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Alcune settimane più tardi, raccontai a un amico questa storia e, quando arrivai al punto in cui avevo detto “sono false”, gli domandai qual era stata, secondo lui, la reazione di Hattie.
– Semplice – rispose. – Ti ha immediatamente accusato di aver sostituito le banconote del pacchetto con delle banconote false. D’altronde, avresti dovuto aspettartelo.
Il mio amico non avrebbe potuto prendere una cantonata peggiore. Comunque, ammetto che la colpa fu tutta mia. Evidentemente, non ero stato capace di descrivere a dovere Hattie. In verità, Hattie si limitò a rispondere: – Certo che sono false. Chi volete che venga a nascondere dei soldi veri nel mio salotto? E perché, poi, se fossero stati veri, avrei dovuto portarli a Nero Wolfe?
– Sapevate che erano false? – domandai.
– Ho capito che “dovevano” essere false.
– Non me l’avete detto.
– E perché avrei dovuto dirvelo? Non siete dei grandi investigatori, voi due? Infatti, l’avete capito anche voi, altrimenti non vi sareste preso la briga di esaminarle con la lente d’ingrandimento.
Scossi il capo. – Non avevo capito un accidente. L’ho semplicemente sospettato. E l’ho sospettato solo quando sono andato ad aprire la porta, pochi minuti fa. Sapete chi era? Un “Tman”. E sapete che cos’è un “Tman”? È un agente del Dipartimento dei Tesoro. Voleva sapere se avevamo ricevuto la visita di una certa Tamiris Baxter. Gli ho risposto di no, che l’avevo vista stamattina per dieci minuti e che…
– Tammy Baxter? Tammy è venuta da voi?
– Si. Voleva sapere se eravate stata qui, e io le ho risposto di no. Mi ha lasciato il suo numero telefonico e mi ha pregato di avvertirla, nel caso vi foste fatta viva. Poi il “Tman” mi ha domandato se avevamo ricevuto la visita di una certa Hattie Annis, e io gli ho risposto che non avevamo l’abitudine di rispondere alle domande più strane, il che è vero. Comunque, all’improvviso ho cominciato a provare una certa curiosità per queste banconote e cosi, appena il “T man” se l’è battuta, io sono andato a prendere i ferri del mestiere e sono tornato qui. E ora voi dite tranquillamente che sapevate che le banconote erano false.
– Archie – sbottò Wolfe. – Avete visto le credenziali di quell’uomo?
– Certo.
– Ha chiesto della signorina Annis?
– Ha chiesto se era stata qui.
– Perché non l’avete fatto entrare?
– Perché prima volevo osservare le banconote: se erano buone, c’era ragione di permettere a un “Tman” di disturbare una vostra ospite, che per giunta aveva dimostrato di apprezzare tanto il caffè di Fritz.
Il guaio era che ormai Hattie aveva finito il caffè, e quindi Wolfe non la considerava più sua ospite.
– Benissimo – disse. – Ora le avete viste, le banconote. Il Dipartimento del Tesoro ha una sede anche a New York?
– Sì.
Ah, quante sono le cose che qualunque investigatore da strapazzo conosce e Wolfe no!
– Telefonate e fate rapporto. Se In signorina Annis se ne vuole andare prima dell’arrivo degli agenti del Dipartimento del Tesoro, trattenete le banconote. Naturalmente, vorranno anche la carta nella quale sono state avvolte. Date una ricevuta alla signorina, se la desidera.
Si voltò e andò nello studio, chiudendosi la porta alle spalle. La porta non rimase chiusa a lungo. Lo immetto: avrei potuto fermare Hattie facendo un passo e allungando un braccio, ma pensai che se non altro Wolfe doveva darle la possibilità di ringraziarlo per il caffè. Perciò non feci quel passo finché Hattie non ebbe aperto la porta del lo studio, poi mi limitai a portarmi sulla soglia. Wolfe era seduto nella poltrona dietro alla scrivania.
– Dicevate sul serio? – domandò Hattie. – Dicevate sul serio, quando avete parlato di avvertire i piedipiatti?
– Non ho parlato di “piedipiatti”, signorina – rispose Wolfe. – Ma degli agenti del Dipartimento del Tesoro. Come cittadino americano, ho delle responsabilità. Il denaro falso è un reato. Non posso permettervi di uscire da questa casa con quelle banconote.
Hattie appoggiò una mano al bordo della scrivania, per sorreggersi. – Leccapiedi! – sbottò poi. – Il grande investigatore privato Nero Wolfe vuole tenersi buoni i piedipiatti! Se Falstaff fosse qui, gli chiederei scusa. Forse non era un eroe, ma se non altro aveva della dignità. È inutile che mi guardiate con quegli occhi! Non mi fate paura! Ho trovato quella roba in casa mia e ho pensato che avrei preferito bruciarla, piuttosto che consegnarla ai piedipiatti. In un primo momento, ho deciso di scoprire chi l’aveva messa dietro la mia libreria e poi di andare a un giornale a raccontare tutta la storia. Trovare del denaro falso non è cosa da tutti i giorni. Merita una ricompensa. Ma non sapevo da che parte cominciare, per scoprire chi aveva messo i quattrini dietro la libreria. Il mio cervello non è abituato a risolvere certi indovinelli. E cosi, ho pensato di trovare un investigatore e di dividere la ricompensa con lui; giacché c’ero, tanto valeva scegliere l’investigatore numero uno, il grande Nero Wolfe. E guardate che cos’è successo! Il denaro falso può anche essere un reato, ma quel denaro è mio, non vostro. L’ho trovato sotto il mio tetto, ma a voi che cosa ve ne importa? Volete tenervi buoni i piedipiatti, e cosi ordinate al fratellino, qui, di avvertirli e di consegnare le banconote. Non sputo, perché sono una signora, ma è come se sputassi. – Si voltò verso di me. – E voi, fratello? Che cos’avete da dire? È per questo che mi avete fatta entrare?
– Signora! – esclamò Wolfe.
Hattie si girò di scatto. – E non chiamatemi “signora”! Sono nubile!
– Avete ragione – disse Wolfe. – Non per quanto riguarda il mio servilismo nei confronti della polizia, ma in un altro senso avete ragione. Non sono un pubblico ufficiale. Ho quindi il diritto di confiscare delle banconote false? Ne dubito. E anche se ne avessi il diritto, ne avrei il dovere? Certamente no. Quelle banconote sono vostre, finché non cadono, in mano alle autorità. Confesso il mio errore, ma ero spinto da un desiderio di tranquillità, non certo da quello di rendere cosa grata alla polizia. Volevo togliermi da questo impiccio. Ora, maledizione, avete sollevato una questione che non posso ignorare. Ma, allo stesso modo, non posso ignorare i miei doveri di cittadino. Vi offro un consiglio: il signor Goodwin metterà quel denaro nella nostra cassaforte, poi verrà a casa vostra per svolgere delle indagini. Avete detto che volevate assumermi perché vi aiutassi a smascherare il falsario. Il signor Goodwin deciderà se è possibile farlo senza eccessivo dispendio di denaro e di tempo. Se sarà impossibile, vi renderò le banconote, ma avvertirò nel contempo il Dipartimento del Tesoro. In nessun caso mi aspetterò un onorario. Non siete mia cliente. Tento solo di levarmi da questo impiccio. Ebbene?
– Divideremo la ricompensa in tre parti – dichiarò Hattie.
– Non voglio ricompense di sorta. – Wolfe agitò una mano. – Tanto più che con ogni probabilità non ci sarà nessuna ricompensa.
– Spero che ci sia, invece. Non ho bisogno di quattrini. Ho di che vivere agiatamente. Ma non ho mai guadagnato un centesimo in vita mia e questa è la volta buona. Tenete pure le banconote nella vostra cassaforte. Non ho niente in contrario. Ma non vi chiederò scusa per quello che ho detto, finché non avrò visto come si mettono le cose.
– Non mi sarei mai aspettato che mi chiedeste scusa. Archie?
Mi mossi. Andai nella stanza centrale e presi le banconote, il foglio in cui erano state incartate e lo sparo, poi tornai nello studio, reggendo il foglio per un angolo.
– Una domanda – dissi. – Dato che quel tipo ha nascosto le banconote in un posto in cui potevano anche essere trovate, senza dubbio ha avuto sufficiente buonsenso da non lasciare delle impronte digitali. Ma se cosi non fosse? Lo potremmo pizzicare nel giro di poche ore. Non mi ci vorrebbe molto, per appurare se su questo foglio ci sono delle impronte, ma le autorità potrebbero trovare da ridire. Che faccio?
– Cercate le impronte – ordinò Hattie. – L’avrei già fatto io, se avessi saputo da che parte cominciare.
– Potete rilevare le impronte senza lasciare tracce sul foglio? – domandò Wolfe.
– No – risposi.
– Allora lasciate perdere. Non c’è fretta.
Naturalmente, ormai le mie impronte c’erano già, sia sul foglio sia sulle banconote, ma siccome era inutile lasciarcene delle altre, feci bene attenzione a non maneggiarle troppo, quando le riposi nella cassaforte. Poi domandai a Wolfe se aveva istruzioni da darmi, e lui rispose di no. Sapevo che cosa richiedeva la situazione. Andai a prendere la borsa e i guanti di Hattie, nella stanza centrale. Avrei voluto tastarle ancora il polso, prima di mettermi in cammino con lei, ma non volle.
L’accompagnai nel bagno e quando la pregai di guardarsi allo specchio ammise che la sua faccia aveva bisogno di acqua e sapone. La lasciai sola e aspettai nel corridoio. Dopo qualche minuto, usci dal bagno: la macchia era sparita e i capelli erano stati pettinati.
Percorremmo la Decima Avenue in cerca di un tassi. Hattie zoppicava leggermente, ma disse che non era niente di grave: semplicemente un livido indolenzito, sul fianco. All’angolo della Trentottesima Strada, tentò di spiegarmi perché era tanto avvilita e disordinata e, soprattutto, perché ce l’aveva tanto coi piedipiatti: non si era più ripresa, da quando suo padre era rimasto ucciso casualmente, in mezzo alla strada, da un colpo partito dalla rivoltelle di uno sbirro. Il racconto, però, era un po’ confuso, e in quel momento io ero interessato a qualcos’altro: che cosa ne sapeva, di Tammy Baxter? Doveva essere coinvolta in qualche modo in quella storia, dato che il “Tman” aveva chiesto di lei. Hattie rispose che Tammy non poteva avere niente a che fare con le banconote false, perché possedeva solo un vestito, tre camicette e due gonne, e la sua pelliccia era di coniglio. Se fosse stata una falsaria, avrebbe avuto più abiti. Ammisi che il ragionamento non faceva una grinza. Perché, allora, il “Tman” si era interessato a lei? Non lo sapeva. Da quanto tempo Tammy viveva in casa di Hattie? Da tre settimane. Che cosa sapeva, Hattie, del suo passato e della sua vita? Niente. Hattie non chiedeva mai referenze, ai suoi inquilini. Quando arrivava qualcuno che aveva bisogno di un buco per dormi re, lei lo accettava. Punto e basta.
Gli altri quattro inquilini erano in casa sua da più tempo. Uno di loro, Raymond Dell, da oltre tre anni. Verso il millenovecentotrenta, Dell aveva avuto quattrini sufficienti per mangiare da Sardi due volte al giorno; nel millenovecentoquaranta guadagnava abbastanza bene a Hollywood; ora si doveva accontentare di qualche “sketch” televisivo, quando capitava.
Noel Ferris abitava in casa di Hattie da un anno e mezzo. Dieci mesi prima, aveva recitato in una commedia che aveva fatto fiasco nel giro di quattro giorni. Nell’ultima stagione, il lavoro teatrale in cui aveva avuto una particina aveva tenuto il cartellone solo per due settimane.
Paul Hannah abitava in casa di Hattie da quattro mesi. Era un ragazzo di vent’anni, senza nessun passato degno di nota. In quei giorni, provava in una commedia che sarebbe stata data in un teatrino di Broadway di li a un mese. Il teatrino si chiamava il “Mushroom”.
Martha Kirk era in casa di Hattie da undici mesi. Aveva poco più di vent’anni. Era legata da un contratto di un anno per la commedia musicale “Un bel gioco dura poco”.
Studiava all’Eastern Ballet Studio.
Tutto questo, lo seppi mentre il tassi ci portava verso la Quarantasettesima Strada. Tammy Baxter aveva detto che la casa di Hattie era una stamberga, e non aveva mentito. D’altra parte, tutti gli edifici di quel quartiere erano su per giù uguali.
Il vento soffiò alcuni fiocchi di neve nell’atrio, quando aprii la porta. Hattie fece girare la chiave nella serratura della porta interna, ed entrammo.
Le avevo detto che prima di tutto volevo dare un’occhiata alla libreria, per vedere se, grazie alla polvere che senza dubbio si era accumulata sulle mensole, riuscivo a stabilire da quanto tempo il pacchetto si trovava là. Ma mentre ci toglievamo il cappotto, in cima alle scale rombò una voce:
– Sei tu, Hattie?
Il proprietario della voce scese di corsa. Era un tipo alto, snello, con una splendida criniera di capelli bianchi. Indossava una veste da camera vecchio stile, azzurra, piena di macchie.
– Dove diavolo sei stata? – borbottò. – Senza di te, questa casa è un sepolcro. Non riesco a trovare le arance. – Si accorse del la mia presenza. – Buongiorno.
– Il signor Goodwin, il signor Dell – disse Hattie. Feci ‘per tendere la mano, ma Dell s’inchinò, ed io lo imitai. Alle mie spalle, risonò una voce: – Le arance sono qui, Ray! Buongiorno, Hattie.
Raymond Dell si diresse verso il retro dell’atrio, dove una ragazza si era portata sulla soglia. Quando Hattie lo segui, mi misi nella sua scia e mi trovai in cucina. Su un immenso tavolo dal ripiano coperto di linoleum, c’era un portafrutta di rame colmo di arance. Dell prese un frutto e cominciò a sbucciarlo. L’aria era impregnata di odore di caffè.
– La signorina Kirk, il signor Goodwin – disse Hattie.
Martha Kirk non dimostrava vent’anni. Era un bocconcino coi fiocchi, dalla testa in su e dalla testa in giù. Per non parlare delle fossette nelle guance. Mi guardò, fece un cenno col capo, poi disse a Hattie: – Sai dov’è Tammy? Hanno telefonato due volte chiedendo di lei. Un uomo. Non ha voluto dire chi era.
Hattie rispose che non sapeva dove fosse Tammy.
Dell sollevò lo sguardo dall’arancia, per borbottare verso di me:
– Siete un civile, signor Goodwin?
Sapevo perché Dell mi aveva rivolto quella domanda: se non me ne fossi inteso gran che, di teatro, avrei saputo che gli attori chiamano “civili” tutti quelli che non calcano un palcoscenico.
Stavo per rispondere, quando s’intromise Hattie.
– Attento a come parli col signor Goodwin – disse a Dell. – Vuole scrivere un articolo su me e su questa casa. Ecco perché è qui. Diventeremo tutti famosi. Pubblicheranno una nostra fotografia con la grande Carol Jasper. Carol ha vissuto qui per quasi un anno.
– Per quale giornale lavorate? – domandò Dell. Martha Kirk fece il giro del tavolo per venirmi a fare un inchino. – Che cosa posso offrirvi? – domandò Martha.
– Uova di lupo? Lingue di pappagallo?
Ma pentii di aver detto a Hattie di presentarmi come giornalista. Era un peccato deludere una ragazza capace di fare un inchino del genere.
– Per il momento non voglio niente – risposi. – Le uova di lupo sono indigeste.
Raymond Dell mi fissava coi suoi occhi azzurri come se avesse voluto perforarmi da parte a parte. – Non permetterò che mi si fotografi con Carol Jasper – dichiarò. – La considero una trombona, una guitta.
– Potrai sempre nasconderti dietro al gruppo – disse Hattie. – Venite, signor Goodwin. – Si mosse. – Il signor Goodwin vuole visitare la casa. Spero che abbiate fatto i letti.
La seguii fuori della cucina. Quando fummo nell’atrio, mi domandò sottovoce: – Come me la sono cavata? Bene?
– Altro che – risposi. Poi, a voce più alta, in modo che potessero sentirmi dalla cucina: – Sono due tipi interessanti. L’articolo riuscirà ottimamente.
Hattie si fermò davanti a una porta sulla sinistra, l’apri ed entrò in una stanza. La seguii e richiusi. Le tende erano abbassate, e nella stanza era buio come di notte. Hattie girò un interruttore, e dal soffitto piovve un’ondata di luce giallastra.
Mi guardai attorno. Un divano ricoperto di velluto rosso e poltrone in tinta; un caminetto con la mensola di marmo; un tappeto stinto e consunto; un piano verticale appoggiato contro una parete sulla destra e, oltre il piano, le mensole cariche di libri.
– Qui – disse Hattie, avvicinandosi alle mensole. – Ho rimesso i libri dov’erano.
Quando mi mossi per raggiungerla, con la coda dell’occhio vidi qualcosa. Mi voltai, irrigidendomi. Era Tammy Baxter, riversa sul pavimento dietro il divano. Aveva gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto. E, come per indicarle da che parte guardare, l’impugnatura del coltello, che usciva ad angolo retto dal suo torace, si alzava diritta in direzione della lampadina.