Regola numero cinque

Sapere quando smettere di mentire

 

Il giorno dopo, quando io e Freya veniamo dimesse dall’ospedale alle nove del mattino senza preavviso, in perfetto stile Servizio Sanitario Nazionale perché hanno bisogno del letto, non è Owen che ci viene a prendere perché non l’ho ancora chiamato.

Il mio cellulare è bruciato nell’incendio come tutto il resto e mi concedono di telefonare dalla sala infermiere, ma quando le mie dita indugiano sul suo numero qualcosa dentro di me viene meno e non riesco ad affrontare la conversazione che mi si prospetta. Mi dico che la mia riluttanza è dovuta a questioni pratiche: ci vorrà del tempo per attraversare Londra nell’ora di punta e le autostrade intasate per arrivare qui. Ma non è questo, o non solo questo. La verità è che la notte scorsa, mentre la vita di Freya sfrecciava davanti ai miei occhi, qualcosa è cambiato in me. Ma non so esattamente come, e che cosa significhi.

Chiamo invece Fatima, e dopo un’attesa davanti al reparto di pediatria con Freya avvolta in una coperta prestata vedo arrivare un taxi coi volti smorti di Fatima e Thea ai finestrini.

Salgo e sistemo Freya sul seggiolino saggiamente procurato da Fatima e vedo Shadow accucciato sul pavimento ai piedi di Thea, che tiene in mano il collare.

«Stamattina ci hanno dimesso prestissimo», dice Fatima voltandosi dal sedile davanti. Ha gli occhi cerchiati di nero. «Ho prenotato un bed and breakfast lungo la costa. Credo che Mark Wren voglia che rimaniamo in zona, almeno finché la polizia non ha parlato con noi.»

Annuisco. E stringo le dita sulla busta nella mia tasca. La lettera di Ambrose.

«Ancora non riesco a crederci.» Thea ha il volto pallido e accarezza nervosamente il pelo di Shadow. «Che lui... Pensate sia stato lui? Voglio dire la pecora.»

Capisco ciò che intende dire. È stato Luc? È stata anche quella opera sua, oltre a tutto il resto? Dobbiamo aver passato la notte a rimuginare sulla stessa cosa. A romperci la testa. A cercare di discernere verità e menzogne.

Guardo Fatima.

«Non lo so», dico alla fine. «Non credo.»

Ma non continuo il discorso. Perché non voglio dire ciò che penso davvero. Non davanti al tassista. Non è Rick, questo non lo conosco. Ma dev’essere uno del posto. E a dire il vero, di tutte le cose che Luc ha fatto o non ha fatto, penso che abbiamo sbagliato a sospettarlo di questo.

Avevo pensato che avesse scritto quel biglietto perché odiava Kate e sospettava che coprisse la morte di Ambrose. Che volesse spaventarci perché confessassimo. Che volesse far venire alla luce la verità.

Ma in seguito, quando Kate mi aveva raccontato del ricatto e dei soldi, avevo cominciato a dubitare. Per un motivo o per l’altro, non mi sembrava un gesto da Luc. Non quell’attacco freddo e calcolato alle scarse risorse di Kate. Non riuscivo a immaginare che Luc provasse interesse per il denaro, ma che volesse pareggiare il conto facendola pagare a Kate per le sofferenze che lei gli aveva causato... sì, quello mi sembrava plausibile.

Adesso però, dopo la scorsa notte, non ci credo più. Non ha alcun senso. All’infuori di Kate, Luc era il solo che conosceva la verità, e mentiva ancora più di noi. Faceva parte del gioco quanto noi, ed era quello che aveva maggiormente da perdere se fosse venuta fuori la verità. Per giunta, durante quella lunga notte passata in ospedale, avevo avuto tempo di riflettere e mi ero ricordata della lista di reati che Owen mi aveva mandato, e mi è rimasta impressa una data.

No, penso che quel biglietto l’avesse scritto qualcun altro.

Di cui ricordo le dita all’ufficio postale, dita robuste con del sangue sotto le unghie.

E sono certa, come non lo ero di Luc, che lei sia capacissima di farlo.

Quando arrivo al bed and breakfast mi butto sul letto con Freya e sprofondiamo nel sonno come due corpi che vanno a fondo nell’acqua. Riaffioro ore dopo, e per un attimo provo una stranissima sensazione di sconnessione.

Il bed and breakfast sorge sulla strada costiera a pochi chilometri dalla scuola, e dalla finestra della stanza in cui mi trovo, mentre tento di sistemarmi i vestiti stropicciati e macchiati di sale e scosto i capelli sudati dalla faccia di Freya, osservo esattamente lo stesso panorama che tanti anni fa vedevo dalla Torre 2B.

Per un istante, anche se mia figlia dorme a fianco a me, ho di nuovo quindici anni e sono di nuovo laggiù, con i versi dei gabbiani nelle orecchie, la strana luce che si spande sul davanzale in legno e la mia migliore amica nel letto a fianco.

Chiudo gli occhi per ascoltare il suono del passato immaginandomi di nuovo nella pelle della ragazza di un tempo, una ragazza le cui amiche erano ancora tutte intorno a lei e i cui errori erano ancora ben lontani.

Sono felice.

Poi Freya si stira e inizia a strillare e l’illusione s’infrange, e sono di nuovo una donna di trentadue anni, avvocato e madre. E la vaga consapevolezza con cui ho combattuto per tutta la notte piomba su di me con tutto il suo peso.

Kate e Luc sono morti.

Prendo in braccio Freya e scendo di sotto sbadigliando, dove Fatima e Thea sono sedute nella veranda di fronte al mare.

Siamo in luglio ma la giornata è fredda e grigia e le nuvole minacciano pioggia, con vene scure che ricordano esattamente il colore del pelo sulla schiena di Shadow. Lui è accucciato ai piedi di Thea col naso nero nella sua mano, ma quando arrivo vedo che gli si riaccende lo sguardo per un istante e poi si accascia di nuovo. So chi sta cercando. Come si fa a spiegare a un cane l’irrevocabilità e la crudeltà della morte di Kate? A stento la capisco io.

«Ci hanno telefonato dalla stazione di polizia», dice Fatima. Solleva le ginocchia e se le abbraccia. «Vogliono che andiamo da loro oggi alle quattro. Dobbiamo metterci d’accordo su cosa dire.»

«Lo so», sospiro stropicciandomi gli occhi, poi metto Freya sul pavimento a giocare con alcune vecchie riviste lasciate per gli ospiti. Strappa una copertina con un urletto e so che dovrei fermarla, ma sono troppo stanca. Non me ne importa più niente.

Sediamo a lungo a guardarla in silenzio, e senza chiedere nulla so già che le altre hanno passato la notte come l’ho passata io, tentando di credere a ciò che è successo. Mi sento come se ieri avessi avuto due braccia e due gambe e oggi mi fossi svegliata con una in meno.

«Kate ha infranto le regole», dice Thea. Ha la voce bassa e sconcertata. «Ci ha mentito. Ha mentito a noi. Se solo ce ne avesse parlato. Non si fidava di noi?»

«Non era il suo segreto», dico. Non sto pensando soltanto a Kate, ma anche a Owen. Al modo in cui gli ho mentito per tutti questi anni tradendo le nostre regole non scritte. Perché non esiste una risposta corretta, giusto? Soltanto uno scambio, un tradimento per un altro. Kate poteva scegliere tra proteggere il segreto di Luc e mentire alle sue amiche. E ha scelto di mentire. Ha scelto di infrangere le regole. Ha scelto... deglutisco al pensiero. Ha scelto di proteggere Luc. Ma ha anche scelto di proteggere noi.

«Io però non capisco», fa all’improvviso Fatima. Ha i pugni serrati sulla fodera della poltrona. «Non capisco perché Ambrose non abbia reagito! Un’overdose per bocca richiede tempo, e anche se magari non ha capito subito ciò che stava succedendo, al momento di scrivere la lettera lo sapeva di sicuro. Avrebbe potuto chiamare l’ambulanza! Perché diavolo ha passato gli ultimi istanti della sua vita a dire a Kate di salvare Luc invece di salvare se stesso?»

«Magari non aveva scelta», dice Thea. Si aggiusta sulla sedia e tira i polsi del maglione per coprire le dita rovinate. «Al Mill non c’è linea fissa, vi ricordate? E non so neppure se a quell’epoca Ambrose avesse un cellulare. Kate sì, ma a lui non ne ho mai visto uno.»

«O forse...» m’interrompo. Guardo Freya che gioca sul tappeto.

«Cosa?» chiede Thea.

«Forse salvare se stesso non era la cosa che gli importava di più.» La frase rimane senza risposta. Fatima si limita a mordersi il labbro e Thea allontana lo sguardo, oltre la finestra in direzione del mare mosso. Mi chiedo se per caso stia pensando a suo padre, domandandosi se lui avrebbe fatto la stessa cosa per lei. Cosa che dubito.

Penso a Mary Wren, alle sue parole al passaggio a livello. Avrebbe camminato nel fuoco per quei ragazzi...

Poi ricordo un’altra frase e provo un tuffo al cuore.

«C’è un’altra cosa che vi devo dire», faccio. Thea mi guarda.

«Quando stamattina eravamo in taxi mi avete chiesto della pecora e in quel momento non potevo parlare, però...» m’interrompo tentando di dominare i pensieri, cercando di spiegare la convinzione che si è allungata come un’ombra nella mia mente da quando ho ricevuto quel passaggio verso la stazione. «Pensavamo fosse Luc perché sembrava collimare con ciò che sapevamo di lui, ma credo che avessimo torto. Lui ci avrebbe perso quanto noi, se la verità fosse venuta fuori. E anche di più. In ogni caso sono piuttosto certa che quella notte lui si trovava in cella a Rye.» Loro non chiedono spiegazioni e io non gliene offro. «E c’è un’altra cosa... una cosa che Kate mi ha raccontato quando eravamo sole.»

«Sputa fuori», fa Thea brusca.

«Qualcuno la ricattava», dico brutalmente. «La cosa è andata avanti per anni. Ecco la ragione della pecora e dei disegni. Era un modo per farci capire che avrebbero ricattato anche noi.»

«No!» dice Fatima. Il viso è pallido contro la sciarpa scura. «Perché non ci ha detto niente?»

«Non voleva che ci preoccupassimo», dico impotente. Tutto sembra così futile adesso. Come vorrei che ce l’avesse detto. «Ma non sembrava un comportamento da Luc... e per giunta è cominciato molti anni fa, quando lui era ancora in Francia.»

«E allora chi?» insiste Thea.

«Mary Wren.»

Segue un lungo silenzio. Restano mute a pensare, poi Fatima annuisce lentamente.

«Ha sempre odiato Kate.»

«Ma come l’hai capito?» chiede Thea. Muove le dita irrequiete nel pelo di Shadow e gli accarezza le orecchie, e il pelo grigio del cane le s’impiglia nella pelle morsicata e rovinata.

«È stato mentre andavo in stazione», dico. Premo le dita sulla fronte nel tentativo di ricordare le parole esatte. Ho mal di testa e gli strilli di Freya che fa a pezzi la sua rivista non mi aiutano. «Mary mi ha dato un passaggio e ha detto qualcosa... Sul momento non ci ho fatto caso, ero troppo scioccata per quello che aveva detto di Kate e Luc... ma ha detto qualcosa di Kate e della pecora, ha detto ha le mani sporche di sangue, e non soltanto di sangue di pecora. Come faceva a sapere della pecora?»

«Mark?» tira a indovinare Fatima, ma Thea scuote la testa.

«Kate non ha chiamato la polizia, ricordi? Anche se immagino che potrebbe averlo fatto l’allevatore.»

«Sì, potrebbe», dico. «Ma sono sicura che Kate lo ha pagato per tenere la bocca chiusa. Le duecento sterline erano per quello. Ma non è stato soltanto ciò che ha detto Mary... è stato come l’ha detto. Aveva un tono...» Mi sforzo di trovare le parole per spiegarmi. «Un tono... personale. Gongolante. Come se fosse contenta di vedere che per Kate era giunto il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine. Quel biglietto era velenoso, capite ciò che intendo? Puzzava d’odio, e mentre Mary parlava ho avuto la stessa sensazione. È lei che ha scritto il biglietto, ne sono certa. E penso che sia stata lei a mandarmi i disegni. È l’unica persona che poteva procurarsi i nostri indirizzi.»

«Quindi che si fa?» chiede Fatima.

Thea alza le spalle.

«Che si fa? E cosa possiamo fare? Niente. Non diciamo niente. Non possiamo certo dirlo a Mark, non ti pare?»

«E allora lasciamo che la passi liscia? Che ci minacci e la sfanghi così?»

«Continuiamo a mentire», dice Thea severa. «Soltanto che stavolta la raccontiamo come si deve. Inventiamo una storia, ci manteniamo fedeli alla nostra versione e la raccontiamo a tutti. Alla polizia, alle nostre famiglie... a tutti. Dobbiamo convincerli a credere che Ambrose si è suicidato, che dopotutto è quello che voleva lui. E quello che voleva anche Kate. Vorrei soltanto avere qualcosa per supportare la nostra storia.»

«Be’...» Metto la mano in tasca e tiro fuori la busta. Una busta vecchia e spiegazzata col nome di Kate, e ora anche macchiata di sale e scolorita dall’acqua.

Ma è ancora leggibile, anche se a malapena. L’inchiostro della biro si è stinto un po’ ma non è scomparso, e si leggono ancora le parole scritte da Ambrose per la figlia: Vivi, sii felice, non voltarti indietro. E soprattutto fa’ in modo che tutto questo non sia stato invano.

Solo che adesso sembrano scritte per ciascuna di noi.

Il gioco bugiardo
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