7

Fui presente, alla riunione che ebbe luogo quel martedì mattina nella stanza da letto di Nero Wolfe, alle otto precise. Ma quando il telefono ci interruppe per la seconda volta, Wolfe mi ordinò di scendere nello studio e di prendere la telefonata di là. La prima volta, era stato un giornalista del “Times”, a telefonare: voleva parlare con Nero Wolfe. Gli avevo risposto che il signor Wolfe era occupato e che io potevo dirgli ugualmente tutto quello che voleva sapere. Aveva risposto un no secco e aveva riattaccato.

La seconda telefonata, che presi dallo studio, era di Lon Cohen, della “Gazette”. Per mia fortuna, Cohen preferiva parlare con me, piuttosto che con Wolfe. Voleva sapere quando poteva mandare un giornalista a fotografare i poliziotti svergognati da Wolfe di fronte alla nazione americana. Evidentemente, uno dei due agenti che avevano portato Hattie fuori di casa conosceva qualche giornalista. Lon aveva anche delle altre domande da rivolgermi, naturalmente, ma gli dissi che doveva aspettare le risposte finché non avessi saputo quali erano.

Stavo prendendo in considerazione l’idea di raggiungere di nuovo i miei amici, nella camera di Wolfe, quando suonò di nuovo il telefono. Era Nathaniel Parker. Era spiacente di non essere riuscito a fare rilasciare la nostra cliente, ma ci aveva messo tre ore per scoprire dove l’avevano portata, e non era riuscito a vederla prima di mezzanotte. Sperava di liberarla entro mezzogiorno.

Alle nove, il terzetto scese nello studio. Una delle ragioni per cui quei tre sono migliori di tutti gli investigatori che conosco, è che hanno un aspetto del tutto comune. Saul Panzer, basso, magrolino, con il naso pronunciato, sembrava un autista di tassi. Fred Durkin, massiccio, corpulento e pelato, sembrava un facchino, o giù di li. Orrie Cather, alto, elegante, disinvolto, sembrava un piazzista di automobili.

Entrarono nello studio, e Saul disse che Wolfe voleva che prendessero trecento dollari a testa, in banconote usate. Andai ad aprili la cassaforte, borbottando: – Anche in tempo d’inflazione, cinquanta dollari a testa dovrebbero essere più che sufficienti. Quindi, siete pregati di restituirmi il resto, quando avrete finito.

Orrie rispose che se dovevano corrompere i portinai, i vicini di casa e i ragazzini dell’ascensore, non avrebbero avuto neanche un centesimo da restituirmi. Saul mi promise una telefonata ogni due ore.

Quando se ne furono andati, mi dedicai ai miei soliti compiti mattutini: aprii la posta, spolverai le scrivanie e aggiornai i cartellini della fioritura e della semina delle orchidee, che Theodore mi lascia sulla scrivania tutte le sere. Comunque, quel lavoro mi tenne occupato solo gli occhi e le mani, mentre la mia mente si dava da fare con mille pensieri. Tra i molteplici doveri che devo compiere per guadagnarmi lo stipendio, dal temperare le matite allo scaraventare fuori i visitatori troppo aggressivi, il più importante è quello di punzecchiare Wolfe quando viene colto da uno dei suoi attacchi di pigrizia. Il più importante e il più difficile: a volte, è praticamente impossibile stabilire se il mio gran capo lavora o finge di lavorare. Ecco che cosa mi preoccupava, quella mattina: se Wolfe cercava di prendere tempo, se aveva messo in moto Saul, Fred e Orrie solo per non dover far funzionare il suo cervello, l’unica cosa che mi restava da fare era salire nella serra e pungolarlo. Era il solito, vecchio problema. Ma il guaio era che quella volta non avrei saputo che cosa rispondere, quando lui avrebbe socchiuso gli occhi per domandarmi infidamente, come al solito: “Avete qualche suggerimento?”.

La mia mente rigirava il problema da tutte le parti, senza trovare una soluzione, quando il campanello suonò, poco dopo le dieci. Andai nell’atrio e detti un’occhiata attraverso lo spioncino: era Albert Leach, col cappello calato sulle orecchie e il bavero rialzato. Aprii la porta.

– Buongiorno – disse, infilando la mano nel taschino interno della giacca.

Pensai che volesse tirar fuori le credenziali.

– Non vi disturbate – dissi.

Vi riconosco.

Ma non si trattava delle credenziali. La sua mano venne fuori stringendo un foglio ripiegato. Me lo tese, dicendo: – Un ordine del Tribunale Federale.

Presi il foglio, lo spiegai e lo lessi attentamente da cima a fondo.

– Sapete – dissi poi. – È una nuova esperienza, per me. Non mi pare di aver mai avuto per le mani un foglio redatto dal Tribunale Federale. Il signor Wolfe sarà felice di aggiungerlo alla sua collezione.

– Me lo infilai in tasca.

– Vi faccio notare – disse lui – che ho il potere di perquisire la vostra abitazione in cerca dell’oggetto specificato su quel foglio.

– Non avrete bisogno di farlo. Eravate presente, ieri, quando ho detto all’ispettore Cramer che l’avevo messo nella cassaforte, nello studio. È ancora là. Entrate.

Mi feci da parte per farlo passare.

Era molto educato, per essere un agente del Dipartimento del Tesoro. Entrò, si tolse il cappello, aspettò che avessi chiuso la porta e mi segui nello studio. Spalancai lo sportello della cassaforte, afferrai per un angolo il foglio in cui erano state avvolte le banconote, e andai a posarlo sulla mia scrivania; poi tornai indietro a prendere le banconote e lo spago, e li misi accanto al foglio.

– Ecco qui – esclamai – Ho pensato che fosse meglio non rifare il pacchetto, dopo che ho rilevato le impronte digitali.

Strinse le labbra. – All’ispettore Cramer, però, non l’avete detto, che avevate rilevato le impronte.

– No? Mi sembrava di si. Naturalmente, è stato un gesto del tutto normale, dopo che la signorina Annis ci aveva raccontato come e dove aveva trovato il denaro. Comunque, c’erano solo le mie impronte e quelle della signorina Annis. Ho esaminato accuratamente tutta questa roba, e vi assicuro che se ce ne fossero state delle altre me ne sarei accorto.

– Avete maneggiato delle prove che…

– Prove? In quel momento, non potevo sapere che fossero delle prove – dissi con voce addolorata. – Comunque, le impronte sono ancora là. Vi darò un sacchetto per portarvi via quella roba, ma prima conteremo le banconote. Dovrete rilasciarmi una ricevuta. Sono ancora di proprietà della signorina Hattie Annis.

Apri la bocca, poi la richiuse. Era in una bella situazione. Sapeva che sapevo che quel denaro era falso, e di conseguenza sapevamo tutti e due che Hattie non l’avrebbe mai più rivisto. Ma lui continuava a fare il furbo.

– Vi farò una concessione – dissi. – Peseremo le banconote sulla bilancia che uso per la posta. Mettetele sul piatto.

Prese le banconote, le depositò sul piatto della bilancia e guardò il peso: poco meno di quattrocento grammi. Andai in cucina, presi un sacchetto di carta e lo consegnai al “Tman”. Poi mi misi alla macchina da scrivere e preparai una ricevuta per trecentonovantasei grammi di banconote. Fui tentato di aggiungere. “in buone condizioni”, ma ricordai in tempo che il “Tman” mi aveva avvertito di non tentare di fare il furbo col Servizio Segreto del Dipartimento del Tesoro. Mentre gli porgevo la ricevuta e una penna, suonò il campanello. Uscii nell’atrio.

Era l’ispettore Cramer. Aprii la porta e lui entrò. Richiusi. Quando mi voltai, Cramer stava cavando dalla tasca interna della giacca un foglio ripiegato. Me lo porse, sogghignando. Lo lessi attentamente. Non valeva la pena di conservarlo come ricordo nella nostra collezione: in fondo, era solo dello Stato di New York.

– Vi prego di notare – disse Cramer – che posso perquisire la casa, se mi ci costringete.

– Non avrete bisogno di farlo, sapete già dove sono quei quattrini.

Marciò verso la porta dello studio. Lo seguii, fermandomi sulla soglia. Leach, che si era seduto alla mia scrivania, aveva il sacchetto di carta in una mano e le banconote nell’altra. All’ingresso di Cramer, sollevò lo sguardo.

– Il problema è complicato – dissi. – Leach ha firmato una ricevuta, per quei quattrini, e non credo che sia utile stracciarla. Perché non li dividete metà per uno, da buoni fratelli?

Cramer si fermò a un passo dal “Tman”. Un muscolo gli si contraeva sul lato del collo.

– Quella roba è una prova per un caso d’omicidio – disse freddamente, – Ho un ordine del tribunale…

– Anch’io – rispose Leach. – Del Tribunale Federale. – Infilò le banconote nel sacchetto, senza affrettarsi, poi si alzò. – Se volete mandare un vostro agente nel nostro ufficio, gli permetteremo di esaminare queste banconote, Ispettore. Siamo sempre disposti a collaborare con le autorità locali.

Si mosse e fece il periplo attorno a Cramer. Cramer girò sui tacchi e lo segui. Io mi feci da parte per farli passare.

Quando fu alla mia altezza, Cramer mi lanciò un’occhiata che avrebbe incenerito qualunque uomo che non avesse avuto la mia grande forza d’animo. Io non collaborai con le due autorità in marcia, accompagnandole nell’atrio, perché non sapevo se sarei riuscito a mantenere la faccia impassibile. Quando sentii aprire e chiudere la porta, smisi di controllarmi e mi lasciai andare. La risata che mi ero sentito premere in gola non appena Cramer aveva tirato fuori il suo foglio, esplose in tutta libertà. Sghignazzai più forte e più a lungo di quanto non mi fosse mai capitato in vita mia, tanto che Fritz si portò sulla soglia dello studio per domandarmi che cosa stava succedendo.

Era inutile andare a disturbare Wolfe nella serra, perciò attesi fino alle undici, finché non scese. Wolfe non sghignazza mai, ma quando gli ebbi raccontato la storia e mostrato i due fogli consegnatimi da Leach e da Cramer, si permise una specie di chioccio divertito, mentre negli occhi gli si accendeva una strana luce.

Disse che era meglio che non fosse stato presente, altrimenti Cramer l’avrebbe accusato di aver organizzato tutta quella farsa. Risposi che ero d’accordo. Aggiunsi che ero soddisfatto che i dollari matti fossero usciti di casa. A sua volta, rispose che era d’accordo.

Durante la mezz’ora successiva, ricevetti tre telefonate: da Saul, da Fred e da Orrie. Niente di molto promettente. Orrie aveva parlato con Max Eder, col portinaio dell’edificio e con altri tre inquilini. Fred aveva comprato uno scoiattolo e un canguro, e aveva passato un’ora intera nel laboratorio dell’ “Harry’s Zoo”. Saul non era entrato nell’edificio che ospitava il Mushroom Theatre: dal di fuori, sembrava tanto instabile da crollare, se qualcuno si fosse appoggiato al muro. Saul aveva passato due ore girando per il quartiere. Quando riferii a Wolfe le tre telefonate, lui continuò a studiare le parole crociate del “London Observer”, e quando terminai di parlare mi gratificò di un grugnito.

A questo punto, decisi che era arrivato il momento di pungolarlo a dovere, ma lo squillo del campanello m’impedì di passare all’azione. Andai nell’atrio e guardai fuori dallo spioncino. Sospirai: erano il nostro avvocato e la nostra cliente.

Non avevo detto a Parker di accompagnare Hattie da noi. Non avevo nessuna voglia di combattere con quella svitata, e senza dubbio Wolfe ne aveva meno di me. Potevo dire a Hattie solo che speravo che Wolfe avesse trovato un indizio, e che comunque si era messo a spendere i suoi quattrini al ritmo di cinquanta dollari l’ora.

– Salve– esclamai, spalancando la porta. – Che sollievo! Mi dispiace di non avervi potuto liberare prima, Hattie, ma l’avvocato Parker ha fatto del suo meglio. Accompagnatela a casa sua, Nat, per piacere. Ho molto da fare, in questo momento.

– Non chiamatemi Hattie – sbottò lei. – Ve lo permetterò solo quando avrò saputo che cosa state combinando.

– L’ho portata qui – spiegò Parker – perché ha insistito. – Sembrava imbarazzato. – Me ne vado, ora. Ho annullato due appuntamenti e sono in ritardo per un terzo. Fatemelo sapere, se avete bisogno di me.

Girò sui tacchi e si allontanò di corsa.

– Tutte le volte che vengo qui disse Hattie – vi piazzate sulla soglia. A che serve aprire la porta, quando si blocca l’ingresso?

Mi feci da parte per lasciarla passare. Si tolse i guanti di lana grigia, se li infilò in tasca, si sbottonò il cappotto; capii che sarebbe stato inutile tentare di aiutarla a sbarazzarsi del cappotto, perciò non mi mossi. Aspettai che lo appendesse all’attaccapanni da sola. In un attimo, arrivò sulla soglia dello studio. Feci appena in tempo a muovermi, che già si era piazzata sulla poltrona di pelle rossa, al lato della scrivania di Wolfe. Questi la fissò con la fronte aggrottata.

– Ricordatevi una cosa – sbottò Hattie. – Non ho nessuna intenzione di pagare anche l’avvocato. L’ho già detto anche a lui. Quando ho spiegato al fratellino, qui, che ero in grado di sborsare quarantaduemila dollari, pensavo che le spese fossero incluse.

Wolfe mi lanciò un’occhiata. Feci un cenno d’assenso. – Infatti – dissi. – Ci siamo messi d’accordo su un onorario di quarantaduemila dollari, spese incluse.

Wolfe spostò lo sguardo su di lei.

– Va bene, signora. Pagherò io l’avvocato. Siete venuta per dirmi questo?

– Vi ho già detto di non chiamarmi signora. Sono nubile. Prima di tutto, voglio vedere quei soldi falsi. Solo dopo che li avrò visti saprò che posso fidarmi di voi. Tirateli fuori.

Wolfe si voltò a guardarmi. L’avevo visto risolvere molte crisi, ma a quanto pareva quella era troppo difficile anche per lui. – Archie?

Aprii il cassetto della scrivania, tirai fuori tre fogli di carta e andai a consegnarne uno a Hattie.

– Un poliziotto di nome Cramer ha portato questo – dissi. – Come vedete, è firmato da un giudice. È un ordine di consegnare i soldi e la carta nella quale erano avvolti. Cramer conosce il signor Wolfe e me, e non ha molta simpatia per noi. Quando mi ha consegnato quel foglio, sogghignava.

– Lo sapevo. Siete un buono a nulla. Avete…

– Un momento. Il piedipiatti è arrivato in ritardo. – Le consegnai un altro foglio. – Era già arrivato un altro tizio, con questo foglio, firmato da un giudice federale. Avevo consegnato i quattrini al “Tman”, quando è arrivato Cramer. Quindi, i piedipiatti ci hanno fatto una figura poco brillante. Non arriverò ad affermare che è stato merito nostro, ma i fatti sono fatti. Il piedipiatti è rimasto tanto male che è uscito senza aprir bocca. – Le porsi il terzo foglio.

– E questa è la ricevuta firmata dal “Tman”.

Hattie non degnò i fogli di un’occhiata. Me li restituì. – Mi dispiace di non essere stata presente – sospirò.

– Dispiace anche a me, signorina Annis. Vi sareste divertita.

– Chiamatemi Hattie.

– Sarà un piacere. – Rimisi i fogli nel cassetto della scrivania e mi sedetti. – Avete passato una notte difficile?

– Non troppo. C’era una brandina e ho dormito per qualche ora, ma la donna che era con me non ha voluto spegnere la luce e i piedipiatti mi lasciavano in pace per un paio d’ore, poi tornavano alla carica. I piedipiatti sono troppo cattivi per restare al mondo, e troppo stupidi. Avrebbero dovuto capirlo, che non avrei mai parlato.

– Non avete aperto bocca?

– Certo che non ho aperto bocca! Ve l’avevo detto, mi pare.

– Neanche una parola?

– No. Il guaio è cominciato quando mi è venuta fame. Mi hanno portato della roba da mettere sotto i denti, due volte ieri e una volta stamattina, ma naturalmente non l’ho toccata. Ero certa che ci avessero messo dentro qualcosa per farmi parlare.

– Non avete toccato cibo?

– No.

Wolfe emise un profondo sospiro. – È ridicolo. Abbiamo una camera libera, qui. Una camera molto comoda. Il signor Goodwin vi ci accompagnerà, e il mio cuoco vi porterà un vassoio con qualcosa da mangiare. Dopo un digiuno tanto prolungato, sarà meglio che mangiate lentamente. Avete delle preferenze, in fatto di cibo?

Hattie chinò la testa da una parte. – Potete scommetterci, Falstaff. Lasciate che la signora se la spassi un po’. Conosco la fama del vostro cuoco. Che ne direste di un cosciotto di agnello alla “bourguignonne”?

Wolfe non resta sbalordito facilmente, ma le parole di Hattie lo lasciarono senza parola per qualche secondo. Spalancò gli occhi. – L’agnello alla “bourguignonne” richiede tempo, signora… Scusate, signorina. Ci vogliono almeno due ore, perché sia mangiabile.

– Non me ne importa affatto. Nel frattempo, schiaccerò un pisolino. C’è un bagno, qui dentro?

– Certo.

– Allora vado a lavarmi di dosso l’odore dei piedipiatti. Ma c’è prima una cosa che voglio domandarvi: e la ricompensa? Dobbiamo Intenderla, sapete?

– È problematico; comunque, cercherò di ricordarmene, al momento opportuno. Per ora, c’è una questione più urgente da sbrigare. Quando vi sarete rinfrescata…

– Che questione?

– Il lavoro per cui mi avete assunto. Devo svolgere delle indagini su un omicidio commesso in casa vostra. Giusto?

– Vi ho assunto perché svergogniate i piedipiatti, e l’avete già fatto. Quello che si chiama Cramer, è un omaccione dalla faccia rossa e gli occhietti azzurri che sembrano quelli di un porco?

– Gli occhi dei suini non sono azzurri. Se non fosse per questo particolare, la descrizione sarebbe esatta.

– Allora il vostro compito l’avete già assolto, in parte. Avrei voluto essere presente, quando quel Cramer è uscito di qui con la coda tra le gambe. Comunque, il vostro incarico consiste soprattutto nel farli pentire di aver abbattuto la mia porta. Ci devono pensare loro, a trovare il colpevole dell’omicidio. Sono sorpresa che fosse Tammy Baxter, perché ho sempre pensato che i falsari dovessero avere più vestiti. Comunque, le cose non possono essere andate che in un modo: quando l’uomo che aveva nascosto il pacchetto è andato a riprenderlo e non l’ha trovato, deve aver pensato^ che l’avesse preso la sua complice e l’ha uccisa. Tammy, però, lo sapeva che l’avevo preso io, perché gliel’avevo detto, ieri mattina, quando…

Suonò il telefono. Sollevai il ricevitore e dissi:

– Qui lo studio di Nero Wolfe. All’apparecchio, Archie Goodwin.

Una voce femminile mi comunicò che il signor Mandel voleva parlarmi. Dopo una breve attesa, mi giunse la voce di Mandel.

– Salve, Goodwin. Sono Mandel, dell’ufficio del Procuratore Distrettuale. Ho bisogno di vedervi. Quando pensate di poter essere qui?

– Tra venti minuti, se è necessario.

– È necessario. Sono le dodici e dieci. Vi aspetto per le dodici e mezzo. D’accordo?

Gli risposi di si, traffico permettendolo, e mi alzai.

– Era l’ufficio del Procuratore Distrettuale – annunciai. – Sono sorpreso che non si siano fatti vivi prima. Tanto, voi due non avete bisogno di me. Vedo che vi capite perfettamente.

Li lasciai.

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