XXVIII
A poco a poco egli conquistò anche me e senza che sulle prime potessi rendermene conto. Avevo bisogno di lui, avevo bisogno di lui semplicemente a causa di mia madre. Egli stabilì il collegamento fra la nostra casa e Elisabeth. Non potevo più continuare a stare fra le due donne, anzi fra tre, se tenevo conto anche della professoressa. Dacché il signor von Stettenheim aveva incontrato la sorprendente simpatia di mia madre, Elisabeth cominciò a venire di tanto in tanto a casa nostra. Mia madre aveva solo fatto capire che non desiderava vedere la professoressa. Del resto essa si allontanò manifestamente da Elisabeth. Anche questo fu in parte merito del signor von Stettenheim, e anche per questo egli mi conquistò. Mi abituai alle sue maniere imprevedibili (mi facevano trasalire sempre più di rado), al suono della sua voce, che era sempre di due, tre tonalità più alto di quanto non richiedesse l'ampiezza dell'ambiente in cui stava parlando. Era come se non sapesse affatto che esistono ambienti più piccoli e più grandi, una stanza, per esempio, e l'atrio di una stazione. Nel salone di mia madre parlava con quella voce precipitosa, almeno il doppio della velocità normale, con cui parecchie persone semplici usano parlare al telefono. Per la strada urlava addirittura. E siccome si serviva solo di locuzioni vuote di contenuto, la loro risonanza era ancora maggiore. Per diverso tempo mi stupii che mia madre, alla quale ogni suono più forte, ogni rumore superfluo, ogni musica di strada e perfino i concerti all'aperto, procuravano sofferenze fisiche, potesse sopportare e addirittura trovare charmant la voce di von Stettenheim. Solo un paio di mesi più tardi, per un caso, potei conoscere la causa di tanta indulgenza.
Una sera arrivai a casa a un'ora insolita. Volevo salutare mia madre, la cercai. La cameriera mi disse che era in biblioteca. La porta della biblioteca, che era attigua al salone, era aperta, non ebbi bisogno di bussare. La vecchia signora evidentemente non sentì il mio saluto. Sulle prime pensai che si fosse addormentata sul libro. D'altronde mi voltava le spalle, era seduta di fronte alla finestra. Mi avvicinai, non dormiva, leggeva e anzi voltò pagina proprio nell'istante in cui mi accostai a lei. «Buona sera, mamma!» dissi. Non alzò lo sguardo. La toccai. Sobbalzò spaventata. «Come mai sei qui?» chiese. «Ho fatto un salto a cercare l'indirizzo di Stiasny, mamma». «È tanto che non ha più dato notizie di sé. Credo che sia morto». Il dottor Stiasny era medico della polizia, aveva la mia età, mia madre doveva avermi frainteso. «Intendevo Stiasny» dissi. «Sicuro, credo che sia morto due anni fa. Ma a dir poco aveva già ottant'anni!». «Dunque è morto!» ripetei - e così seppi che mia madre era quasi sorda. Unicamente grazie alla sua disciplina, a quella straordinaria disciplina che a noi giovani non era più stata imposta dalla fanciullezza in poi, riusciva misteriosamente a trovare la forza di sconfiggere la sua infermità durante quelle ore in cui si aspettava che io fossi a casa, io e gli altri. Nelle lunghe pause di attesa si preparava ad ascoltare. Lei doveva essere ben consapevole che la vecchiaia le aveva assestato uno dei suoi colpi. Presto - pensai - sarà completamente sorda, come il pianoforte senza corde! Anzi, forse già allora, quando in un momento di smarrimento aveva fatto levare le corde, erano vivi in lei il presentimento dell'incombente sordità e il vago timore che presto non avrebbe più potuto percepire esattamente i suoni! Fra tutti i malanni che la vecchiaia poteva elargire, questo, per mia madre, una vera figlia della musica, doveva essere il più grave. In quell'istante essa mi apparve di una grandezza quasi soprannaturale, come rapita in un altro secolo, nell'epoca di un'eroica nobiltà da gran tempo tramontata. Perché è nobile ed eroico dissimulare e rinnegare le infermità.
Per questo dunque apprezzava il signor von Stettenheim. Evidentemente era la persona che capiva meglio e gliene era grata. Le sue banalità non la stancavano. Io la salutai, volevo andare nella mia camera a prendere l'indirizzo di Stiasny. «Posso venire alle otto, mamma?» gridai, ora già con voce alterata. Avevo esagerato un po'. «Da quando gridi così?» domandò. «Vieni pure, ci sono le polpette con le ciliegie, naturalmente farina di grano».
Cercavo spasmodicamente di scacciare il pensiero della pensione. Mia madre proprietaria di una pensione! Che idea astrusa, assurda anzi! La sua debolezza di udito accresceva ulteriormente la sua dignità. Forse ora non sentiva più i colpetti del suo stesso bastone, nemmeno più il rumore dei propri passi. Capii perché trattava con tanta indulgenza la nostra cameriera, bionda, corpulenta e goffa, che aveva una certa disposizione a fare fracasso non appena si muoveva, una brava, ottusa ragazza del suburbio. Mia madre con dei pensionanti! La nostra casa con innumerevoli campanelli, che già mi trillavano tanto più striduli negli orecchi ora che sapevo come mia madre non sarebbe stata in grado di sentire tutta la loro insolenza. Io dovevo, in certo modo, sentire per tutti e due e per tutti e due essere offeso. - Ma quale altra soluzione poteva esserci? - Il dottor Kiniower aveva ragione. Le arti applicate divoravano un'ipoteca dietro l'altra.
Mia madre non se ne dava pensiero. Dunque io solo avevo, come si usa dire, la responsabilità. Io - e una responsabilità! Non che io fossi vigliacco! No, ero semplicemente inadatto. Non avevo paura della morte, ma avevo paura di un ufficio, di un notaio, del direttore di un ufficio postale. Non ero capace di fare i conti, tutt'al più una somma, se proprio occorreva. Ma una moltiplicazione era già un supplizio. Sì, io e una responsabilità!
Frattanto il signor von Stettenheim, con tutta la sua balordaggine, se la passava tranquillamente. Aveva sempre soldi in tasca, non si faceva mai fare prestiti, al contrario invitava tutti i miei amici. Naturalmente, a nessuno di noi piaceva. Ammutolivamo tutti quando faceva all'improvviso la sua comparsa al caffè. Inoltre aveva l'abitudine di venire ogni settimana con una donna diversa. Le andava a pescare dappertutto, di tutti i tipi: ballerine, cassiere, sarte, modiste, cuoche. Faceva gite, comprava vestiti, giocava a tennis, andava a cavallo al Prater. Una sera, rientrando a casa, me lo trovai davanti faccia a faccia mentre usciva dal nostro portone. Sembrava che avesse fretta, la macchina lo aspettava. «Devo andare!» disse e saltò in macchina.
Elisabeth era seduta accanto a mia madre. Evidentemente era venuta insieme con von Stettenheim. Fiutai qualcosa di strano in casa nostra, era come un odore insolito, singolare. Doveva essere successo qualcosa di imprevisto durante la mia assenza. Le due donne stavano parlando quando entrai nella stanza, ma era quella specie di conversazione forzata che subito mi fece pensare fosse destinata solo a trarmi in inganno.
«Ho incontrato von Stettenheim davanti al portone di casa» cominciai. «Sì,» disse Elisabeth «mi ha accompagnato qui. È stato con noi un quarto d'ora». «È preoccupato, poveretto!» disse mia madre. «Ha bisogno di denaro?» chiesi. «Proprio così!» rispose Elisabeth. «Oggi è successo un putiferio da noi! Per farla breve: Jolanth ha chiesto del denaro. Si è dovuto darglielo. È la prima volta che chiede del denaro. Perché divorzia. Stettenheim, di questo denaro, ha urgente bisogno. Mio padre, dice, deve fare dei pagamenti in questi giorni. Io ho accompagnato Stettenheim qui». «Mia madre gli ha dato del denaro?». «Si!». «Contanti?». «Un assegno!». «Di quanto?». «Diecimila!».
Sapevo, stando al resoconto dell'"ebreo", che mia madre aveva in deposito presso la banca Ephrussi non più di cinquantamila corone, che si stavano svalutando ogni giorno di più.
Cominciai, cosa che prima non avevo mai osato fare, ad andare su e giù per la stanza davanti agli occhi severi e spaventati di mia madre. Per la prima volta in vita mia osai alzare la voce in sua presenza. Gridavo quasi. E comunque ero proprio furioso. Tutto il rancore lungamente accumulato verso Stettenheim, verso Jolanth, verso mio suocero mi sopraffece; e non solo, anche il rancore per la mia stessa fragilità. E anche del rancore verso mia madre vi si mescolava, e della gelosia nei confronti di Stettenheim. Per la prima volta ebbi il coraggio di pronunciare davanti a mia madre un'espressione rigorosamente proibita e riservata unicamente al Circolo: «Porco prussiano» dissi. E ne restai sbalordito io stesso.
Mi permisi dell'altro ancora: proibii a mia madre di firmare un'altra volta degli assegni senza il mio consenso. Così pure, senza riprender fiato, proibii a Elisabeth di condurre un'altra volta dalla mia povera mamma una qualunque persona che avesse bisogno di denaro; una qualunque persona piovuta qui dal cielo, dissi letteralmente. E siccome mi conoscevo e sapevo benissimo che solo un paio di volte in tre anni sarei stato in grado di manifestare la mia volontà, la mia avversione, perfino la mia sincera opinione su persone e fatti, m'infuriai scientemente ancora di più. Gridai: «Anche la professoressa non la voglio più vedere!». E: «Non voglio più sentir parlare di arti applicate. Per mettere tutto in chiaro, Elisabeth, tu ti trasferisci qui, con me».
Mia madre mi fissava coi suoi grandi occhi tristi. Certo era spaventata non meno che lieta di questa mia improvvisa esplosione. «Anche suo padre era così!» disse a Elisabeth. Oggi lo credo anch'io, può darsi che quella volta fosse mio padre a parlare per bocca mia. Sentivo il bisogno di uscirmene subito di casa.
«Suo padre» continuò mia madre «qualche volta era come una bufera. Quanti piatti ha rotto! Tanti così, quando era in collera!». Allargò tutte e due le braccia per dare a Elisabeth un'idea della quantità di piatti che mio padre aveva rotto. «Due volte all'anno!» disse mia madre. «Era una malattia, specialmente d'estate; quando andavamo a Ischi e si facevano le valigie. Lui questo non lo sopportava. E il ragazzo lo stesso» aggiunse, sebbene non si fosse mai accorta di me in un periodo in cui si usano fare le valigie.
Avrei voluto prenderla fra le braccia, la povera, vecchia signora che poco per volta stava perdendo l'udito. Era giusto così. Non percepiva più i rumori del presente. Sentiva quelli del passato, i piatti fracassati di mio padre in collera, per esempio. Cominciava anche a perdere la memoria, come per il solito capita spesso a persone d'età che stanno diventando dure d'orecchio. Ed era giusto così. Com'è caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi; un poco di confusione anche, poco prima della morte. Le ombre da cui questa si fa precedere sono fresche e caritatevoli.