È strano tornare a Victoria. Il treno per Salten è nuovo, con carrozze aperte e porte automatiche, non di quelli vecchi con gli scompartimenti e le porte manuali che prendevamo per andare a scuola. Il binario, però, non è quasi cambiato, e mi rendo conto di aver trascorso diciassette anni a evitare inconsapevolmente questo posto... a evitare qualunque cosa legata a quell’epoca.

Reggendo in equilibrio precario una tazza di caffè da asporto, trascino sul treno il passeggino di Freya, appoggio il caffè su un tavolino libero, e mi ritrovo impigliata nella stessa faticosa routine che mi tocca ogni volta che cerco di sganciare la navetta... lottando contro fibbie che non vogliono saperne di sfilarsi e ganci che non si aprono. Grazie a Dio il treno è silenzioso e la carrozza semivuota, così mi risparmio l’imbarazzo della gente ferma davanti o dietro di me, o che cerca di passare in uno spazio ristretto. Alla fine – proprio quando risuona il fischio del capostazione e il treno inizia a uscire da Victoria oscillando e gemendo – riesco a sganciare l’ultimo fermo e mi ritrovo in mano la navetta di Freya, ancora addormentata. La sistemo con cautela sul sedile dalla parte opposta rispetto al tavolino su cui ho lasciato il caffè.

Prendo in mano la tazza quando mi metto a sistemare le borse. Ho la testa piena di immagini spaventose: il treno che sobbalza e il caffè bollente che si rovescia addosso a Freya. Lo so che è irrazionale: l’ho sistemata dall’altra parte del corridoio. Ma è questa la persona che sono diventata da quando è nata lei. Tutte le mie paure – quelle che mi attraversavano la mente quando si tratta di convogli che si dividono, porte degli ascensori, tassisti strani e parlare con gli estranei – tutte quelle ansie si sono concentrate su Freya.

Alla fine riusciamo a sistemarci, io con il caffè e un libro, Freya addormentata con la copertina tirata fin sul mento. Sotto il sole luminoso di giugno ha un viso angelico – la pelle sottilissima e trasparente – e io mi sento invadere da un amore intenso, doloroso e sconvolgente come se mi fossi versata del caffè bollente sul cuore. Sto seduta lì e per un attimo non sono altro che sua madre, e non esiste nessuno al mondo tranne noi due in quella bolla di luce e amore.

E poi mi accorgo che il telefono vibra.

Fatima Chaudry, dice lo schermo. E il mio cuore manca un battito.

Apro il messaggio con dita tremanti.

ARRIVO, dice. MI METTO IN MACCHINA STASERA QUANDO I BAMBINI SONO A LETTO. SARÒ LÌ VERSO LE 9/10.

E così è iniziata. Ancora niente da Thea, ma so che si farà viva. L’incantesimo è rotto... l’illusione che fossimo solo io e Freya, in viaggio per una vacanza al mare, noi due soltanto. Mi ricordo perché sono qui. Mi ricordo che cosa abbiamo fatto.

SONO SUL 12.05 DA VICTORIA, rispondo alle altre. VIENI A PRENDERMI A SALTEN, KATE?

Nessuna risposta, ma Kate non mi abbandonerà.

Chiudo gli occhi. Metto una mano sul petto di Freya, così so che è lì. E cerco di dormire.

Mi sveglio di soprassalto con il cuore in gola sentendo degli scossoni e degli schianti metallici, e il mio primo impulso è allungare una mano verso Freya. Per un pezzo non capisco cosa mi abbia svegliata, ma poi mi rendo conto che il convoglio si sta dividendo: siamo a Hampton’s Lee. Freya si agita nella navetta: se sono fortunata potrebbe riaddormentarsi, ma a quel punto arriva un altro scossone, più violento dei precedenti, e lei spalanca gli occhi con espressione risentita, poi fa una smorfia e attacca a piangere, infastidita e affamata.

«Shh», mormoro prendendola in braccio, calda e scalpitante nel bozzolo di copertine e giocattoli. «Shh... va tutto bene, piccola, va tutto bene, cucciola. Non preoccuparti.»

Ha lo sguardo cupo e rabbioso e sbatte la testolina contro il mio petto mentre io mi sbottono la camicetta e sento arrivare la montata lattea, una sensazione ormai nota, eppure sempre aliena.

Mentre lei è intenta a poppare, si sentono altri cigolii e poi un fischio: il treno esce lentamente dalla stazione e la banchina lascia il posto ai binari, poi alle case e finalmente ai campi e ai pali del telefono.

È familiare in un modo che toglie il fiato. Londra, in tutti gli anni in cui ci ho vissuto, è cambiata di continuo. È come Freya, mai la stessa da un giorno all’altro. Apre un negozio, chiude un pub. Spuntano edifici – il 30 St Mary Axe, lo Shard London Bridge – un supermercato sorge su una zona incolta e i condomini sembrano moltiplicarsi come funghi, sbucando dal terreno umido e dal cemento rotto nel giro di una notte.

Ma questa linea, questa tratta... non è cambiata affatto.

Ecco l’olmo bruciato.

Ecco il bunker in rovina della Seconda guerra mondiale.

Ecco il ponte traballante, le ruote del treno sembrano cave sospese sul vuoto.

Chiudo gli occhi e sono di nuovo nello scompartimento con Kate e Thea, a ridere mentre loro si infilano la gonna dell’uniforme scolastica sopra i jeans, la camicetta e la cravatta sopra la canottiera estiva. Thea portava delle calze di seta, ricordo che se le infilava sulle gambe impossibilmente lunghe e snelle e poi metteva le mani sotto la gonna per agganciarsi il reggicalze. Ricordo di essere avvampata alla vista delle sue cosce, e di aver distolto lo sguardo puntandolo sui campi di grano autunnale, con il cuore che martellava mentre lei rideva del mio imbarazzo.

«Faresti meglio a sbrigarti», le disse pigramente Kate. Lei si era vestita e aveva messo via i jeans e gli stivali nella valigia sul ripiano portabagagli. «Tra poco arriviamo a Westridge, ci sono sempre un mucchio di bagnanti lì, mica vorrai far venire un infarto a qualche turista.»

Thea si limitò a farle la linguaccia, ma aveva finito di agganciarsi il reggicalze e si era lisciata la gonna proprio mentre ci fermavamo alla stazione di Westridge.

Proprio come aveva previsto Kate, sul binario c’era una manciata di turisti e Thea si era lasciata sfuggire un gemito. La porta del nostro scompartimento era all’altezza di una famigliola in gita al mare, madre, padre e un bambino di circa sei anni con secchiello e paletta in una mano e un gelato al cioccolato semisciolto nell’altra.

«C’è posto per tre persone?» chiese il padre con fare gioviale mentre apriva la porta e loro salivano, sbattendosi lo sportello alle spalle. Di colpo il piccolo vano parve affollatissimo.

«Mi dispiace tanto», disse Thea, e sembrava davvero dispiaciuta. «Ci piacerebbe avervi qui, ma la mia amica», mi indicò, «è in semilibertà e una delle condizioni della libertà vigilata è che non abbia alcun contatto con dei minori. La sentenza del tribunale è stata molto precisa su questo punto.»

L’uomo batté le palpebre e la moglie si lasciò sfuggire una risatina nervosa. Il ragazzino non stava ascoltando, intento com’era a togliersi dalla maglietta dei pezzetti di cioccolato.

«È al bambino che penso», disse Thea seria. «Oltre al fatto, naturalmente, che Ariadne proprio non vuole tornarci, al riformatorio.»

«C’è uno scompartimento vuoto proprio qui accanto», intervenne Kate, e io mi accorsi che stava cercando di rimanere seria. Si alzò e aprì la porta scorrevole che dava sul corridoio. «Mi dispiace tanto. Non vogliamo crearvi fastidi, ma penso che sia meglio, per la sicurezza di tutti.»

L’uomo ci scoccò un’occhiata diffidente, poi fece uscire nel corridoio la moglie e il bambino.

Thea scoppiò a ridere non appena la porta dello scompartimento si richiuse alle spalle della famigliola, ma Kate scuoteva la testa.

«Non capisco il senso», commentò. Stava facendo una smorfia per non mettersi a ridere. «Non ti hanno creduta.»

«Oh, ma dai!» Thea sfilò una sigaretta dal pacchetto che teneva nella tasca della giacca e l’accese, aspirando una profonda boccata in spregio del cartello VIETATO FUMARE attaccato al finestrino. «Se ne sono andati, no?»

«Sì, ma solo perché hanno pensato che fossi fuori di testa. Questo non conta!»

«È... un gioco?» chiesi, incerta.

Scese un lungo silenzio.

Thea e Kate si guardarono, e io le vidi di nuovo comunicare senza parole, una specie di corrente elettrica che fluiva dall’una all’altra, come se stessero decidendo cosa rispondere. Poi Kate sorrise, un sorrisetto quasi furtivo, e si piegò in avanti verso di me, avvicinandosi così tanto che riuscivo a vedere le sfumature scure dei suoi occhi grigio-azzurri.

«Non è un gioco», disse. «È il gioco. Il gioco delle bugie.»

Il gioco delle bugie.

Mi torna in mente chiaro e vivido come il profumo del mare e le strida dei gabbiani sul Reach, e non riesco a credere di averlo quasi dimenticato... dimenticato la tabella segnapunti che Kate teneva appesa sopra il letto, ricoperta dei segni criptici del suo complicato sistema di calcolo del punteggio. Tot per una nuova vittima. Tot per essere credute ciecamente. Punti extra per i particolari più elaborati o per essere riuscite a intortare qualcuno che aveva quasi scoperto il bluff. Non ci pensavo da anni, ma in un certo senso non ho mai smesso di giocare.

Sospiro e guardo il viso sereno di Freya che succhia, il modo in cui è completamente assorbita da ciò che sta facendo, immersa nell’attimo. E non so se posso farlo. Non so se posso tornare indietro.

Che cos’è successo per indurre Kate a convocarci così all’improvviso e con tanta urgenza nel cuore della notte?

Riesco a pensare a una cosa sola... e non sopporto di doverci credere.

Il treno sta entrando a Salten quando il mio telefono suona per l’ultima volta. Lo tiro fuori, pensando che sia Kate che conferma di venirmi a prendere. E invece no. È Thea.

ARRIVO.

Il gioco bugiardo
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