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Anche Kenneth Meer arrivò in anticipo. Quando risposi alla sua suonata, un po' prima delle tre, vidi la sua macchina, una Jaguar verde scuro, vicino al marciapiede. Meer aveva sotto il braccio una grossa borsa di pelle marrone. Probabilmente se l'era portata dietro per non fare la fatica di chiudere a chiave la macchina, e quando gli domandai se voleva lasciarla sulla panchetta dell'atrio, rispose di no e la portò nello studio. Come ho già detto, la sua faccia era invecchiata innanzi–tempo, e adesso, quando si sedette nella poltroncina rossa e fissò Wolfe, battendo le palpebre, il suo lungo naso appuntito sul mento quadrato sembrava un punto esclamativo, con in fondo, invece del puntino, una riga orizzontale.

Tenne la borsa sulle ginocchia. «Sono seccato» disse, con voce petulante quanto la sua espressione. «Perché non sono potuto venire ieri... ieri sera? Perché oggi?»

Wolfe annuì. «Vi devo delle scuse, signor Meer. Speravo di avere, per quest'ora, un'informazione definitiva su un punto che desideravo discutere con voi, ma non ce l'ho. Ma giacché siete qui, tanto vale prendere in considerazione un altro punto. Le vostre mani insanguinate. Una settimana dopo l'esplosione di quella bomba eravate sconvolto, tanto da rivolgervi a una clinica, e poi a me. In seguito, quando ho cominciato a occuparmi professionalmente del caso, naturalmente la causa del vostro stato d'animo ha cominciato a riguardarmi da vicino. Esistevano diverse possibilità: avevate messo voi la bomba nel cassetto e il peso della colpa era troppo grande, per voi. Oppure l'essenza stessa dell'avvenimento vi aveva colpito profondamente, e la vista del vero sangue che vi eravate trovato sulle mani vi aveva sconvolto. Tutte ipotesi valide, ma il signor Goodwin e io non le abbiamo discusse. Perdiamo raramente il tempo a discutere le ipotesi.»

«Mi piace, quel "passa la colpa a chi di dovere"» disse Meer. «Mi piace proprio.»

«Anche a me. E penso che piaccia anche al signor Goodwin. Una volta, il signor Goodwin ha detto che uso le parole come un giocoliere. Ma il guaio è che dopo tre settimane le ipotesi sono ancora ipotesi, e forse potrebbe essere utile discuterle con voi. Qualche commento?»

«No.»

«Nessuno?»

«No.»

«Siete ancora sconvolto? Vi alzate ancora nel cuore della notte per lavarvi le mani?»

«No.»

«Allora dev'essere stato fatto qualcosa, o detto qualcosa, che abbia rimosso la pressione, o quanto meno che l'abbia allentata. Che cosa? Lo sapete?»

«No.»

Wolfe scosse la testa. «Questo non posso accettarlo. Stamattina sono stato brusco, con la signorina Lugos, e le ho detto che pensavo che mentisse. Ora penso che mentiate voi. Ma c'è un altro punto che vi riguarda e al quale non ho ancora accennato. Ebbene, lo farò adesso. Perché avete detto a un uomo che chiunque volesse sapere com'era andata doveva rivolgersi a Helen Lugos?»

Meer non si accigliò, né spalancò gli occhi, né batté le palpebre. Si limitò a rispondere: «Non l'ho mai detto».

Wolfe girò la testa. «Archie?»

«Sì che l'avete detto» intervenni, rivolto a Meer. «A Pete Damiano. Non so specificare in che giorno, ma subito dopo l'omicidio. Circa un mese fa.»

«Oh, Damiano!» Sorrise, o, almeno, pensò di essere riuscito a sorridere. «Pete sarebbe capace di dire di tutto.»

«Sciocchezze» esclamò Wolfe. «Sapevate che era probabile, o quanto meno possibile, che quel vostro commento fosse ricordato e che qualcuno ve ne chiedesse ragione, e di conseguenza avreste dovuto avere una risposta pronta. Negare e basta non sarebbe bastato. È chiaro che siete implicato in questa storia per qualcosa che avete fatto o detto, e dovreste essere pronto ad affrontare certe conseguenze. Ora, vi rivolgerò la stessa domanda che ho rivolto alla signorina Lugos, e negli stessi termini: nel primo pomeriggio di lunedì, diciannove maggio, subito dopo colazione, eravate nell'ufficio della signorina Lugos, solo con lei, tête–à–tête. Di che cos'avete parlato? Che cos'avete detto?»

Questa volta Meer si accigliò. «Le avete domandato questo? E lei che cos'ha risposto?»

«Voi, che cosa rispondete?»

«Niente. Non ricordo.»

«Pfui. Vi ho rivolto sette domande e ho ottenuto solo dei no e dei niente. Poco fa vi ho chiesto scusa. Ora chiedo scusa a me stesso. Un'altra volta, signor Meer. Il signor Goodwin vi accompagnerà alla porta.»

Mi alzai, ma poi restai fermo, perché Meer parve voler dire qualcosa. Aprì le labbra due volte, poi le richiuse. Mi guardò, vide solo una bella faccia impassibile, si alzò, si cacciò la borsa sotto il braccio e si mosse. Lo seguii, ma una volta nell'atrio, e, prima di richiuderla, aspettai che fosse uscito e avesse raggiunto la Jaguar. Tornato nello studio, domandai: «Dobbiamo discutere qualche ipotesi?».

Wolfe grugnì. «Tanto sarebbe valso che foste uscito prima di colazione. Devo chiedervi scusa?»

«No, grazie. Il numero di telefono è sulla vostra agenda, come al solito.» Andai nell'atrio, raccolsi la mia borsa, uscii, raggiunsi il garage per prendere la Heron e poi mi avviai verso l'autostrada del West Side, diretto verso la radura di Lily Rowan, a Westchester. Sì, è così che la chiama: La Radura.

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