Questo accadeva martedì, tre giugno. Il giorno dopo, sorse un piccolo problema. Quando non abbiamo in ballo o in vista un incarico, dopo colazione, in genere, vado a fare una passeggiata, con o senza una scusa, come ad esempio una visitina alla banca. Ma quel giorno non lo feci. Non so se vi ho mai detto che i tre dipendenti della Midtown Home Service Corporation che vengono una volta alla settimana a fare le pulizie da noi sono sempre di sesso maschile, perché Wolfe su questo punto è irremovibile. Quel mercoledì alle nove, vennero come al solito Andy e Sam, ma si portarono dietro una donna, una donna robusta, nera come il carbone, con le spalle larghe quasi quanto le mie. Andy, che è bianco ma ha la mentalità aperta, spiegò che era sempre più difficile trovare degli uomini e ripeté uno dei suoi commenti preferiti: «Maledizione, ormai gli uomini vogliono fare solo i tecnici della televisione o i moquettisti». Chiamò la donna Lucile e le disse di cominciare con la sala da pranzo, che si trova dall'altra parte dell'atrio di fronte allo studio, al pianterreno della vecchia casa di arenaria. Naturalmente Wolfe, che era nella serra per la sua sessione mattutina con le orchidee, non l'aveva vista. Io tornai in cucina, mi sedetti al tavolo per bere la seconda tazza di caffè e dissi a Fritz: «Gli diremo che è un uomo travestito da donna perché ricercato dalla polizia».
«Volete un'altra frittella, Archie?»
«No, grazie. Sono ottime, come al solito: ma ne ho già mangiate cinque. Diremo che è ricercato come spacciatore di "erba". O magari di "acido".»
«Ma, e il davanti? Le "pere"?»
«Parte del travestimento. Reggiseno misura extra. È caffè brasiliano, questo?»
«No, colombiano. Naturalmente parlate tanto per dire. Se il signor Wolfe la vede...» Alzò le mani e roteò gli occhi, verso il soffitto.
«Probabilmente la vedrà. Viene spesso in cucina, quando voi servite la colazione a quelli delle pulizie.» Sorseggiai il caffè caldissimo. «Gliene parlerò io, non appena sarà sceso. Voi, intanto, mettetevi i tappi nelle orecchie. Potrebbe cacciare un urlo belluino.»
E così, non uscii a fare la solita passeggiata. Poteva succedere qualunque cosa. Lucile, magari, avendo sentito parlare delle orchidee, saliva nella serra per dare un'occhiata. Ero alla mia scrivania nello studio, quando, alle undici, sentii il ronzio dell'ascensore. E quando Wolfe entrò, mi salutò e andò alla sua scrivania per mettere in un vaso un mazzo di Acampe Pachyglossa, dissi: «È stato apportato un emendamento alle leggi della casa. Andy e Sam sono venuti con una donna, una negra di nome Lucile. Adesso la donna è nella vostra stanza con Andy. Secondo Andy, un numero sempre maggiore di uomini pensa che i lavori casalinghi non siano virili, il che è idiota, dato che Fritz, Theodore e io lavoriamo nella vostra casa e siamo virili quanto chiunque altro. Ha tutta l'aria di uno di quei casi di circostanze che sfuggono al nostro controllo, ma se non siete d'accordo, non gridate lo stesso.»
Si sedette, assestò il suo quintale e mezzo (suona meglio in quintali che in chili) sulla poltrona fatta su misura per lui e prese il plico di lettere consegnate in mattinata dal postino. Poi mi guardò. «Esistono Pantere Nere donne?»
«Controllerò. Ma se esistono, Lucile non è certo una di loro. Al massimo, potrebbe appartenere alle giumente nere, di razza Clydesdale o Percheron. È capace di sollevare l'aspirapolvere con un solo dito.»
«È in casa mia perché ce l'hanno portata. Dovrò parlarle, o almeno farle un cenno di saluto e dirle una parola.»
Ma non lo fece. Non andò in cucina mentre Andy, Sam e Lucile facevano colazione, e Andy, che conosceva le abitudini di Wolfe, fece in modo che le loro strade non s'incontrassero. In genere, quelli delle pulizie se ne vanno alle quattro, ma questa è anche l'ora in cui Wolfe ha il suo incontro pomeridiano con le orchidee, e Andy aspettò che Wolfe fosse nell'ascensore, prima di infilare la porta. Quando furono usciti, mi rilassai. Dato l'atteggiamento di Wolfe nei confronti delle donne, non si sa mai che cosa può succedere quando ce n'è una in casa. Stavo trascrivendo gli appunti di Theodore sulle schede della germinazione e della crescita delle orchidee, quando telefonò il dottor Voltar per dire che Ronald Seaver sarebbe venuto alle nove. L'unica preparazione necessaria richiese solo sei minuti: andare allo stipo per prendere un vaso di cristallo e acciaio con una dozzina di matite che spuntavano dall'alto e metterlo in un certo punto e a un certo angolo, vicino al lato destro della mia scrivania, e innestare una certa spina in una certa presa nascosta.
Seaver arrivò in ritardo di quasi mezz'ora. Erano le nove e ventitré e avevamo appena finito di bere il caffè nello studio, dopo cena, quando suonò il campanello e io andai ad aprire. Quello che vidi attraverso lo spioncino della porta era uno spettacolo comune, per chi vive a Manhattan: un uomo tipo giovane dirigente, di media altezza, con una faccia insignificante, invecchiata troppo in fretta, e con un abito grigio scuro fatto su misura. Niente cappello. Aprii la porta e invitai l'uomo a entrare, e mentre lui entrava, aggiunsi: «Se me l'aveste detto al telefono che eravate Ronald Seaver, vi avrei chiesto di venire a discutere la formazione della squadra».
Sorrise – quel genere di sorriso che fa in fretta ad apparire quanto a scomparire – e mormorò: «Siete più simpatico di persona che al telefono».
Mi dissi d'accordo e lo guidai attraverso l'atrio. Nello studio, lui si fermò dopo tre passi dalla soglia, con un piede a mezz'aria. Pensai che la vista di Nero Wolfe gli avesse fatto cambiare idea e che fosse sul punto di girare sui tacchi. Così, gli indicai la poltroncina rossa, spingendolo leggermente. Lui si avvicinò alla scrivania di Wolfe, borbottò qualcosa e tese la mano. Wolfe disse: «No, è sporca di sangue. Sedetevi».
L'uomo si sistemò sulla poltroncina rossa, alzò lo sguardo su Wolfe e sospirò: «Se poteste vederlo davvero! Se poteste vederlo davvero!».
Mentre raggiungevo la sedia dietro la mia scrivania, guardai il vaso pieno di matite: era al posto giusto.
Wolfe annuì. «Già, ma non lo vedo. Se il dottor Vollmer non ha sbagliato a descrivere la situazione, devo dedurre che siete o ottuso o pazzo. A mente lucida, ammesso che siate capace di pensare a mente lucida, non potete aspettarvi che alla clinica vi aiutino, se prima non fornite qualche fatto. Avete intenzione di dirmi il vostro nome?»
«No.» Questa volta non aveva mormorato.
«Potete dirmi qualcosa? Dove vivete, dove lavorate, dove avete visto il sangue che anche altra gente ha visto o potrebbe aver visto?»
«No.» Strinse le mascelle. «Ho spiegato al dottor Ostrow che non posso. Sapevo che in quella clinica avevano curato dei casi difficilissimi. Ero stato... ne avevo sentito parlare. E ho pensato che fosse possibile... che valesse la pena tentare.»
Wolfe si rivolse a me. «Quanto è costato il suo vestito?»
«Duecento dollari, forse di più. Probabilmente di più. Le scarpe, almeno quaranta.»
«Quanto sarebbe disposto a pagare, un giornale, per un articolo su quella clinica?»
«Santo cielo» annaspò Ronald Seaver. «Non è questo...» Si morse le labbra e chiuse la bocca.
«È semplicemente una delle congetture plausibili.» Wolfe scosse la testa. «Non mi piace essere preso per i fondelli, e non credo che piaccia al dottor Ostrow. Il modo più semplice per scoprire se siete un impostore è appurare chi e che cosa siete. Il signor Goodwin potrebbe seguirvi quando uscite, ma sarebbe uno spreco di tempo e di fatica. Non è necessario... Archie?»
Presi il vaso e dissi a Ronald Seaver: «Dentro c'è una macchina fotografica». Estrassi un paio di matite e gliele mostrai: erano semplicemente due mozziconi di matita, lunghi sì e no quattro centimetri. «Così, sotto c'è posto per la macchina fotografica. Ormai vi ha scattato otto fotografie. Domani le mostrerò a certi miei amici... un giornalista, un paio di poliziotti...»
Quando siete seduto e un uomo vi si butta contro, la vostra reazione deve dipendere dalle intenzioni dell'uomo. Se ha intenzione di colpirvi, con o senza un'arma, alzatevi alla svelta. Ma se ha semplicemente intenzione di togliervi qualcosa, come ad esempio un vaso pieno di matite, e voi siete sicuro di essere più veloce e più forte di lui, l'unica cosa che dovete fare è tirare indietro i piedi, per evitare che nella foga ve li pesti. Ma Seaver non arrivò tanto vicino. Si fermò a metà strada e si voltò verso Wolfe. «Non potete farlo. Il dottor Ostrow non lo permetterebbe.»
Wolfe annuì. «Naturale. Solo che questo studio non rientra nella giurisdizione del dottor Ostrow. Avete deciso di occupare una serata del mio tempo, e voglio sapere perché. Avete un disperato bisogno d'aiuto, o progettate uno scherzo idiota? Lo scoprirò presto, probabilmente domani... dipende da quanto tempo ci metterà il signor Goodwin a identificarvi attraverso le fotografie. Spero che faccia presto. Sto semplicemente facendo un favore a un amico. Buonasera, signore. Mi terrò in contatto con il dottor Ostrow, non con voi.»
Fino a quel momento ero stato in dubbio: l'amico era veramente in qualche guaio, oppure intendeva portare a fondo un colpo complicato? Il naso lungo e appuntito, che stonava con il mento quadrato, si era arricciato un paio di volte, ma questo non provava niente. Ora, però, la situazione parve chiarirsi. Gli occhi socchiusi, fissi su di me, e la ruga profonda che gli attraversava la fronte, dimostravano che qualcosa gli doleva veramente dentro.
«Non ci credo» disse, con voce più alta del necessario, dato che era a solo un paio di metri di distanza.
Senza distogliere gli occhi da lui, presi il vaso, che avevo rimesso sulla scrivania, mi alzai, rimossi il coperchio nel quale erano infissi i mozziconi di matita, girai il vaso per far vedere a Seaver che cosa c'era dentro, e dissi: «Macchina fotografica con autoscatto, fabbricata in Giappone. Controllo elettronico. Accetto scommesse uno a dieci che vi avrò identificato prima di domani sera».
Aprì la bocca per parlare, ma non emise nessun suono. Si voltò a guardare Wolfe, poi di nuovo me, e alla fine si voltò, fece un passo, e ancora un altro, e io pensai che stesse per andarsene. Ma lui si girò di scatto verso destra, dalla parte del grosso mappamondo che era vicino alle mensole con i libri, si fermò a metà strada e lì rimase. A quanto pareva, non voleva che lo vedessimo in faccia mentre prendeva la sua decisione. Ci mise due minuti buoni, forse tre. Poi si voltò, tirò fuori dal taschino un portafogli di pelle, ne estrasse degli oggetti, ne scelse uno... un tesserino... si avvicinò alla scrivania di Wolfe e consegnò il tesserino. Wolfe gli dette un'occhiata, poi lo passò a me. Si trattava di una patente di guida di New York: Kenneth Meer, altezza uno e settantacinque, età trentadue anni, residenza Clover Street 147, New York 10012.
«Così, vi risparmio la fatica di fare delle domande» disse, e tese una mano. Gli restituii la patente, che lui rimise nel portafoglio; poi si cacciò il portafogli nel taschino, si voltò e se ne andò. Non lentamente, ma a passo di marcia. Lo seguii nell'atrio, e quando lui ebbe aperto, fu uscito e si fu richiuso delicatamente la porta alle spalle, senza sbatterla, tornai alla mia scrivania, mi voltai verso Wolf e dissi:
«Ieri avete detto al dottor Vollmer che leggete per tenervi al corrente di quello che combinano i vostri simili. Be'?»
Si accigliò. «Vi ho detto mille volte che "dottore" è un idiotismo volgare quanto odioso.»
«E io continuo a dimenticarlo.»
«Pfui. Voi non dimenticate mai niente. È stato deliberato. In quanto a Kenneth Meer, sul "Times" la sua fotografia non è mai apparsa. E sulla "Gazette"?»
«Il suo nome è apparso spesso, ma la fotografia no. E neanche un cenno al sangue sulle mani. Dato che stiamo facendo un favore a un amico, andrò a parlare con un paio di persone, nel tentativo di scoprire...»
«No. Chiamate il dottor Vollmer.»
«Ma non dovrei...»
«No.»
Mi girai e tirai verso di me il telefono. Dei tre numeri di Vollmer, il più probabile, a quell'ora, era il terzo, quello che non compariva sulla guida telefonica e che corrispondeva a un apparecchio al secondo piano della casa di Vollmer. Infatti, Vollmer rispose personalmente. Wolfe sollevò la cornetta del suo telefono, e io rimasi ad ascoltare al mio.
«Buonasera, dottore. L'uomo è venuto, anche se con mezz'ora di ritardo, e se n'è appena andato. Si è rifiutato di darci qualunque informazione, neanche il suo nome, e noi abbiamo dovuto costringerlo a parlare ricorrendo allo stratagemma di una macchina fotografica nascosta. A seguito di questa forma di coercizione, ci ha mostrato un permesso di guida per motoveicoli, e poi se n'è andato senza una sola parola. Il suo nome è apparso recentemente sui giornali, collegato a un caso d'omicidio, ma l'uomo era semplicemente uno dei presenti sulla scena. Sulla stampa, neanche il minimo accenno che potesse essere sospettato. Volete sapere come si chiama, per il dottor Ostrow?»
«Be'...» Silenzio per almeno dieci secondi. «Avete avuto il suo nome ricorrendo... mh... a una forma di coercizione?»
«Sì. Come ho detto.»
«Allora non credo...» Un altro silenzio, più breve. «Non credo che Irwin lo vorrebbe. Irwin non usa mai la coercizione. Posso domandarglielo, e poi farvelo sapere?»
«Certo.»
«Intendete... Vi interessa, l'omicidio? Professionalmente?»
«Solo come spettatore. Non mi sento implicato, né intendo esserlo.»
Vollmer lo ringraziò per il favore, senza troppo entusiasmo e riattaccarono. Wolfe guardò l'orologio appeso alla parete: le dieci e cinque. Poi prese il libro che leggeva in quei giorni: Grant assume il comando di Biuce Catton. Io andai nell'atrio, salii le due rampe di scale, entrai in camera e accesi il televisore. Ero giunto in tempo per vedere l'ultimo tempo della partita che si svolgeva allo Shea Stadium.