle la tazza con una sollecitudine da schiava.

«È la sua donna di servizio?» domandò Maigret seguendo la ragazza con lo sguardo.

«No, la mia protetta. È capitata qui una sera, anche lei come le altre, ed è rimasta».

Non si preoccupava di fornire spiegazioni. E d’altronde Lognon, al quale lei rivolgeva ogni tanto un’occhiata, doveva essere al corrente di tutto.

«Torniamo a ieri sera...» disse Maigret.

«La ragazza è venuta...».

«Un momento. La conosceva già?».

«L’avevo vista una volta».

«Quando?».

«Circa un mese fa».

«E aveva già comprato un vestito?».

«No. Ne aveva preso uno a nolo».

«Dunque dà anche vestiti a noleggio».

«Mi capita».

«La ragazza le aveva lasciato nome e indirizzo?».

«Credo di sì. Devo averlo scritto su un foglietto. Se vuole, vado a cercarlo...».

«Tra un momento. La prima volta si trattava di un abito da sera?».

«Sì. Sempre lo stesso».

«Ed era venuta tardi?».

«No. Subito dopo cena, verso le otto. Le serviva un abito da sera e mi ha confessato che non poteva permettersi di comprarne uno. Mi ha chiesto se era vero che li davo anche a noleggio».

«Non le è sembrata un po’ diversa dalle solite clienti?».

«All’inizio sembrano sempre diverse, ma dopo qualche mese sono tutte uguali».

«Le ha trovato un vestito della sua misura?».

«Quello azzurro che ha in mano. Taglia 40. Non so quante ragazze del quartiere hanno passato la notte con quel vestito addosso».

«E lo ha portato via?».

«La prima volta, sì».

«Glielo ha restituito la mattina dopo?».

«Sì, già a mezzogiorno. Mi sono meravigliata che venisse così di buonora. Di solito dormono tutto il giorno».

«Ha pagato il noleggio?».

«Sì».

«E non l’ha più rivista prima di ieri sera?».

«Gliel’ho già detto. È entrata poco dopo le nove e mi ha chiesto se avevo ancora quel vestito. Le ho risposto di sì. Allora mi ha spiegato che questa volta non avrebbe potuto versarmi una caparra, ma che, se ero d’accordo, mi avrebbe lasciato in pegno gli abiti che indossava».

«Si è cambiata qui?».

«Sì. Le occorrevano anche delle scarpe e un cappotto. Le ho trovato una cappa di velluto piuttosto adatta».

«Che aria aveva?».

«L’aria di una che ha assolutamente bisogno di un abito da sera e di un cappotto».

«In altre parole sembrava che per lei fosse importante».

«Per tutte loro sembra sempre importante».

«Ha avuto l’impressione che avesse un appuntamento?».

La donna alzò le spalle e bevette un sorso del caffè che Viviane le aveva portato.

«La sua protetta l’ha vista?».

«È lei che l’ha aiutata a vestirsi».

«Le ha detto qualcosa di particolare, signorina?».

Fu la padrona a rispondere:

«Viviane non ascolta quello che le dicono. Le è del tutto indifferente».

La ragazza, infatti, sembrava vivere in un mondo irreale. I suoi occhi erano senza espressione, e si muoveva senza neanche spostare l’aria. Vicino alla corpulenta Mademoiselle Irène, faceva davvero pensare a una schiava, o meglio a un cane.

«Le ho trovato delle scarpe, delle calze e una borsetta d’argento. Che cosa le è capitato?».

«Non ha letto i giornali?».

«Quando lei ha bussato non mi ero ancora alzata, e Viviane stava preparandomi il caffè».

Maigret le tese il giornale e la donna guardò la fotografia senza scomporsi.

«È lei?».

«Sì».

«Non sembra stupita...».

«È un pezzo che non mi stupisco più di niente. L’abito si è rovinato?».

«Si è bagnato per la pioggia ma non è strappato».

«È già qualcosa. Vuole che le consegni i suoi vestiti, vero? Viviane!».

La ragazza aveva capito e andò ad aprire un armadio nel quale erano appesi dei capi. Poco dopo posò sul banco un abito nero di lana, e Maigret cercò subito l’etichetta.

«Non ne troverà: se lo è fatto da sola» disse Mademoiselle Irène. «Porta anche il cappotto, Viviane».

Il cappotto, anch’esso di lana, beige a quadri marroni, non era certo di prima qualità e proveniva da un grande magazzino di rue La Fayette.

«Vede? È roba a buon mercato. Come le scarpe e la sottoveste».

Agli indumenti già sciorinati sul banco la schiava aggiunse poi una borsetta di pelle nera con un fermaglio di metallo che conteneva solo una matita e un paio di guanti logori.

«Ha detto di averle prestato anche una borsetta...».

«Infatti. Lei voleva tenere la sua, ma le ho fatto notare che non si intonava con il vestito, e le ho trovato una borsettina da sera, d’argento. Ci ha messo dentro il rossetto, la cipria e il fazzoletto».

«Non il portafoglio?».

«Forse. Non ci ho badato».

Lognon aveva sempre l’aria di uno che assiste a una conversazione alla quale non è stato invitato a partecipare.

«A che ora è andata via?».

«Si è cambiata in un quarto d’ora circa».

«Aveva fretta?».

«Mi è sembrato di sì. Ha guardato l’ora due o tre volte».

«Sul suo orologio?».

«Non aveva l’orologio. Ce n’è uno sopra il banco».

«Quando è uscita pioveva. Ha preso un taxi?».

«Non c’erano taxi in zona. Si è diretta a piedi verso rue Blanche».

«Le ha dato di nuovo nome e indirizzo?».

«Non glieli ho chiesti».

«Vuole vedere se riesce a trovare il foglietto sul quale li ha annotati la prima volta?».

Mademoiselle Irène passò, sospirando, dall’altra parte del banco e aprì un cassetto in cui c’era un po’ di tutto, blocchetti, fatture, matite, scampoli di tessuto e una gran quantità di bottoni.

E mentre rovistava lì dentro con poca convinzione, commentò:

«Sa, non serve a niente tenere l’indirizzo di queste ragazze. Vivono per lo più in camere ammobiliate e le cambiano come cambiano sottoveste... Anche più spesso. Quando non hanno più di che pagare l’affitto, spariscono e... No! Non è questo. Se ricordo bene, era una strada qui nel quartiere. Una strada che tutti quanti conoscono... Non trovo niente, adesso. Se ci tiene, continuerò a cercare e le telefonerò...».

«Sì, la prego di farlo».

«Lavora con lei, quello là?» domandò la donna indicando Lognon. «Chissà quante gliene racconterà sul mio conto! Ma le dirà anche che non sgarro da anni. Ehi, tu, non è forse vero?».

Maigret, intanto, si stava servendo della carta da pacco per portare via i capi della ragazza.

«Non me lo lascia, l’abito azzurro?».

«Non adesso. Glielo restituiremo più avanti».

«Come vuole».

Mentre erano già sulla porta, a Maigret venne in mente un’altra domanda:

«Quando la ragazza è venuta, ieri sera, ha chiesto un vestito qualunque o lo stesso che aveva già messo una volta?».

«Quello che aveva già messo».

«Crede che ne avrebbe preso un altro, se l’abito azzurro non ci fosse stato?».

«Non saprei. Ha chiesto se avevo ancora quello».

«La ringrazio».

«Non c’è di che».

I due uomini risalirono in macchina, e la schiava richiuse la porta alle loro spalle. Lognon, sempre zitto, aspettava le domande del capo.

«È stata dentro?».

«Tre o quattro volte».

«Ricettazione?».

«Sì».

«A quando risale l’ultima condanna?».

«A quattro o cinque anni fa. All’inizio faceva la ballerina, poi è stata la vice della maitresse in una casa di tolleranza, quando ancora ce n’erano».

«E ha sempre avuto una schiava che la serviva?».

L’autista aspettava che gli dicessero dove andare.

«Rientra a casa, Lognon?».

«Se non ci sono disposizioni urgenti...».

«Place Constantin-Pecqueur» ordinò il commissario all’autista.

«Posso andare a piedi».

E che diamine! Possibile che dovesse sempre avere quell’aria umile, rassegnata!

«Conosce quella Viviane?».

«Lei, no. Ogni tanto le cambia, le sue schiave».

«Le caccia via?».

«No. Sono loro ad andarsene. Le prende con sé quando sono al verde e non sanno più dove andare a dormire».

«Perché lo fa?».

«Forse per non lasciarle sul marciapiede».

Lognon sembrava dire:

«Lo so che non ci crede e sospetta qualcosa di losco, ma può capitare che anche una donna come quella sia compassionevole e faccia qualcosa per pura carità. Anche nel mio caso, tutti pensano che...».

E Maigret, con un sospiro:

«La cosa migliore, Lognon, è che lei vada a riposare. Questa notte, probabilmente, avrò bisogno di lei. Che ne pensa di tutta la faccenda?».

L’ispettore non rispose e si limitò a scrollare le spalle. Perché mai avrebbe dovuto far credere di avere un’opinione sua, dal momento che tutti – ne era convinto – lo giudicavano un idiota?

Peccato, davvero. Era non solo intelligente, ma uno degli agenti più coscienziosi della polizia parigina.

Si fermarono sulla piazzetta, davanti a un immobile d’aspetto borghese.

«Mi telefonerà in ufficio?».

«No. A casa. Preferisco che aspetti a casa».

Mezz’ora dopo Maigret arrivava al Quai des Orfèvres col pacco sotto il braccio ed entrava nell’ufficio degli ispettori.

«C’è qualcosa per me, Lucas?».

«Niente, capo».

Il commissario aggrottò le sopracciglia, sorpreso e deluso. I giornali con la fotografia della ragazza erano già usciti da parecchie ore.

«Telefonate?».

«Solo una, per un furto di formaggi alle Halles».

«Sto parlando della ragazza uccisa questa notte».

«Niente di niente».

Sulla scrivania c’era il referto del dottor Paul, e Maigret gli diede solo una scorsa, constatando che non aggiungeva niente a quello che il medico legale gli aveva detto la notte prima.

«Mandami Lapointe, per favore».

Nell’attesa non smise di contemplare i vestiti, che aveva disposto in bell’ordine su una poltrona, e la fotografia della giovane morta.

«Salve, capo. Ha bisogno di me?».

Maigret gli mostrò la fotografia, il vestito, la biancheria.

«Prima di tutto, porterai questi indumenti su, a Moers, e gli dirai di sottoporli al solito trattamento».

Significava che Moers avrebbe chiuso i capi in un sacco di carta e li avrebbe scossi con forza per farne cadere le particelle di polvere. Polvere che avrebbe poi esaminato al microscopio e analizzato. A volte quel procedimento dava dei risultati.

«Che esamini anche la borsetta, le scarpe e il vestito da sera. Capito?».

«Sì, capo. Non si sa ancora chi è?».

«Non sappiamo niente, se non che ieri sera ha preso in affitto per una notte questo vestito azzurro in un negozio di Montmartre. Quando Moers avrà finito, devi andare all’Istituto di medicina legale e osservare attentamente il corpo».

Il giovane Lapointe, che era nella polizia solo da due anni, storse il naso.

«È importante, credimi. Dopo andrai in una qualsiasi agenzia di modelle. Ce n’è una in rue Saint-Florentin. Farai in modo di scovare una ragazza che abbia suppergiù la taglia e le forme della morta. Taglia 40».

Per un attimo Lapointe si domandò se il capo parlasse seriamente o volesse in qualche modo provocarlo.

«E poi?» domandò.

«Le farai mettere i vestiti della morta e, se le vanno bene, la porterai su, in laboratorio, e chiederai di fotografarla».

Lapointe cominciava a capire.

«Non è tutto. Voglio una fotografia anche della morta, truccata e pettinata in modo che sembri viva».

Alla Scientifica avevano un fotografo che era un vero artista in questo genere di operazioni.

«Basterà realizzare un fotomontaggio usando le due fotografie, in modo da avere la testa della morta sul corpo della modella. Fa’ presto. Vorrei avere il tutto per l’ultima edizione dei giornali».

Rimasto solo in ufficio, Maigret firmò qualche pratica da evadere, caricò una pipa e chiamò Lucas incaricandolo, per ogni evenienza, di trovargli il fascicolo relativo a Élisabeth Coumar, detta Irène. Era convinto che non sarebbe emerso nulla e che la donna aveva detto la verità, ma, fino a quel momento, era la sola persona ad aver riconosciuto la morta di place Vintimille.

Con il passar delle ore, era sempre più sorpreso di non ricevere telefonate.

Se la sconosciuta viveva a Parigi, si potevano prospettare alcune ipotesi. Anzitutto che vivesse con i genitori, nel qual caso questi, vedendo la fotografia sul giornale, si sarebbero precipitati al più vicino commissariato, o addirittura al Quai des Orfèvres.

Se invece viveva per conto suo, doveva avere dei vicini di casa, una portinaia, e probabilmente faceva la spesa nei negozi del quartiere.

Se poi viveva con un’amica, caso molto frequente, allora c’era una persona in più che si preoccupava della sua sparizione e che avrebbe riconosciuto la fotografia.

Ma poteva anche stare a pensione in qualche casa dello studente o in uno dei tanti istituti che ospitano ragazze che lavorano, e questo moltiplicava il numero di persone che la conoscevano.

Restava un’ultima ipotesi: la camera ammobiliata in uno degli innumerevoli alberghetti di Parigi.

Maigret chiamò l’ufficio degli ispettori.

«C’è Torrence? Se è libero, ditegli di venire da me».

Se la ragazza viveva in famiglia, non c’era che da aspettare. E così pure se alloggiava da un privato, sola o con un’amica. Ma, negli altri casi, si potevano accelerare un po’ le cose.

«Siediti, Torrence. Vedi questa foto? Bene! Nel tardo pomeriggio ne avremo una migliore. Immagina che la ragazza indossi un vestito nero e un cappotto beige a quadri. È così che la gente è abituata a vederla».

In quel preciso momento un raggio di sole penetrò dalla finestra e tracciò sulla scrivania una linea luminosa. Maigret s’interruppe un attimo per osservarla, incantato, come si guarda un uccellino che viene a posarsi sul davanzale della finestra.

«Per prima cosa, scendi giù dai colleghi addetti al controllo di alberghi e camere ammobiliate. Chiedi che mostrino questa fotografia in tutti gli hôtel a buon mercato. Meglio cominciare dal IX e dal XVIII arrondissement. Capisci cosa intendo?».

«Sì, capo. Sa come si chiama?».

«Non sappiamo niente. Quanto a te, fa’ una lista degli istituti che ospitano ragazze e va’ a vedere di persona. Forse il tuo giro non darà alcun frutto, ma non voglio lasciare niente di intentato».

«Ho capito».

«È tutto. Prendi l’auto per fare prima».

D’un tratto l’aria si era fatta mite. Maigret andò ad aprire la finestra, spostò distrattamente qualche altro foglio sulla scrivania, poi guardò l’ora e decise di andare a dormire.

«Svegliami verso le quattro» raccomandò alla moglie.

«Se è proprio necessario...».

Non era necessario: in fondo non c’era che da aspettare. Si addormentò quasi subito, di un sonno pesante, e quando sua moglie si avvicinò al letto con una tazza di caffè in mano la fissò meravigliato di trovarsi là, nella camera inondata dal sole.

«Sono le quattro. Mi avevi detto...».

«Sì... Ha telefonato qualcuno?».

«Solo l’idraulico per dirmi che...».

La prima edizione dei giornali del pomeriggio era uscita intorno all’una, e in tutti c’era la stessa fotografia apparsa nelle edizioni del mattino.

La morta era leggermente sfigurata, d’accordo, eppure Mademoiselle Irène, pur avendola vista solo due volte, l’aveva riconosciuta alla prima occhiata.

Restava l’eventualità che la ragazza non fosse di Parigi, che non avesse preso una camera in albergo e che le due volte in cui si era recata in rue de Douai fosse arrivata da fuori città giusto qualche ora prima.

Ma era poco verosimile, perché tutti i suoi indumenti erano stati acquistati in rue La Fayette, tranne il vestito che si era fatta da sé.

«Torni a casa per cena?».

«Forse».

«Se devi restare fuori, prendi il cappotto pesante perché di notte farà freddo».

Quando entrò nel suo ufficio, non trovò nessun messaggio sulla scrivania. Indispettito, chiamò Lucas.

«Ancora niente? Nessuna telefonata?».

«Niente, capo. Le ho portato il fascicolo di Élisabeth Coumar».

Lo sfogliò, in piedi, e ci trovò solo quello che già gli aveva detto Lognon, niente di più.

«Lapointe ha mandato le fotografie ai giornali».

«È qui?».

«La sta aspettando».

«Digli di venire».

Il fotomontaggio era un capolavoro, tanto che Maigret ne rimase scioccato. Improvvisamente aveva davanti agli occhi l’immagine della ragazza, non come l’aveva vista sotto la pioggia in place Vintimille, illuminata dalle torce elettriche, e neanche come aveva potuto intravederla più tardi, sul marmo dell’Istituto di medicina legale, ma come doveva essere la sera prima, quando era entrata da Mademoiselle Irène.

Anche Lapointe sembrava impressionato.

«Che cosa ne pensa, capo?» disse con voce esitante.

Poi, dopo un attimo di silenzio:

«È bella, vero?».

Non era esattamente quello che cercava di dire, e la parola non corrispondeva alla realtà. Senza dubbio la ragazza era bella, ma c’era in lei qualcosa di più, difficile da definire. Il fotografo era persino riuscito a ridare vita al suo sguardo, che sembrava porre un quesito irrisolvibile.

Su due provini indossava il vestito nero, su un altro il cappotto a quadri, e sull’ultimo era in abito da sera. La si immaginava per le strade di Parigi, dove tante ragazze come lei si tuffavano tra la folla, fermandosi un attimo davanti alle vetrine e riprendendo poi la loro strada verso chissà quale meta.

Aveva avuto un padre, una madre, e più tardi, a scuola, delle amichette. Poi, ormai non più ragazzina, aveva avuto a che fare con uomini e donne. Aveva parlato con loro, e loro l’avevano chiamata col suo nome.

Eppure, adesso che era morta, nessuno sembrava ricordarsi di lei, nessuno se ne preoccupava, era come se non fosse mai esistita.

«È stato un problema?».

«Che cosa?».

«Trovare la modella».

«No, solo imbarazzante. Ne avevo intorno almeno una dozzina, e quando ho fatto vedere i vestiti tutte hanno voluto provarli».

«Davanti a te?».

«Ci sono abituate».

E bravo Lapointe, che dopo due anni di polizia era ancora capace di arrossire!

«Trasmetti le foto a tutte le squadre di provincia».

«Ci ho già pensato, e mi sono permesso di spedirle senza aspettare le sue istruzioni».

«Perfetto. Ne hai mandate anche ai commissariati?».

«Sì, sono partite mezz’ora fa».

«Chiamami al telefono Lognon».

«Al secondo distretto?».

«No. A casa».

Qualche istante dopo, all’altro capo del filo, una voce diceva:

«Qui, ispettore Lognon».

«Sono Maigret».

«Lo so».

«Le ho fatto mandare in ufficio delle fotografie, le stesse che usciranno sui giornali fra un paio d’ore».

«Vuole che torni a sentire un po’ in giro?».

Senza sapere bene il perché, Maigret non credeva molto all’efficacia di un’ulteriore indagine in quella direzione. Eppure il negozio di Mademoiselle Irène da cui l’abito proveniva, l’ora in cui era stato commesso il delitto, il luogo, tutto sembrava indicare una connessione con il quartiere dei locali notturni.

Perché mai la sconosciuta, alle nove di sera, aveva dovuto assolutamente procurarsi un abito da sera? Ma era evidente: perché doveva andare in un posto in cui è d’obbligo una tenuta elegante.

L’ora dei teatri era passata, e comunque, a parte l’Opéra o le prime, ai successivi spettacoli l’abito da sera non è indispensabile.

«Ci provi ancora, non si sa mai. Senta soprattutto i tassisti che fanno la notte» disse Maigret, e riattaccò.

Lapointe era sempre lì e aspettava istruzioni, ma il commissario non sapeva che istruzioni dargli.

Ad ogni buon conto chiamò il negozio di rue de Douai.

«Mademoiselle Irène?».

«Sì?...».

«Ha trovato l’indirizzo?».

«Ah! È lei... No! Ho cercato dappertutto, ma devo aver gettato via il foglietto o averci scritto le misure di una cliente. Però mi è tornato in mente il nome. Ne sono quasi sicura. Si chiama Louise. E il cognome comincia anche quello con una l. “La” e poi qualcosa... Tipo “La Montagne” o “La Bruyère”... Non è così ma ci assomiglia...».

«Quando la ragazza ha messo nella borsetta d’argento gli oggetti che stavano prima nella sua borsa, ha notato se fra questi c’era una carta d’identità?».

«No».

«E delle chiavi?».

«Un momento! Sì, mi sembra di ricordare delle chiavi, o meglio una sola piccola chiave di ottone».

Maigret la sentì che chiamava:

«Viviane! Vieni un attimo...».

Ma non riuscì a sentire quello che la donna diceva alla sua schiava (o protetta che dir si voglia).

«Anche a Viviane sembra di aver visto una chiave» confermò Mademoiselle Irène.

«Una chiave piatta?».

«Sì, come la maggior parte delle chiavi che fanno adesso».

«E soldi ne aveva?».

«Qualche banconota ben piegata, ricordo anche questo. Non molte. Due o tre, forse. Biglietti da cento franchi. Ho pensato che non ci avrebbe fatto molto, con quelli».

«Nient’altro?».

«No. Credo sia tutto».

Qualcuno bussò all’ufficio di Maigret. Era arrivato Janvier che, vedendo le foto sulla scrivania, rimase scioccato come poco prima il commissario.

«Ha trovato delle fotografie della ragazza?» domandò, stupito.

Poi, aggrottando le sopracciglia, guardò più da vicino.

«Le hanno fatte su in laboratorio?».

E sussurrò:

«Strana ragazza, vero?».

Continuavano a non saper niente di lei, se non che nessuno, tranne una commerciante di vestiti d’occasione, sembrava conoscerla.

«Che si fa?».

Maigret non poté che alzare le spalle e rispondere:

«Si aspetta».