Avrei dovuto capirlo. Ecco ciò che penso mentre siedo a fianco del lettino di Freya nel tentativo di farla addormentare, la gola piena di lacrime trattenute.

Avrei dovuto capirlo.

Perché era tutto davanti a me, chiarissimo. Le cicatrici sulla schiena di Luc che nuotava nel Reach, i segni sulla spalla che immaginavo fossero segni di vaccinazioni, ma quando gliene avevo chiesto ragione aveva risposto con una smorfia e un gesto di diniego.

Oggi sono più vecchia e meno innocente. Interpreto quelle piccole bruciature circolari per ciò che realmente erano, e sono disgustata dalla mia stessa cecità.

Questo spiegava un sacco di cose che non avevo mai capito: il silenzio di Luc, la sua venerazione quasi servile per Ambrose. La sua riluttanza a parlare della Francia nonostante le nostre insistenze, il modo in cui Kate gli teneva la mano e cambiava discorso al posto suo.

Spiegava persino un fatto che mi aveva sempre stupito: perché permetteva che i ragazzi del villaggio lo sfottessero, lo prendessero in giro e facessero i gradassi con lui, e perché li lasciava fare senza dir niente, mai niente... finché non era arrivato al punto di non reggere più. Ricordo una sera al pub, quando i ragazzi del villaggio avevano continuato a deriderlo, a ripetere che frequentava le ragazze «presuntuose» di Salten House. La posizione di Luc, a metà strada tra il mondo del collegio e quello della città, era sempre stata difficile. Kate stava senza dubbio dalla parte del collegio, e Ambrose sembrava vivere senza problemi fra i due mondi. Ma Luc aveva dovuto negoziare una difficile barriera di classe fra la scuola pubblica, che frequentava ad Hampton’s Lee insieme alla maggior parte dei ragazzi del villaggio, e i suoi legami di famiglia con la scuola privata in cima alla collina.

Eppure ci era riuscito. Aveva sopportato le prese in giro, le frasi tipo «ehi bello, le nostre donne non sono alla tua altezza?», le allusioni al fatto che alle ragazze di buona famiglia piacciono i «tipi un po’ grezzi». Quella sera al pub si era limitato a sorridere e a scuotere la testa. Poi, alla fine della serata, al momento della campana dell’ultimo giro di birra, uno dei ragazzi del villaggio era passato accanto a Luc, si era chinato e gli aveva mormorato qualcosa nell’orecchio.

Non so cosa gli avesse detto. Vidi soltanto il cambiamento d’espressione sul volto di Kate. Luc si alzò rovesciando la sedia e tirò un pugno tremendo sul naso del ragazzo, come se dentro di lui fosse scattato qualcosa. Quello cadde lungo e disteso, ansimando e gemendo. E Luc rimase là a guardarlo sanguinare e piangere, col viso inespressivo come se non fosse successo nulla.

Qualcuno del pub doveva aver avvisato Ambrose. Quando tornammo a casa lui ci aspettava seduto sulla sua sedia a dondolo, col viso normalmente allegro senz’ombra di sorriso. Al nostro ingresso si alzò.

«Papà», disse Kate anticipando l’intervento di Luc. «Non è stato Luc a...»

Ma Ambrose scosse la testa prima ancora che lei finisse.

«Kate, è una questione tra me e Luc. Luc, possiamo parlare nella tua stanza per favore?»

Chiusero la porta perché non sentissimo. Udimmo soltanto le voci che aumentavano e diminuivano di volume, quella di Ambrose piena di rimprovero e delusione, quella di Luc che cercava di giustificarsi e alla fine piena di rabbia. Al piano di sotto ci stringemmo in soggiorno davanti a un fuoco poco necessario per il tepore della serata, con Kate che però rabbrividiva sentendo le voci crescere d’intensità.

«Non capisci!» sentii provenire da sopra. Era la voce di Luc, spezzata da un’incredulità rabbiosa. Non riuscii ad afferrare la risposta di Ambrose ma soltanto il suo tono calmo e paziente, e poi il fragore di qualcosa scagliato da Luc contro la parete.

Ambrose tornò di sotto da solo, i capelli ritti come se fossero stati pettinati con un rastrello. Col volto stanco prese la bottiglia di vino senza etichetta che teneva sotto il lavandino e riempì un bicchiere fino all’orlo, scolandolo con un sospiro.

Poi si lasciò cadere sulla poltrona di fronte a Kate e lei si alzò, ma sapendo dov’era diretta lui scosse la testa.

«Meglio di no. È molto turbato.»

«Vado su lo stesso», disse Kate in tono di sfida. Si alzò di nuovo, ma quando gli passò a fianco Ambrose le afferrò il polso e lei lo fissò con aria insofferente. «Be’, e allora?»

Attesi col cuore in gola l’esplosione di Ambrose, come avrebbe fatto mio padre. Risento ancora la sua voce inveire contro Will per avergli risposto, gridargli Se avessi risposto in questo modo a mio padre mi avrebbe ammazzato di botte, stronzetto, e Quando ti do un ordine mi devi ascoltare, capito?

Ma Ambrose... lui non gridò. E non parlò neppure. Si limitò a trattenere Kate per il polso, ma in modo talmente delicato, con le dita che lo stringevano appena, che mi accorsi che non poteva certo impedire a Kate di muoversi.

Kate abbassò lo sguardo verso il volto del padre. Nessuno dei due si mosse, ma l’espressione di lei cambiò come se leggesse qualcosa che il resto di noi non era in grado di decifrare, poi sospirò e lasciò cadere la mano.

«Ok», disse. Capii che qualunque cosa avesse intenzione di comunicarle Ambrose, Kate l’aveva capita senza bisogno di sentirgliela dire.

Udimmo un altro schianto rompere il silenzio al piano di sopra e sussultammo.

«Sta facendo a pezzi la stanza», disse Kate sottovoce, ma anziché avvicinarsi alle scale tornò a sedersi sul divano. «Oh, papà, non riesco a sopportarlo.»

«Ma tu... non lo puoi fermare?» domandò Fatima incredula. Ambrose trasalì al rumore di vetri infranti proveniente dal piano di sopra e scosse la testa.

«Se potessi lo farei, ma c’è un tipo di dolore che passa soltanto quando ti sfoghi. Forse ha bisogno di questo. Spero soltanto...» Si passò una mano sul volto e all’improvviso dimostrò tutta la sua età. «Spero soltanto che non abbia distrutto tutta la sua roba. Dio santo, non ha molta roba sua. Fa più male a se stesso che a me. Ma cos’è successo nel pub?»

«Ha sopportato di tutto, papà», disse Kate. Aveva la faccia terrea per l’agitazione. «Davvero. Sai come sono quelli, è stato quel ragazzo, Ryan o Roland o come cavolo si chiama. Quel tipo alto coi capelli neri. Ce l’ha sempre avuta con lui. Ma Luc ha continuato a incassare senza fare una piega, si è limitato a riderci sopra. Poi però Ryan gli ha detto qualcos’altro, e Luc... ha perso il controllo.»

«Che cosa gli ha detto?» domandò Ambrose chinandosi in avanti sulla poltrona, e per la prima volta vidi calare il gelo tra Kate e suo padre. Lei restò immobile, in una sorta di diffidente riserbo dietro la maschera impassibile del volto.

«Non lo so», si limitò a dire con voce piatta e innaturale. «Non ho sentito.»

Ambrose non punì Luc, e Fatima, ripensandoci mentre tornavamo a casa, scosse la testa, perché sapevamo tutte che in realtà Ambrose non avrebbe mai tollerato un comportamento simile da parte di sua figlia. Ci sarebbero state recriminazioni, rimproveri e risarcimenti detratti dalla paghetta.

Con Luc, invece, Ambrose sembrava disporre di un’inesauribile fonte di pazienza. Ora capisco perché.

Freya si è finalmente addormentata col respiro irregolare leggero come una piuma, così mi alzo e mi stiro perdendomi nei ricordi mentre contemplo l’estuario in direzione di Salten, memore del Luc che conoscevo prima che ce ne andassimo, tentando di capire perché sono rimasta così scossa dalla sua rabbia all’ufficio postale.

Dopotutto sapevo che quella rabbia ce l’aveva sempre avuta. L’avevo vista diretta contro gli altri, a volte persino contro se stesso. Poi di colpo comprendo. Non è la sua rabbia che mi ha spaventata. È la sua rabbia nei nostri confronti.

Perché una volta, per quanto fosse arrabbiato, con noi si comportava come se fossimo di porcellana, troppo preziose persino da toccare. E Dio solo sa quanto lo desiderassi... fino a che punto desiderassi essere toccata da lui. Ricordo una volta che eravamo stesi fianco a fianco sul pontile, il sole caldo sulla schiena, mi ero girata verso di lui con gli occhi chiusi in preda a un’eccitazione così violenta che pensavo potesse distruggermi, desiderando che aprisse gli occhi e allungasse la mano verso di me.

Ma non lo fece. E così, col cuore che batteva in gola talmente forte da convincermi che lo sentisse anche lui, mi avvicinai e posai le labbra sulle sue.

Qualunque cosa mi fossi aspettata, andò diversamente.

Luc spalancò gli occhi e mi spinse via gridando «Ne me touche pas!» rialzandosi con tale violenza da cadere quasi in acqua, il petto ansante e gli occhi spiritati come se gli avessi teso un’imboscata nel sonno.

Sentii il viso diventare viola come se il sole mi bruciasse viva e mi alzai facendo un involontario passo indietro, allontanandomi dalla sua furibonda incomprensione.

«Mi spiace», riuscii a dire. «Luc?»

Non disse nulla limitandosi a guardarsi intorno, come se cercasse di capire dove si trovava e che cos’era successo. In quell’attimo fu come se non mi riconoscesse, e mi guardò come se fossi un’estranea. Poi la consapevolezza tornò nel suo sguardo, e con essa una specie di vergogna. Fece dietrofront e scappò via, ignorando completamente le mie grida: «Luc! Luc, mi dispiace!»

In quel momento non capii. Non capii che cosa avevo fatto di male, o come mai avesse reagito con tanta violenza a quello che, dopotutto, era poco più che il bacio fraterno che ci eravamo scambiati cento volte.

Ora invece... ora credo di capire il genere d’esperienza che stava dietro alla sua reazione terrorizzata, e mi sento spezzare il cuore per lui. Ma avverto anche diffidenza, perché quell’attimo mi ha dato un saggio di ciò che ho appena sperimentato di nuovo all’ufficio postale.

So che cosa vuol dire essere nemico di Luc. L’ho visto scagliarsi contro la gente.

E non posso fare a meno di pensare alla pecora morta, alla furia e al dolore dietro a quel gesto, alle viscere che fuoriuscivano come segreti incancreniti nell’acqua azzurra.

E ho paura.

Il gioco bugiardo
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