Mentre usciamo da Victoria il tempo cambia e quando ci siamo lasciati alle spalle la grande estensione di Londra e il treno corre in aperta campagna, inizia a piovere a dirotto e la temperatura scende di colpo, passando dal caldo afoso che precede un temporale a valori autunnali.

Sto seduta con Freya tra le braccia come una specie di borsa dell’acqua calda vivente, incapace di pensare a quello che ho fatto. Ho lasciato Owen?

Non è la prima lite, naturalmente. Abbiamo avuto le nostre discussioni e i nostri bisticci come qualunque altra coppia. Ma questa è in assoluto la più seria, e soprattutto la prima da quando è nata Freya. Quando l’ho partorita, nel nostro rapporto è cambiato qualcosa: la posta è diventata più alta e noi abbiamo messo radici consapevolmente, smettendo di preoccuparci per le piccolezze, quasi ci fossimo resi conto che non potevamo più permetterci di mettere a repentaglio le cose, se non per noi, quanto meno per lei.

E adesso... adesso la faccenda si è spinta troppo in là, e io non sono sicura di poter rimediare.

È l’ingiustizia delle sue accuse a bruciarmi in gola come acido. Una storia? Non sono praticamente più uscita di casa da sola da quando è nata Freya. Il mio corpo non mi appartiene più... ce l’ho incollata addosso come velcro a succhiarmi tutta l’energia e il desiderio sessuale insieme al latte. Sono così sfinita e provo una tale repulsione all’idea di essere toccata che solo richiamare la voglia di fare l’amore con Owen è al di sopra delle mie forze... e lui lo sa, sa quanto sono stanca, sa che percezione ho del mio corpo rilassato dopo la gravidanza e il parto. Pensa davvero che abbia preso Freya con me per lanciarmi in una storia passionale clandestina? È così ridicolo che mi metterei a ridere, non fosse che è scandalosamente ingiusto.

Eppure, per quanto furibonda, sono costretta ad ammettere che da un certo punto di vista... ha ragione. Non riguardo alla storia. Ma mentre il treno corre verso sud e la rabbia sbollisce, inizio a sentirmi in colpa. Perché l’essenziale di quello che sta dicendo è questo: non gli ho detto la verità. Non nel senso che intende lui... ma in altri, altrettanto importanti. Fin dal giorno in cui ci siamo conosciuti gli ho tenuto nascosti dei segreti, però adesso, per la prima volta nel nostro rapporto, sono andata oltre: sto mentendo spudoratamente. E lui lo sa. Sa che qualcosa non va, e che io lo nascondo. Solo che non sa di cosa si tratta.

Vorrei poterglielo dire. È un desiderio viscerale, imperioso come la fame. Eppure... eppure in parte sono contenta di non poterlo fare. Non è un mio segreto, perciò la decisione non spetta a me. Ma se lo fosse? Se fossi coinvolta solo io? Allora... non lo so.

Perché anche se non voglio raccontargli bugie, non voglio nemmeno che sappia la verità. Non voglio che mi guardi e veda la persona che ha fatto una cosa del genere... una persona che ha mentito e non una volta, ma ripetutamente. Una persona che ha occultato un cadavere, che si è resa complice di un delitto. Una persona che, forse, ha contribuito a nascondere un omicidio.

Se salterà fuori, mi amerà ancora?

Non ne sono sicura. E la cosa mi fa star male.

Se fosse soltanto l’amore di Owen a essere in gioco, correrei il rischio. O almeno, questo è quello che mi dico. Ma c’è anche la sua carriera. I moduli di dichiarazione che firmi quando entri a far parte della pubblica amministrazione sono lunghi e dettagliati. Ci sono domande sul gioco d’azzardo e la situazione economica, sull’uso di droghe e, sì... sui comportamenti criminali. Cercano i tuoi punti deboli, cose che potrebbero essere usate contro di te, per ricattarti e costringerti a rivelare informazioni riservate, o a commettere una frode.

Ti fanno domande sul partner. Sulla famiglia e gli amici... e più sali di livello gerarchico, più domande ti fanno, più delicate diventano le informazioni.

La questione centrale, in sostanza è: c’è qualcosa nella tua vita che potrebbe essere usato per esercitare pressioni su di te? Se è così, dichiaralo ora.

Abbiamo entrambi compilato questi moduli più volte: io ogni volta che ho cambiato dipartimento, Owen tutte le volte che il suo nullaosta di sicurezza all’Home Office gli ha dato accesso a informazioni più sensibili. E io ho mentito. Ripetutamente. Il fatto che abbia raccontato balle è di per se stesso motivo di licenziamento. Ma se dicessi la verità a Owen, lo renderei complice delle bugie. Metterei la sua testa sul ceppo insieme alla mia.

La situazione era già abbastanza brutta quando ci eravamo «limitate» a nascondere un cadavere. Ma se sono complice di un omicidio...

Chiudo gli occhi, tagliando fuori l’oscurità e la pioggia che batte contro i finestrini del vagone. E di colpo ho la sensazione di essere nella palude salmastra a camminare su un sentiero che non mi è familiare. Il terreno sotto i piedi non è solido... è cedevole e fradicio, e a ogni passo falso mi allontano sempre più dal tracciato e sprofondo nel fango salato. Ben presto non sarò più in grado di ritrovare la strada.

«Hai detto Salten, cara?» dice una voce anziana e io mi sveglio di soprassalto, con Freya che sobbalza tra le mie braccia e si lamenta infastidita.

«Cosa?» Ho della saliva all’angolo della bocca e me la pulisco con il bavaglino di Freya, poi batto le palpebre guardando la signora anziana seduta dall’altra parte del corridoio. «Cos’ha detto?»

«Stiamo arrivando a Salten, e ho sentito che diceva al controllore di dover scendere lì. Giusto?»

«Oddio, sì!»

È così buio che devo mettere le mani a coppa intorno al viso per sbirciare fuori dal finestrino chiazzato di pioggia, strizzando gli occhi per vedere il nome della stazione debolmente illuminato ed essere certa che sia la fermata giusta.

È Salten, e io mi alzo di scatto, afferrando le borse e l’impermeabile. Freya si agita assonnata tra le mie braccia mentre lotto per aprire lo sportello con una mano sola.

«Lascia che ti tenga la porta», dice la vecchia vedendomi impegnata a mettere Freya nel passeggino e ad abbottonare la copertura antipioggia.

Il capotreno sta fischiando perentorio quando il passeggino atterra sulla banchina con un tonfo e la pioggia mi sferza l’impermeabile. Freya ha gli occhi sbarrati per il terrore e fa uno strillo indignato mentre io mi affretto lungo la banchina, con l’impermeabile che svolazza, sperando di vedere Kate che mi aspetta.

Grazie al cielo è lì, insieme a Rick, il motore acceso e i finestrini del taxi appannati dal loro respiro. E questa volta mi sono ricordata il seggiolino per l’auto, così ci lego sopra Freya mentre Rick si avvia lungo la strada a solchi che porta al villaggio.

Conversare è impossibile, con Freya che strilla sempre più inconsolabile dopo essere stata svegliata da un sonno tranquillo per ritrovarsi sotto la pioggia gelida. E anche se le sue urla mi urtano i nervi, parte di me è contenta di non essere costretta a chiacchierare del più e del meno con Rick. L’unica cosa a cui riesco a pensare sono i disegni, la lettera di Ambrose, le rose, il sangue sulle mani.

Al Mill c’è dell’acqua sul pavimento, delle pozze sotto la soglia della porta. La pioggia è riuscita a entrare dalle finestre fuori squadra e si sta raccogliendo sulle tavole sconnesse e intorno ai telai delle finestre.

«Kate», provo a dire sopra il pianto di Freya e il rumore delle onde contro il pontile, ma lei scuote la testa e indica l’orologio, che segna quasi mezzanotte.

«Vai a letto», dice. «Parliamo domani mattina.»

Non posso far altro che annuire e portare la mia bambina scossa dai singhiozzi su per le scale, nella camera in cui ho dormito solo pochi giorni fa. Sul letto, il letto di Luc, ci sono ancora le lenzuola che ho usato. Sto sdraiata su un fianco, ascoltando il pianto frenetico e i singulti di Freya calmarsi lentamente... e finalmente mi addormento.

Il gioco bugiardo
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